«Ho quello che corrisponde a una religione, ora; è come imparare a respirare di nuovo, come starsene distesi sotto il sole ad abbronzarsi, lasciando il sole penetrare poco a poco nel nostro organismo. Come sentire della musica, leggere un libro. Che cosa offre la sua civiltà terrestre, comandante?».
(Ray Bradbury, Cronache marziane)
Yogyakarta, 12 maggio 2020
Oggi volevo fare un po’ il punto della situazione. Vediamo quali sono stati i momenti salienti di questa reclusione da due mesi a questa parte.
Molte cose le ho già descritte in parte nei capitoli precedenti, quindi darò solo dei piccoli approfondimenti. Facciamo una Top 10 con conto alla rovescia dalle cose più consuete a quelle più insostenibili.
Karantina Highlights
N°10 – Il Divano Scomodo
Non ho mai avuto un vero divano in Indonesia. Anche perché qui non c’è esattamente la cultura del divano, come non c’è quella della poltrona, del tavolo o della sedia. Qui c’è la cultura del tappeto, della stuoia o del padiglione in legno e piastrelle fresche e lucide, su cui tutta la famiglia, o amici o conoscenti, si siedono in circolo, senza gerarchie, in basso, al contatto col terreno, senza bisogno di sostegni e rialzi. L’unica cosa che somiglia ad un salotto e non manca nelle case dei più abbienti o degli occidentali sono le panche in bambù. Anche io ne ho un bel set che fa angolo nel mio ingresso/salotto e che sono il cuore del focolare domestico.
Scricchiolanti, dure come la vita, altamente instabili e poco resistenti ad acqua, al peso eccessivo, agli insetti. Insostenibili anche con pile di cuscini posizionati in luoghi strategici. È come se le fibre del bambù penetrassero l’imbottitura per darti comunque fastidio. Modello principessa sul pisello, ma con intere piantagioni.
Mi vengono in mente tutte quelle sere in cui ho provato a simulare il Netflix & Chill, accroccata male col nervo sciatico che si infiammava ancor prima di sedermi, tanto per ricordarmi a cosa andavo incontro. Con il computer posizionato su tavolino di bambù che come lo mettevi lo mettevi era comunque un invito al torcicollo ed un piatto con del cibo che comunque non conteneva abbastanza carboidrati pesanti, unito ad un bicchiere di qualcosa che comunque non conteneva alcol.
Nota bene: il tavolino è troppo basso se ti siedi sulle panche, troppo alto se ti siedi per terra, all’indonesiana. Loro stanno comodissimi sul pavimento comunque, le sedie non le considerano proprio. Le sedie! In casa non ho neanche una sedia. Posso sedermi sulle panche del male, o su sgabelli in plastica colorata che forse mi avrebbero sorretta a cinque anni, o sul materasso o sull’ amaca in giardino.
Sembra un’inezia, ma rimanere tre mesi segregati nella propria casa e realizzare di non avere neanche un punto di appoggio confortevole per leggere un libro, guardare un film, bersi qualcosa, alla lunga diventa logorante. Le mie ossa sono cresciute su mobilio occidentale, è troppo tardi per formarle alle snodate sedute indonesiane su superfici piatte. È solo un piccolo tassello che contribuisce in modo insidioso alla mia costante instabilità fisica e mentale durante questa quarantena.
N° 9 – Intrattenimenti creativi
Calcolando che sono in una casa in cui… ho già detto che non ho Netflix? E in cui… ho già detto che non ho il WiFi?
E dove… si è capito che vivo in campeggio?
Insomma, i miei hobby ed intrattenimenti – levato il lavoro accademico che in queste condizioni non mi sento proprio di poter affrontare – sono i seguenti:
Libri – pochi e rigorosamente sull’Indonesia, Sudest asiatico o mattoni classici in lingua originale (qualsiasi essa sia). Avrei il Kindle ma non posso aggiornarlo in quanto… ho già detto che non ho il WiFi?
Ho anche due o tre libri accademici ma inutile dire che stanno accumulando strati di polvere e miseria.
Finora ne ho finiti quattro: Beauty is a Wound (Eka Kurniawan), The Jaipong Dancer (Patrick Sweeting), First they Killed my Father (Loung Ung) e Vengeance is Mine all Others Pay Cash (Eka Kurniawan).
