La casa della sindhen

Capitolo 21 – Un weekend a Solo

«Dovevo sembrargli tale e quale agli altri nuovi arrivati, chiuso nelle superstizioni e nei pudori personali, – o, per essere più precisi, sessuali – che ci portiamo tutti dietro dall’Occidente. «Guarda loro,» mi ha detto indicando gli uomini delle pulizie, che si stavano occupando dei tappeti «non si pongono il problema della felicità, e neanche dell’infelicità. Splendido. Trovo che dovremmo adeguarci».

(Lawrence Osborne, Bangkok)

21 ottobre 2013

Yogyakarta

Ore 22.20

Sono reduce da due giorni che non riesco neanche a classificare nelle memorie dei viaggi passati e sto qui a tentare di farne un resoconto che sembri minimamente logico.

Mattina del 19 ottobre

Sveglia programmata ore 8.00.
Sveglia reale ore 9.30.

Tempo di una colazione veloce, impacchetto i bagagli, levo Bintang dai bagagli, rimpacchetto i bagagli, grido qualcosa di tremendo in italiano a Bintang aggiungendo minacce senza senso tipo: “You don’t wanna see an Italian girl getting agry, trust me”, e sono pronta.

Ma prima dobbiamo fare una tappa dalla sorella di Daniel, che custodirà la nostra cara cagnolina molesta durante questi due giorni. Solchiamo la soglia del cancelletto di casa sul Mio Yamaha sovraccarico, addobbati come cavalieri ad un Palio medievale: pila di borse tra le gambe di Daniel, borsa legata al manubrio, zaino sulle mie spalle e cane in braccio. Mancavano solo la lancia e la bandiera stemmata.

Raggiungiamo la casa della donna in condizioni che dire precarie è un complimento. Il motorino sbanda ovunque, le borse pendono da ogni lato e per di più la bestiolina è più iperattiva del solito. Risultato: simulazione di autoscontri a catena comprensivi di attività interattive tipo ‘acchiappa la borsa’, ‘acchiappa la cagna’, ma soprattutto “acchiappa la corsia”. Riusciamo ad imboccare il Ring Road per miracolo.

Assestati i bagagli e liberatici della palla matta formato canino, la situazione diviene un minimo più sostenibile, ma il viaggio è comunque sfiancante. Il caldo è tremendo, più umido che mai, grazie al maledetto prequel della stagione delle piogge. La strada è piena di camion lenti ed ingombranti dai copiosi fumi di scarico neri e densi. Tutta salute. E poi un must: corsia libera. Ci sono talmente tanti veicoli contromano che per un momento pensiamo di esserlo noi.

Dopo circa due orette arriviamo a Solo e ci fermiamo a pranzo in un posto tirato a lucido davanti al Kraton, il palazzo reale. Come tutti i posti tirati a lucido, il grazioso ristorantino propone ottima vista, sedie e tavoli confortevoli, minime porzioni e prezzi vergognosi. Ma il succo di guava è decisamente il migliore mai assaggiato.

Visto che ci siamo, prolunghiamo la sosta e visitiamo il palazzo del principe. Cioè, visito. Ovviamente Daniel non paga perché è giavanese. Sono stufa di queste discriminazioni per i turisti, non sono mai entrata gratis in un museo a Roma solo perché sono di Roma.

Il palazzo di Surakarta
Il padiglione del palazzo

Un ragazzo mi fa da guida e mi spiega in un inglese veloce e imbarazzato tutto quello che c’è da sapere sulla residenza della famiglia reale, sulla famiglia reale e altre cose che ogni buon turista prima o poi viene a sapere. Ma poi vedo lei, o meglio, loro: le orchestre gamelan. Sono quattro, allineate nell’ala destra della hall e sembrano antichissime. Il poverino si è scelto la turista sbagliata, si prevedono ardui straordinari.

