Karantina

Capitolo 21 – Aria di cambiamenti

«Ora i miei incantesimi
Si sono tutti spenti
La forza che possiedo
È solo mia, ed è poca.
[…]
Non fatemi rimanere
Col vostro potere
In quest’isola nuda,
Ma scioglietemi da ogni legame
Con mani generose.
Il vostro fiato gentile
Colmi le mie vele
Altrimenti fallisce
Il mio progetto
Che era di dar piacere.
Ora mi mancano
Spiriti da comandare,
Arte per incantare,
E la mia fine
È la disperazione,».

(William Shakespeare, La Tempesta)

Yogyakarta, 29 maggio 2020

Giornata da schedare con urgenza nell’albo delle giornate inutili di questa quarantena.

Oggi non trovo la voglia di fare niente. Libri, musica, scritture, lavori accademici, neanche andare a ricaricare il contatore elettrico.
Così, tra un sicuro breakdown e un possibile blackout, mi crogiolo in camera con incensi, candele, tè, e tutto il resto dell’equipaggiamento da imminente attacco produttivo. Ma il massimo a cui posso aspirare oggi è un attacco di panico. La storia dell’uccisione della locusta di ieri, unita ad altri fatti riguardo la mia ex coinquilina di cui sono venuta a conoscenza la sera stessa, mi hanno dato la botta di grazia.

Andata via Lisa col suo carico di traumi che ho contribuito a fornirle, mi sono buttata davanti ad un episodio di serie TV che non ho finito, contrariamente alla bottiglia di vino balinese. Gli amabili resti sono attualmente nel mio lavandino, dato che non ho la minima intenzione di muovere un dito per casa oggi.

Tanto come la metti la metti è sempre il solito campeggio in uno zoo.

Quindi ho semplicemente spento il PC, i miei drammi niente in confronto a quelli di Norma Bates, e ho iniziato il solito tour de force sui social nella speranza di sentirmi meno sola e meno lontana da tutto ciò che ricordo come la mia vita. Poi sono andata a dormire alle quattro di mattina e mi sono risvegliata alle due di pomeriggio. Ho ricontrollato i voli di ogni compagnia conosciuta che voli sull’Indonesia, ma ancora niente di davvero sicuro. Ho sentito che stanno pensando di allungare questo semi-forse-che?-lockdown fino a luglio. Il che contribuirebbe solo a prolungare la mia agonia non garantendo comunque i vantaggi di un lockdown in un qualsiasi paese che sappia come si fa un lockdown.

Ma ormai non me ne frega niente neanche più di quello. Casi, non casi, statistiche, contagi, ospedali, case-libri-auto-viaggi-fogli di giornale… Voglio solo uscire da tutto ciò. Voglio un cambiamento, un cenno che sia possibile riprendere a vivere. Non mi va neanche di uscire, non saprei dove andare, che fare. Non esiste più niente di quello che conoscevo come Yogyakarta. Il massimo a cui posso aspirare è andare a trovare un’amica che non sia totalmente barricata o andare a comprare cose che non mi va di comprare perché spero sempre che non mi servano perché tra una settimana sarò in Italia. Anche il mare o Imogiri diventano blandi palliativi, quasi l’ennesima routine per sfuggire alla routine.

La verità è che vorrei solo salire su un aereo e tornare dalla mia famiglia, tanto solo per constatare che esista ancora, che a migliaia di chilometri di distanza ci sia ancora tutto ciò che ho lasciato per l’ennesima volta con troppa leggerezza con la sicurezza che sarei potuta tornare in qualsiasi momento.

E invece stavolta non è così.

Ho pensato di preparare i bagagli in ogni caso e andare a Bali o Giacarta, la prossima settimana, a tentare la fortuna. Qualche aereo dell’ultimo momento dell’ambasciata, qualche volo commerciale per sbaglio, last second, al quintuplo del prezzo. Qualsiasi cosa. Ma poi ho letto che hanno messo l’obbligo di fare il tampone per andare a Bali o Giakarta e mi sono immaginata le trafile inconcludenti agli ospedali yogyanesi e ho soppresso l’idea.

