«Thus, fear of danger is ten thousand times more terrifying than danger itself when apparent to the eyes; and we find the burden of anxiety greater, by much, than the evil which we are anxious about».
(Daniel Defoe, Robinson Crusoe)
Yogyakarta, 27 maggio 2020
Oggi la giornata è iniziata affollata.
Per colazione abbiamo avuto pancake con cioccolato fondente sciolto e fragole con miele al lime, condito da blatta gigante volante nel lavandino.
Ovviamente mi è sbucata fuori all’improvviso mentre ero intenta a sciacquare le tazze per la colazione, planando sui piatti e cominciando a scorrazzare per tutta la cucina. Inutile dire che ho cominciato a sparare Baygon su tutto quello che mi capitava a tiro che manco un cacciabombardiere su un campo di vietcong. Inutile dire che ho dovuto rilavare tutto per evitare di rimanerci secca una volta per tutte.
Poi la giornata è continuata con tentativo di boccata d’aria tramite finestra del giardino sul retro, starring: mantide gigante dondolante e seconda blatta accroccata sul muro lì vicino, intente in un brunch. Ritratto di famiglia.
Chiudi finestra, come non detto, muori soffocata.

Quindi c’è stata la ‘doccia’ accompagnata da blatta gigante stecchita in bagno e lettura mattutina in salotto in compagnia di blatta gigante volante che ha fatto uno scatto tipo McLaren da sotto le panche di bambù. Rientrata subito ai box con altra scarica di Baygon. Oggi le antenne mi cresceranno a me.
Alla quinta blatta avrei chiamato l’Unità Emergenze dell’Ambasciata.
Non so come andrà a finire questa giornata, zoologicamente parlando.
Sera
Alla fine la situazione si è ripresa.
Dopo un primo pomeriggio uggioso e piovoso in compagnia di letture varie, è venuta Lisa.
Oggi non ci andava particolarmente di studiare. Lei ha fatto ben due pagine di test d’inglese. Io ben tre righe di book proposal e quattro dell’articolo per il Malaysian Journal of Music.
Ma abbiamo fatto un sacco di tè, mangiato i biscotti alle arachidi (tipici del post-Ramadan) abbiamo chiacchierato un sacco e cucinato il pollo in salsa gulai con latte di cocco e il tempe fritto.
Il tutto si è aggiunto alla pizza Napoli ordinata per merenda dal ristorante Nanamia (sorvoliamo sul nome), il cui povero fattorino è stato tra l’altro bloccato all’entrata del complesso residenziale dall’uomo della security, perché non aveva la mascherina. Fanno party islamici e warung e mercati sono affollati come non mai, ma sull’asporto abbiamo misure ferree. Buono a sapersi.
Quindi abbiamo preso il motorino (senza mascherina) per raggiungere la guardiola e abbiamo beccato l’uomo della security a metà strada che ci portava personalmente la pizza (senza mascherina).
Il solito circo, niente più niente meno.
Tra l’altro pare che da due giorni a Yogya si registrino zero casi di Covid. Quindi è da due giorni che non fanno test.
Poi abbiamo passato la serata a scovare video di mie performance su YouTube caricati a tradimento da artisti locali, con titoli improbabili.
Dopo la benedizione di Baygon serale e una ‘doccia’ a lume di torcia, senz’altro romantica, ce ne andiamo a dormire con lo stomaco tondo, stipate più di due tacchini il giorno del Ringraziamento.
Yogyakarta, 28 maggio 2020
Sveglia alle 11.00 col fresco.
È da due giorni che non smette di piovere.
Lisa è già lavata e vestita, ha fatto colazione col resto del gulai di ieri ed è comodamente seduta al tavolino a fare i suoi esercizi d’inglese.
Io per tutta risposta, mi butto sul tavolaccio di bambù in pigiama, con due fette di pane e una ciotola di papaya fresca col miele, e mi butto nella lettura di un nuovo grande classico (dopo aver terminato Heart of Darkness) che mi pare adattissimo alla mia situazione corrente: Robinson Crusoe.
Passiamo qualche ora assorte nei nostri volumi, con qualche pausa musicale a suon di langgam jawa, tè, caffè istantanei e snack.
Poi, quando tutto sembra procedere come un tranquillissimo pomeriggio di sole dopo due giorni di tempesta… “pok”. Un rumore sordo sulla porta.
“Non guardare” mi fa Lisa mentre si affretta a chiudere la porta.
“Che c’è?”