Tutti magistrali, solo l’ultimo mi ha lasciato alcuni dubbi, ma leggerei qualsiasi cosa abbia a portata di mano. I libri sono un’altra cosa che non fa proprio parte della cultura indonesiana. Gli indonesiani non leggono, o lo fanno di rado e niente di impegnativo. Non vedrai persone leggere sui mezzi pubblici (anche perché già ci sono a stento mezzi pubblici). Non vedrai grandi librerie a parete anche nelle case dei più abbienti. Di librerie ne vedrai poche, tra cui la più famosa, Gramedia, che vende libri solo per metà, uniti ad articoli sportivi, di musica, viaggio, cartoleria, elettronica. I reparti stessi dei libri non sono un granché. Per buona parte sono libri a tema religioso (musulmani, rigorosamente), graziosi corani tascabili decorati e rilegati. Poi ci sono i romanzi degli scrittori locali, fumetti, dizionari di lingua e i classici di hobbistica (cucina, giardinaggio e via dicendo). Se vuoi qualche classico straniero devi andare alla Periplus, dove tutto è comunque in inglese e costa un occhio. Anche lì non trovi grandi classici esistenziali, ma magari trovi un Haruki Murakami, un Orhan Pamuk, che comunque ti svoltano la giornata. È lì che ho comprato la mia misera collezione nella mia misera libreria domestica (se così si può chiamare). Niente più che un misero scaffaletto riempito con un misto di libri in italiano (portati in viaggio faticosamente a scapito della mia schiena), in inglese e in indonesiano o giavanese. Non è niente riguardo alla collezione di libri che ho a Roma, intere librerie a parete piene di volumi di ogni sorta, da fare invidia alla Biblioteca Nazionale. Ma qui nel mio piccolo mondo tropicale quello che ho è sufficiente. La verità è che anche io leggo poco qui, perché, come tutti, vivo all’esterno e attivamente, senza tregue, senza pause, nel presente.
Serie TV – quelle poche prese abusivamente al Warnet in scarse quantità, perché in tempi migliori “vabé vedo queste poi ne prendo altre”. Ergo, ho rivisto Bates Motel in ogni lingua e da ogni angolazione quasi mi credo pure io Norma Bates.
Ho finito anche Devious Maids (unico barlume di allegria in un esercito di desolazione e lacrime) e American Horror Story Cult. Avrei anche visto la terza stagione di Thirteen Reason Why ma non ricordo le prime due, che non ho preso sempre perché “vabé vedo queste poi…”. Stesso problema con Game of Thrones.
Ho visto anche addirittura un film: Trash. Mi è sembrata un’esperienza futuristica. Io non vedo mai film in Indonesia. Non ho proprio la televisione e non ne sento la mancanza. Solitamente vado al Warnet con i miei coinquilini e faccio incetta di ogni cosa sul mio hard disk. I Warnet sono luoghi interessanti, ufficialmente Internet Café, in pratica covi di smercio abusivo di contenuti multimediali. Puoi affittarti il tuo loculo di un metro per due, piazzarti un’oretta pagata a consumo davanti ad un rudere di Windows dalla connessione lenta e costosa – ma a te non importa perché non sei venuto davvero per quello – e cominciare ad aprire le varie cartelle di film, giochi e musica, e buttare dentro tutto quello che riesci a fare entrare nel tuo tempo a disposizione. La cosa bella è che in Indonesia non c’è doppiaggio, dunque tutto è in lingua inglese con sottotitoli indonesiani, che a me va più che bene. Il Warnet ha salvato parte delle mie notti insonni e solitarie.
La Musica – questo è forse uno dei miei intrattenimenti più quotati. Prevede diverse attività. Una è lo studio di nuovi brani kroncong, langgam, sindhen, dangdut, qualsiasi genere indonesiano mi capiti a tiro. Me li trascrivo su dei quadernetti a tema e ogni tanto ne memorizzo uno nuovo o canto quelli vecchi con YouTube o chitarra (se ha accordi facili). Inutile dire quanto rimpiango il mio pianoforte e il mio set di gamelan. Oltre a questo tento di lavorare alle mie canzoni e fare tutorial di chitarra (senza gli altri musicisti è un delirio). Talvolta registro qualcosa, se mi viene bene, e giro tremendi videoclip stile pre-diciottesimi partenopei in giardino, che poi monto con un altrettanto raccapricciante Movie Maker.
Un altro passatempo musicale che sta prendendo piede durante questa quarantena è quello di tradurre canzoni dall’inglese all’indonesiano e viceversa. E ovviamente registro quelle che vengono meglio e ci appioppo il video pre-diciottesimo.
Poi niente talvolta canto sotto la… non si può manco definire doccia. Vabè, talvolta canto mentre mi tiro secchiate d’acqua fredda addosso o mentre lavo i piatti con scopettone tattico in una mano. Ergo: i piatti rimangono a giacere nel lavello per giorni perché alla fine me ne frego e continuo a cantare.