Proprio quando sembro soddisfatta delle sue informazioni più che esaustive circa quello che afferma essere il più antico gamelan di tutta Giava (anni dopo capirò che, in un modo o nell’altro, sei sempre davanti al ‘più antico gamelan di Giava’), passa davanti a noi un individuo dall’aria rispettabile. La mia guida lo saluta rivolgendogli parole che non comprendo, tra le quali spicca come una gemma in una miniera, il termine dalang.

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Non avrebbe dovuto. I miei occhi luccicano, lo guardo con aria speranzosa, lui guarda Daniel con faccia interdetta. Daniel, che ormai mi conosce, si mette le mani nei capelli ed esclama con aria sconfitta: “She studies in Pedalangan department at ISI Yogya”. E così, mentre il mio amico si siede fumandosi comodamente una sigaretta e la guida studia vari modi di impiccarsi a una delle colonne senza rovinare i decori, io mi do alle presentazioni col maestro e apprendo tante cose interessanti sulle performance a palazzo dai tempi antichi ad oggi. Riusciamo finalmente a passare oltre, è più difficile di Mosè alle prese col Mar Rosso, ma ce la facciamo.

Terminato il lungo e faticoso tour, do una lauta mancia al poverino e concedo una pausa Coca-cola a Daniel. Mentre siamo intenti a sorseggiare la nostra bevanda seduti sui gradini fuori l’entrata del palazzo, l’autista di autobus turistico si avvicina a noi. Sembra sia un vecchio amico di Daniel, un vecchietto sorridente che continua a riempirmi di sorrisi e occhiatine pensando che io sia la sua ragazza. Siamo alle solite. Dopo quattro chiacchiere tra amici e le consuete lodi ai pilastri della cultura italica quali Maldini e Roberto ‘Bagghio’, ci rimettiamo in viaggio.

La nostra destinazione sono delle cascate sulle montagne poco lontano dal cuore di Surakarta. Non ho ancora capito perché questa città abbia due nomi: Solo (dal nome del fiume che vi scorre) e Surakarta, centro dell’antico sultanato che in passato aveva sede a Kartasura, una zona limitrofa dall’attuale centro cittadino. La città con più nomi che abbia mai visitato in vita mia.

Decidiamo di fare una deviazione per il tempio di Sukuh, un tempio induista del quindicesimo secolo ai piedi del monte Lawu che pare sia legato all’erotismo. Intraprendiamo un’ardua salita montana per la gioia del mio povero motorino sempre più mal ridotto. Qui cominciano le comiche tra spinte al veicolo e salite a piedi a turno, giocandosela per chi sia il fortunato a portare il motorino in cima, con rischio di parapendio su due ruote giù per le vallate. A questo punto è chiaro che o cambio abitudini o cambio motorino.

Le soste benzina sono sempre più pittoresche. Stavolta ci servono bottiglie da vino riempite di liquido giallastro, versate dentro il serbatoio con un imbuto ‘fatto in casa’. Se non altro è più economica che mai, faccio il pieno con meno di un euro.

Quando siamo in prossimità del tempio le mie orecchie avvertono un rumore allarmante. Sembra che uno stuolo di boscaioli in con motoseghe stia radendo al suolo l’intera foresta. Daniel mi dice che posso stare tranquilla, sono ‘solo’ coleotteri. Nella mia mente si proietta l’immagine di una specie di rinoceronte alato.

La visita al tempio ci riporta in vita dopo quel viaggio frenetico e faticoso. È una meraviglia trovarsi lì all’ora del tramonto, tra antiche rovine induiste, offerte votive tra le quali spiccano bracieri d’incenso e un’intera vallata sotto gli occhi. Rimaniamo tutto il tempo in silenzio in una specie di contemplazione mistica, interrotta solo da qualche scatto fotografico.

Il tempio
Silhouette
Altari e idoli

Quando cominciamo a riscendere i tornanti in direzione delle cascate, il cielo si oscura e avvertiamo gocce di pioggia. Ci fermiamo sotto la tettoia di un chiosco che pare venda cibo e bevande calde. Mai decisione fu più saggia. Tempo due minuti e uno scroscio di pioggia cade giù dal cielo austero, mentre un vento gelido scompone le larghe foglie dei banani e le insegne sgangherate lungo la via. Rimaniamo a bere caffè e tè e a mangiare sate kelinci, spiedini di coniglio in salsa di arachidi accompagnati da riso cotto in foglie di pandano, finché non spiove.

