«Forse siamo sulla strada buona, ora. La donna che abbiamo visto poco fa è convinta di vivere sulla Terra. È questa convinzione che protegge la sua sanità mentale. Lei e tutti gli altri abitanti di questa cittadina sono i pazienti del più grande esperimento d’emigrazione e ipnosi su cui poseremo mai gli occhi in vita nostra».
(Ray Bradbury, Cronache marziane)
Yogyakarta, 31 maggio 2020
Dopo due mesi di reclusione in solitudine nella mia casa giavanese con tutte le difficoltà del caso, dopo sessanta pagine di diario che non so se e quando avrò il coraggio di rileggere, oggi scrivo l’intervento conclusivo, quello che sancisce la fine di un periodo tra i più intimi e difficili della mia vita. Oggi si torna a quello che in Indonesia è definito New Normal, una versione più ridotta e vuota ma sempre altrettanto confusa del ‘Normale’ ed io rompo la clausura all’insegna della sopravvivenza alla Robinson Crusoe, in cui ho fatto un viaggio, abbastanza distopico, all’interno di un posto che da sette anni vivo esclusivamente all’esterno, e soprattutto un viaggio all’interno dei limiti e compromessi della mia forza interiore.
Oggi, oltre alla clausura alla Into the Wild, con alluvioni e invasioni di locuste, si conclude un’amicizia di sette anni e un modo di vivere e vedere la mia amata Yogyakarta.
Il 16 marzo 2020 rimarrà la data ufficiale dell’inizio del blackout (uno dei peggiori mai visti, non c’è ciclone tropicale che tenga). Il 31 maggio 2020 rimarrà la data ufficiale non del ritorno della luce, bensì del rifacimento dell’intero impianto elettrico, come quello ‘normale’, ma nuovo. Per dire se sia migliore bisognerà aspettare la prossima data significativa, forse quella del mio ritorno in Italia (che ancora rimane un’incognita date le politiche sui voli che cambiano ogni minuto).
Ho pensato a lungo se condividere queste cose, ma oggi è il giorno dell’apertura, quindi ecco qui, senza restrizioni di sorta, giù la mascherina, e via.
Scrivo in diretta dal Lotus Mio Cafè, il mio luogo preferito per venire a lavorare.
In una via sperduta che rimane sempre quieta e silenziosa – nonostante sia nel pieno centro turistico cittadino – un piacevole locale con eleganti arredi in legno e con tante finestre che danno su un giardinetto zen, con a fianco un negozio di cioccolata Monggo (la marca olandese-giavanese). Pieno di quadri e statue raffiguranti divinità e scene dal teatro delle ombre.
Pulito, moderno ma locale al tempo stesso. Insomma gli sto facendo pubblicità ma è davvero il posto che ha salvato la maggior parte delle mie deadline accademiche.
Oggi si torna a quello che gli indonesiani chiamano New Normal, ovvero una graduale riapertura delle attività, sempre tenendo conto delle norme di sicurezza tipo mascherine e via dicendo.
La giornata è iniziata col trauma giornaliero, che però si è rivelato anche una soluzione a molti altri problemi: Nisa, la mia ex migliore amica e coinquilina, è venuta a riprendersi le sue cose.
Il risveglio è stato abbastanza brusco. Tra le dieci e mezza e le undici ho cominciato a sognare qualcuno che mi chiamava urlando da fuori il giardino. Alle undici ho realizzato che era una voce vera. Alle undici e dieci ero in piedi dietro al vetro della mia finestra che guardavo basita la scena lì fuori. Mi sono limitata ad andare ad aprire credo sempre in dormiveglia (non ricordo il tragitto fino alla cucina) e l’ho fatta entrare sull’eco di un: “Dovevi venire proprio di mattina senza preavviso?”, che è rimasto ad aleggiare irrisolto nell’aere.