Halo Cantik (Bella Ciao, versione indonesiana)
Si Boneka (La Bambola, versione Indonesiana)
Ayo mama (canzone popolare indonesiana)
La scrittura – nonostanteaccademicamente questa quarantena sia abbastanza improduttiva – sarà anche il fatto che non ho internet né tutti i libri di cui avrei bisogno – e in quasi tre mesi abbia portato a termine un articolo e mezzo a stento, non si può dire che non mi dedichi alla scrittura. Oltre ai vari testi musicali, cui mi dedico con cura ogni pomeriggio o sera a lume di candela come un monaco benedettino, passo molto tempo a trascrivere diari di viaggio (nella speranza che presto tornerò ad avere internet e potrò tornare a dedicarmi al Blog), poesie, e non ultimo questo diario di quarantena, che mi aiuta ad affrontare questa reclusione con più forza d’animo e notevoli dosi di umorismo. Senza la scrittura non riuscirei a tenere i nervi saldi più di tanto. La scrittura è una forma di dialogo e anche se non vedo anima viva da giorni, forse settimane, mi sembra comunque di continuare a mantenere un legame con il mondo esterno.
N° 8 – Escursioni ed incursioni/ansia sociale
A parte le commissioni necessarie, tipo spese al Superindo e al ViaVia, rifornimento gas e acqua ai warung qui vicino e emergenze agli Alfamaret ed Indomaret (elettricità, pile, repellenti vari, medicine) ho fatto qualche escursione ‘extra’, non senza sentirmi una criminale evasa da un carcere di massima sicurezza.
In realtà queste escursioni si possono contare sulle dita di una mano.
C’è stata la gita in motorino tra le montagne di Imogiri, quando ancora c’era la mia coinquilina. Un pomeriggio d’ora d’aria tra monti e risaie, vedute mozzafiato e cacciatori di cavallette. Si, esistono anche quelli. E il procedimento fa anche abbastanza schifo, con questi bastoni lunghissimi riempiti di colla, su cui… vabè, si immagina facilmente.
E le due gite alla spiaggia di Parangtritis coi cuoi colori da tavolozza al tramonto. Indimenticabili.
Poi che altro? Due mangiate in compagni con Lauretta ed Ester, all’insegna del cibo italiano quello pieno di grassi feroci e carboidrati cattivi e alcol.
L’alcol, che miraggio.
Tutte queste – in realtà poche – uscite hanno risvegliato in me sentimenti controversi. Da una parte mi sembravo il naufrago che torna nella civiltà, dall’altra un’incosciente irresponsabile, e in più c’era un altro misto di sentimenti controversi che si annullavano gli uni con gli altri.
Per dire che, comunque, nonostante tutta la natura qui intorno non è così facile prendere e decidere di andare chissà dove. Anche se puoi, perché non c’è il lockdown ufficiale, perché hai comunque il motorino, perché tanto nessuno controlla. Ma c’è sempre quell’ansia sociale in agguato e quella ‘sindrome della capanna’ che non ti lasciano libero neanche di fare le cose più scontate.
La quarantena qui non è tanto un’imposizione esterna quanto uno stato d’animo. Come il Laos. Ma io non sono Terzani e qui di spirituale c’è proprio poco.
N° 7 – Il trauma della Spesa
Le uscite per ‘necessità’ hanno un impatto leggermente diverso. Appunto perché sai che non puoi farne a meno, quindi comunque ti decidi, ti armi di mascherine, disinfettanti e odio sociale ed esci dal vialetto di casa. Non senza iniziale riluttanza. Poi, comunque, oltrepassata la guardiola del Pos Satpam (tipo colonne d’ercole) la sensazione cambia. E lì, col vento in faccia e la strada davanti, ti senti un misto tra un rilasciato su cauzione e un combattente che sta andando a procacciare approvvigionamenti ai compagni.
Il sentimento cambia di nuovo appena raggiungi il parcheggio del supermercato. Comincia l’ansia vera. Vedi tutti quegli assembramenti di potenziali infetti davanti a te ed è come buttarsi nella mischia e combattere, come ne esci ne esci.
Dentro il supermercato è tutto un videogioco: porta a casa più cose utili possibili evitando più nemici che puoi. Ci sono varie strategie, tipo fare una lista dettagliata tenendo conto della topografia del supermercato. Ma possono esserci imprevisti, tipo quando cambiano i reparti, e lo fanno.