E quindi siamo ancora qui, mentre Frau canta Tarian Sari nella struggente scala sundanese. Seduti al solito sgabello scomodo con incensi balinesi, candele alla finestra, oggi aperta eccezionalmente, dato che il gatto randagio che ha deciso di piombarmi in stanza facendomi prendere un colpo ha evidentemente spaventato il parco insetti sottostante, quindi per qualche ora siamo a posto. Sto attendendo che l’acqua del gallone si scaldi per farmi un tè ed iniziare a fare cose sicuramente più utili di questo diario.

Il vicino era uscito con la moto. Poi evidentemente ci ha ripensato. È tornato indietro e ha pensato di mettersi ad armeggiare inutilmente in giardino per attirare la mia attenzione.

C’è sempre una buona scusa per chiudere la finestra, comunque.

Più tardi

Mentre sono nel pieno delle mie paturnie tra citazioni di libri letti, social media e tendenzialmente ozio ed autocommiserazione, sento voci che urlano qualcosa in italiano male.

Scruto meglio nel buio del giardino, dalla finestra, e vedo un motorino parcheggiato davanti al cancello. Poi riconosco le voci: Sietske, la mia amica olandese e Vino, il marito indonesiano. Si erano avventurati al sud della città per fare acquisti alla bakery e hanno pensato di venirmi a trovare, portandomi del gelato. Li ho fatti subito entrare senza farla troppo lunga su mascherine e sanificazioni e abbiamo trascorso un’oretta e mezza a chiacchierare.

Il karma mi viene sempre in soccorso nei momenti peggiori.

Ad un certo punto Sietske caccia un urlo.
Seguo il suo sguardo che punta verso la cucina.

Rilascio il respiro trattenuto: “Ah, è solo il topo”.

Lei scoppia a ridere.

Io sono serissima.

Mi guarda come fossi pazza.

Le dico che è una delle specie più innocue che popolano questo stabile e le offro un giro tra le processioni di blatte e le mantidi del giardino sul retro.

Mi crede sulla parola.

Mi invitano ad andare in piscina con loro domani. Hanno riaperto le piscine, ma non le palestre. Sorvolo sulle scelte governative. Penso proprio, dopotutto, che ci andrò. Penso proprio che comincerò a riprendere diverse attività.

La faccenda dei voli sembra ancora lunga e non intendo fare la fine della pazza vittoriana rinchiusa in manicomio col topo.

Yogykarta, 30 maggio 2020

Oggi è il giorno del cambiamento di mentalità. Un giorno importante e decisivo. Oggi è ‘quasi giugno’, ed è incredibile, perché ieri era ‘già marzo’.

Sono le due e mezza del mattino e piove come non ci fosse un domani, un acquazzone iniziato ore fa e mai interrotto. Riesco a sentire il martellare delle piogge con tutte le cuffie audio-isolanti. Io sono sempre chiusa qua dentro con le mie luci tremolanti e qualche blatta in agguato. Oggi però è stata una giornata positiva perché mi sono decisa, ho superato la sindrome della capanna, del Covid, di tutto, e sono andata in piscina con Sietske.

Mi sono fatta tutto il tragitto cittadino percorrendo strade interne, da sud a nord, con molta calma, godendomi ogni curva, osservando ogni cosa, senza la fretta, l’ansia e il nervosismo che contraddistinguono solitamente i tragitti in motorino in città. E senza GPS. Ho memorizzato più strade di quante creda senza rendermene neanche conto. Non mi sono persa neanche una volta.

Sarà la calma zen che ho acquisito durante questa quarantena (ho fatto un lavoro interiore immenso), sarà perché obiettivamente non è che avessi poi nulla di che da fare, non esiste più alcuna urgenza dell’impegno, fatto sta che è stato il tragitto più rapido e piacevole di sempre.