Il tutto è stato rapido e veloce, quasi più del dovuto. Lei è andata in camera a racimolare tutte le sue cose buttando dentro quello che veniva, tipo sfratto. Io mi limitavo a fluttuare nella sala principale in stato di semi-incoscienza, porgendogli di tanto in tanto cose sue che rinvenivo in giro per casa.
Non è mancato il momento circo.
Nisa prova ad entrare in giardino, ma la porta non si schioda. Le dico che è rotta, deve uscire dalla finestra. Quasi rinuncia, ma poi le dico che c’è la roba che era del suo gatto, quindi si convince.
Quando è lì, lì per prendere la sua pianta grassa, le faccio notare che ci sono quindici centimetri di mantide posati sopra, e che prima di portarla in casa dovrebbe farmi il favore di schiodare quella cosa e ributtarla in qualche cespuglio. Dopo tentativi vani (la mantide non si è mossa di pezzo, avresti potuto sparargli, ma perché gli insetti qui sono così testardi e arroganti?) ha demorso.
Quindi ci ho guadagnato una pianta grassa, ma ci ho rimesso l’orologio in salone, che le ho ceduto, tanto era comunque fermo.
Se n’è andata senza neanche una parola, un saluto, un accenno a quello che era o non era successo, così. E ha richiuso la porta su sette anni di amicizia buttati, vorrei continuare con “per”, ma il punto è che non è chiaro neanche quello.
E, chiusa una porta, ne ho aperta un’altra, quella della sua camera, ora un ammasso di rimasugli di cose mie che le avevo prestato, più polvere e cartacce. Mi è rimasto un misto di soddisfazione per aver concluso almeno una faccenda pratica, e amarezza per tutto il resto del non detto. Nel salone, sulla struttura in legno con le lucine fatta insieme uno dei primi giorni di quarantena, ci sono ancora appese le nostre foto. Foto di anni insieme, di viaggi, di spettacoli, di vita.
Poi alla fine ho aperto il portone.
Mi sono preparata, ho indossato il mio kebaya migliore e sono andata verso la città, a cercare un posto in cui iniziare la mia nuova normalità. E quindi eccomi qua coi frullati tropicali, gli ultimi successi anni ’90 occidentali, a scrivere qualsiasi cosa, diari, articoli, proposal, messaggi, di fronte ad una parete piena di barrette di cioccolata ai gusti più improbabili, dal mango al peperoncino.
Non so ancora come e quando cambieranno le politiche sui voli, non so quando potrò tornare in Italia, con o senza permessi, test, tamponi, voli cancellati, scali, transiti…
Ma di una cosa sono certa: il ricordo che porterò con me di Yogyakarta, questa volta, sarà un po’ diverso dal solito. Non sarà la Yogya dei wayang, delle sindhen, della vita artistica, dei mille impegni di ricerca, della socialità e dell’esistenza all’aria aperta.
Sarà un ricordo più crudo, intimo, reale.
Quello che voglio evitare, sicuramente, è che sia un brutto ricordo.
Ed è per questo che voglio ristabilire il più possibile questo nuovo normale, che distanzierà almeno in parte quella bolla di esistenza parallela e distopica che, seppur breve (alla fine sono stata rinchiusa in solitudine per due mesi) ha lasciato un segno indelebile che forse comincerò a dipanare e comprendere a pieno solo tra un bel po’ di tempo.
Questa nuova normalità fa quasi paura, per quanto si riveli come un concentrato di quello che avevo nella vecchia normalità, una selezione di alcuni elementi principali che la ricordano, come rimasugli di un pranzo di nozze, ma vissuti in modo più intimo, per quanto distaccato al tempo stesso, quasi non credendo che sia vero, che ne abbia diritto, e nella completa incredulità che tutto quello che c’era prima possa esser svanito così, dopo una transizione in uno spazio-tempo improvviso e brutale. Un buco incolmabile in una trama difficile da ricucire.
Forse, invece che rammendare i brandelli, si dovrebbe cominciare ad intessere un nuovo capo, più solido, senza troppi fronzoli, essenziale, con solo ciò che conta, ma in modo che non possa essere distrutto mai più.