Ogni corsia percorsa più di una volta sono punti in meno, ogni persona sfiorata è una vita in meno.
Poi c’è la noia. Che dopo due mesi non sai più che cucinare, compri sempre gli stessi quattro ingredienti in croce e come ti azzardi a metter dentro qualcosa di inconsueto che coglie la tua attenzione, sai già che finirà in tragedia. Ma lo prendi lo stesso, almeno dai un senso all’azzardo dell’uscita.
Segue ansia da “chi ha toccato il mio motorino?”, visto che i parcheggiatori qui hanno l’abitudine di spostarteli. E via di disinfettante a spruzzare come un contadino con una tanica di diserbante.
Mentre torni a casa sei soddisfatto, un po’ perché comunque l’uscita fa bene, checché se ne dica, all’umore. Un po’ perché hai compiuto la missione e sai che per almeno due settimane starai a posto, lontano dal fronte di guerra.
Poi niente, torni a casa, metti a posto il bottino, magari ci fai qualche video o foto per Instagram con gli articoli più assurdi, e stai da capo a dodici.
E pensare che per me andare al Superindo era una commissioncina serale di sfuggita tra la scuola di canto e il Muay Thai.
N° 6 – Laudry Service
La faccio breve: una bacinella piena di sapone solubile scadente, un rubinetto nel giardino sul retro e tanto olio di gomito.
Risultati: tavole di compensato inodore, taglie fai da te.
Quando rivedrò la signora della lavanderia le salterò addosso in lacrime molto poco dignitosamente.
N° 5 – Utensili da cucina
La mia cucina si compone di: doppio fornello da campo di cui uno recentemente rotto (R.I.P) con bombola da ricaricare ogni quando finisce. Cioè più o meno ogni settimana. Lavandino minuscolo così attaccato al fornello che se lavo i piatti mentre cucino mangio sapone. Uno scolapiatti con 3 piatti di plastica, due scodelle in ceramica, una pentola in teflon, due tegamini bruciacchiati, cucchiai a volontà, un coltello sano, un coltello rotto, qualche forchetta, cose di plastica a caso dal dubbio utilizzo. Poi, un cuoci-riso elettrico, un frigorifero con freezer rotto e un frullatore rotto.
L’ultimo utensile l’ho creato unendo la lama del coltello rotto ed il martello: mai avuto apriscatole migliore (perché, c’è da dire, che io ho comprato dei barattoli senza linguetta consapevole di non avere un apriscatole vero).
N° 4 – Guasti casalinghi
Come non menzionare la maniglia del giardino sul retro che mi è rimasta in mano, impedendomi di accedere per vie usuali.
Vedi: dalla finestra come i ladri.
La già menzionata rottura del freezer è stata un duro colpo, anche perché mi ha vista nell’intento di rompere blocchi di ghiaccio, sempre col fido martello, per poi svuotare vasche d’acqua che colava ovunque sui cibi (perché qui freezer e frigo li fanno tutt’uno, i furbi). Inutile dire che ho buttato mezza spesa.
Altra punta di diamante è stata la rottura della porta del bagno, rappezzata con chiodo sul battente ed elastico sulla maniglia.
Seguono guasti minori tipo quello della torcia elettrica da blackout che fa luce da stadio (ma per fortuna stanno finendo le piogge quindi confido nella stabilità del contatore nei giorni venturi). O la rottura degli altoparlanti del mio computer, quindi ora posso ascoltare musica solo con cuffie o cassa bluetooth.
N° 3 – La cucina fai da te
Ho già parlato a sufficienza delle mie ricette, credo. Questo diario è una rubrica di cucina. Mi sono annoiata da sola.
Aggiungerò solo poche considerazioni.
Non sono mai stata un fenomeno in cucina. Diciamo che alterno clamorosi fallimenti a piatti di routine a sporadiche genialità (ma visto che faccio tutte le dosi a cavolo non ricordo mai cosa ho fatto quindi non riverrà mai più uguale).
Ecco, qui va esattamente così. Alterno piatti di repertorio tipo pasta al tonno, pasta al ragù e pasta ai piselli (gli unici tre tipi di pasta che puoi fare in Indonesia), curry di verdura e carne in padella a cose orrende tipo il pollo gommoso coi funghi finti a cose geniali tipo le polpette all’orientale. Poi ci sono cose che giacciono in un limbo di dubbio, tipo il pesto alla gianovese (giavano-genovese) fatto di: anacardi, kemangi basilico giavanese che è dolce e piccante), olio d’oliva spray, pepe bianco indonesiano, parmigiano australiano.