Ho imboccato il vialetto del Jayakarta Hotel, fonte di ricordi che risalgono a qualche esistenza fa, tipo febbraio. Quando andavo in palestra, quando vivevo da Sietske, quando ancora non mi ero trasferita nella casa a Sewon, quando Linda, Bagas… quando?

E chi può più dirlo.

L’Hotel è funzionante solo in parte, un’intera ala è chiusa e non c’è più il personale, dunque niente più facilities tipo la palestra e la Spa. Ma per qualche mistero la piscina è aperta, nonostante nessuno controlli all’entrata e sia letteralmente deserta. C’eravamo solo noi. È incredibile come ogni posto noto che ricordo pieno di persone e vita sia diventato la copia tropicale del set di Io sono Leggenda.

Ci siamo fatte una bella nuotata sfogando tutte le ansie ed i pensieri. Ho rilassato ogni legamento grazie alla pressione dell’acqua e sono stata minuti assorta in un ‘morto a galla’ che ha cancellato ogni brutto ricordo di panche in bambù, sgabelli e pavimenti scomodi.

Un bagno di acqua, sole, aria e sfogo di adrenalina. Parlare con un’amica. Cose che ho sempre dato per scontate. Cose a cui non voglio mai più rinunciare.

Jayakarta Hotel

E quindi oggi avviene il cambio di mentalità.

Si passa dalla modalità ‘survival’ al new normal, come lo chiamano in Indonesia. Un ‘nuovo normale’, diverso dal normale vecchio ma comunque più vicino al normale di quello che è stato fino ad ora.

Ho deciso che domani prenderò il mio computer e i miei libri e andrò al Cafè di sempre, dove andavo a lavorare ai miei scritti ai tempi del ‘vecchio normale’. Era comunque sempre deserto anche prima del Covid, quindi non credo che sia cambiato molto.

Ho deciso che uscirò ogni giorno anche solo per una commissione. Non voglio più essere rinchiusa in una gabbia tropicale a combattere coi miei traumi presenti e passati. Ho già fatto abbastanza lotte, alcune le ho vinte, di altre ho preso piena coscienza. Ora voglio tornare all’esterno e sperimentare la ‘nuova me’, nel ‘nuovo normale’.

Anche perché il volo per l’Italia rimane ancora un’utopia, dopo gli ultimi decreti indonesiani. Hanno messo l’obbligo del tampone almeno e non più di sette giorni prima del volo, più varie lettere di permesso che neanche mi sono presa il disturbo di controllare. Anche per voli internazionali. Il che rende tutto ancora più difficile da organizzare per le tempistiche e gli imprevisti del caso.

Se devo rimanere qui, anche ‘solo’ un altro mese, voglio che duri esattamente un mese e non dieci anni. Voglio che sia un’occasione per riacquisire il ricordo che avevo di Yogyakarta e della mia vita indonesiana, per quando ‘nuovamente normale’.

Voglio fare un passo avanti, un passo fuori.

Fine maggio per me segna la fine della quarantena, per lo meno come l’ho concepita fino ad ora. Non voglio più giocare al gioco dei sopravvissuti sull’isola tropicale, da oggi l’esterno esiste, ed è usufruibile anche se in maniera limitata e ovviamente svuotata di tutto ciò che c’era prima. Ma ricominciamo a riempire tassello per tassello.

L’alternativa è un trauma irreversibile che non posso permettermi.
Questo è il mio limite.

All’inizio è stato strano, quasi divertente, ci sono stati cali superabili, sono riuscita a trovare soluzioni. Poi ho cominciato a scivolare gradualmente in una zona d’ombra in cui riuscivo a tirarmi fuori sempre più a stento e ho quasi cominciato ad adattarmi ad un’esistenza limitata e solitaria, divenendo una completo disadattata. Non lo sono mai stata e non lo sarò ora. Rivoglio una vita. Per quanto ‘finta’ e ‘vuota’, una ‘nuova normale’ vita, mi va bene comunque.

Quindi, da oggi inizia il new normal, non solo ufficialmente, per decreto governativo, ma anche emotivamente, per decreto della mia coscienza.