“Wally, sulla porta di casa”.
No, non di nuovo.
Più tenaci dei Testimoni di Geova.
Dopo ben tre giorni di pace di cui uno di party coi pesticidi e due consecutivi di piogge torrenziali (mi pare giusto), torniamo ai vecchi fasti.
E ricomincia la caccia.
Ma stavolta è peggio.
La prima mossa è quella di spruzzare il nuovo amico pesticida dalla finestra, sfruttando un’apertura minima e una mira da cecchino.
La locusta non si muove di pezza. Non sembra minimamente disturbata dalla pioggia di veleno tossico che le sta piovendo addosso.
Poi comincia a muoversi a piccoli passi, come ubriaca.
Seguiamo ogni movimento come due predatori in agguato nella savana.
Seguono disgustose svolazzate rintronate e tentativi di arrampicata su piante e cose varie, che si concludono a zampe all’aria nell’aiuola di fronte.
È morta?
Lisa esce a controllare.
No, è viva e vegeta. Solo leggermente ‘fatta’.
In pratica gli ho fatto da pusher. Quasi le offro anche il vino.
La seconda mossa è: riproviamo con la busta. Metodo che si era rivelato efficace la collega della scorsa puntata. Ma questa è evidentemente più scaltra, e anche già parecchio disturbata per la storia del pesticida. Come la mia amica la mette in busta questa scalcia e la punge con la zampa anteriore. Lisa torna in casa con un dito insanguinato e finisce miseramente così il secondo round.
Per il terzo ci ingegniamo.
Munite di: lungo bastone, carta, forbici, colla, scotch biadesivo e tutorial YouTube su come acchiappano le cavallette a Wonosari (quelle che poi vendono fritte in salsa piccante agli angoli della strada), diamo vita ad uno dei più raccapriccianti Art Attack nella storia del fai da te. Ripartiamo all’attacco.
Penso che se ci fossimo ritrovate un giaguaro in giardino non avremmo fatto tutta sta giostra.
Dopo vari preparativi e strategie di approccio (mancavano solo urla tribali e sacrifici a qualche divinità della guerra) ci ritroviamo così: io trincerata dietro la porta con straccio di lana in una mano e insetticidi vari nell’altra e Lisa in prima linea al fronte con bastone da caccia, giubbetto impermeabile e casco del motorino con visiera abbassata.
È SWAT.
La tattica sarebbe consistita nell’incollare l’animale sul bastone per poi disporne a piacimento.
Ma qualcosa è andato storto. La colla non incolla.
Dunque, dopo interminabili attimi di impasse narrativa, con Lisa che tratteneva la cavalletta tra bastone e muro di cinta tra i sudori freddi e me che continuavo a fare dentro e fuori con stracci inutili e urla ancor più vane, abbiamo optato per la soluzione più estrema ma efficace: la morte da schiacciamento. Peggior sorte di ogni insetto daquando hanno inventato le suole da scarpa.
Quando finalmente la povera bestia era immobile sul terriccio, senza vita, abbiamo cominciato ad essere sopraffatte da un orrendo senso di colpa misto a riflussi gastro-esofagei, misti a depressione post-traumatica.
Non avremmo voluto arrivare a tanto, ma non c’era altra scelta. È diventata una vera e propria piaga e non c’è verso di tener lontani gli stormi neanche coi pesticidi.
So che non sarà finita qui e domani ne troverò un’altra identica che mi impedirà di andare in lavanderia o semplicemente di prendere una boccata d’aria, ma tra tutto il senso di dispiacere per avere ammazzato una cosa vivente e lo schifo della scena stessa, devo dire che si è fatto anche largo un certo senso di soddisfazione. Una di meno.
Comunque ho acceso un incenso al frangipani e l’ho piantato in giardino vicino al cadavere della locusta.
Ora faccio anche funerali ad insetti, incredibile.
Dopo quest’ultimo fantastico approccio col mondo animale mi si è abbastanza chiuso lo stomaco, quindi mi sono fatta un tè alla menta.
Mentre le rane gracidano festanti, la moschea fa dei richiami flebili che suonano più come un ricordo lontano che un dato di fatto, e il mio contatore mi ricorda che devo ricaricare l’elettricità entro massimo tre giorni tramite il consueto martellante “bip” in ostinato, credo proprio che continuerò a leggere Robinson Crusoe.
Magari trovo qualche suggerimento su come continuare a campare questi – spero ancora pochi – giorni.