Non era cattivo, ma non ci vivrei.
Poi c’è l’alcol.
Unici esemplari reperiti: una birra Corona (ironia della sorte), un vino bianco da 15 euro in un negozio import-export e un black clementello fatto in casa probabilmente con alcol tossico.
N° 2 – Il Ramadan
Il Ramadan è stato l’elemento che ha dato quel tocco in più che mancava. Come i canditi nel panettone.
Perché essere segregate in casa per due mesi non bastava.
L’insonnia regolare non era abbastanza.
Abbiamo dovuto aggiungere una preghiera extra alle due di notte ad altoparlanti spiegati (unite alle quattro consuete più lunghe e ‘sonore’ rispetto ai tempi normali), la totale mancanza di alcol neanche nei peggiori bar de Prawirotaman e le occhiate sospette dei vicini filo-fondamentalisti. Degli hooligans dell’Islamismo. Pronti qui al cancello di fronte. Roba che se ti vedevano indossare degli shorts nel giardino di casa tua ti guardavano come fossi il detentore del premio infedele 2020.
Poi se proprio vogliamo aggiungere le colonne sonore di pop arabo al supermercato, i raduni di massa che comunque sono una garanzia durante una pandemia, e una serie di notizie raccapriccianti di capi religiosi locali su come guarire il virus con la preghiera, abbiamo un po’ il pacchetto completo.
Inshyallah
N° 1 – Lo zoo
Questo credo sia il mio paragrafo preferito, che è anche diventato il mio passatempo preferito durante questo lungo periodo solitario.
È stato praticamente un reality. Lo chiameremo The Zoo.
Tra i concorrenti di spicco:
La cavalletta gigante, vincitrice della prima (e spero ultima) edizione, che ha resistito ben due settimane nel giardino sul retro e qualche altro giorno in quello di fronte appropriandosi di tutto ciò che era mio, dai panni stesi, al motorino, alla dignità.
Poi il Tokkay, il geco gigante a pois che infesta la mia casa credo da generazioni, ma ha pensato bene di venire allo scoperto proprio nel periodo più nero e farlo in grade stile: abbarbicato sul muro della mia camera sopra il letto. Ho passato una nottata in bianco a rincorrerlo con la scopa, con lui che correva da un mobile all’altro ‘ruggendo’ cose e me terrorizzata perché se si sente attaccato e ti morde non ti si stacca più dal braccio e devi chiamare un esorcista.
Si è conclusa alle cinque di mattina col geco fuori, me che mettevo scotch sulle uniche due prese d’aria e la camera a soqquadro tipo ispezione dei Ris di Parma.
Il giorno dopo era in cucina ma a quel punto avevo già una blatta volante gigante sotto al lavello e una cavalletta sul bucato quindi non me ne fregava più niente.
Il topo è stato un ospite furtivo e silenzioso. Lo sentivo solo di notte, mentre frugava nella mia spazzatura e poi levava le tende come muovevo un passo. Poi ad un certo punto non l’ho visto più. Non so se il veleno ha funzionato (dopo ben due mesi, lo raccomando) o se anche per lui la situazione stava diventando un po’ troppo affollata. Tipo me al Superindo. C’avrà pure lui l’ansia sociale.
I rospi e i lucertoloni vanno e vengono dallo stagno che si è creato nella mia tecnicamente vasca per pesci in giardino. Inutile dire che non ci sono pesci ma solo un’inutile palude verdastra.
Ma quelli sono innocui.
Una volta ne ho trovato uno semi-morto nel secchio che uso per lavare i pavimenti. Non so che necessità aveva di infilarsi là dentro.
Altri concorrenti minori sono la vespa gigante che ha nidificato in salotto, zanzare ad alto contenuto malarico, cose che volano o saltano sporadicamente ma sono di dimensioni così piccole che manco ci faccio caso.
Ah, poi c’è il grillo gigante che mi è finito in bagno. Ma quella è un’altra storia. Quel bagno è più frequentato dei bagni dei Mac Donald’s nordici (vedi Voci dal Nord).
Traendo le conclusioni di questo raccapricciante resoconto si capisce come durante questa quarantena io viva di Baygon, alcol tossico fai-da te o di contrabbando nei migliori casi, cibi forse anche più tossici dell’alcol ma sicuramente più del Baygon, ossa rotte, umidità, guasti giornalieri, safari tra giardino e cucina, film di contrabbando, ansia sociale, secchiate d’acqua fredda, insonnia e sporadici allagamenti.
Se non ci fosse l’arte a salvarmi sarei già spacciata.