Ormai però è buio, dunque per le cascate se ne parla il giorno successivo.

Sosta rifornimenti

Ci impegniamo con tutti noi stessi nella ricerca di un posto in cui dormire. In zona ci sono davvero tante homestay, non dovrebbe essere difficile, ci diciamo. Lo è. Oltre ai prezzi troppo esosi per le tasche di Daniel, c’è un problema fondamentale: il letto. Qua hanno la mania di considerare una ‘doppia’ come un misero letto ad una piazza e tre quarti. Trovare una camera con due letti separati ad un prezzo accettabile è un’impresa titanica, soprattutto perché dobbiamo mentire dicendo che siamo sposati per ottenere la stessa camera (le leggi islamiche non perdonano), dunque tutti si chiedono il perché non possiamo condividere un unico materasso.

Non demordiamo. Un nuovo sport preferito entra nella top-ten. Le regole sono le seguenti: metti due persone esauste su un motorino scassato, alla ricerca in un posto in cui dormire. Aggiungi pioggia, freddo e buio. Da qui è semplice. Basta compiere una serie di azioni base a loop: ferma il motorino, togli casco e k-way, togli le scarpe, lasciale a infradiciarsi fuori (l’etica giavanese prima di tutto), fingi di essere una coppia sposata con esigenze strambe e discutibili, abbozza e beccati le occhiatacce, entra a vedere la camera, inorridisci per gli arredi, inorridisci per il prezzo, rimetti scarpe zuppe e altri accessori a casaccio, rimonta in sella e goditi la bufera per un altro isolato.

Quando decidiamo che abbiamo avuto abbastanza divertimento, decidiamo di tornare ad una delle prime homestay visitate, che pare la più economica. Non ci ricordiamo la strada (c’è un che di già visto). Ci ritroviamo in un posto buio e malfamato. Come nei migliori film horror, invece che sbrigarci a levarci da lì, fermiamo il motorino, non si è capito perché. Daniel si guarda intorno agitato: “There’s something wrong in here”. Gli indonesiani sono sensitivi, mi fido, non si scherza con i loro spiriti. Rimonto in sella in un batter d’occhio.

Zuppi fino al settimo chakra e ormai sconfitti, torniamo al giardino segreto. Cioè al primo luogo perlustrato, che è facile, visto che è semplicemente il primo sulla via principale. Questo offre una camera doppia nel vero senso del termine, anche se per Daniel il prezzo è esagerato. Non c’è niente da fare non riesco ad entrare nella loro mentalità economica.  Il prezzo in rupie convertito equivale a circa tre euro, che per una camera doppia in un posto suggestivo a due passi dall’attrazione principale del luogo è come dire: “Ti ospito io offrimi un caffè”. Decido di pagare tutto io e tagliamo la testa al toro. Sei euro per un po’ di sano riposo in tranquillità mi pare un buon affare.

Quando scopriamo la camera nel dettaglio appare un po’ meno suggestiva. Essa si compone di intimo ingresso che è al tempo stesso soggiorno, dotato di moquette rosso fragola a righe (non mi faccio più domande in merito al design) e tavolino con TV modello Ritorno al futuro (il terzo però, quello ambientato nel Far West). Due bicchieri di tè caldo con relativo copri-bicchiere in plastica colorata per preservare il calore (irrinunciabile), sono poggiati al solito in bella vista come benvenuto agli ospiti. La camera è la punta di diamante: due materassi buttati lì con due coperte bucate (all’ultimo grido, di terrore) e chi s’è visto s’è visto.

Ma poi scopro il bagno (il mio punto debole): un misero stanzino contenente toilette alla turca e bacinella d’acqua con scodella. Punto. Daniel non batte ciglio e si chiude dentro uscendo venti minuti dopo sodisfatto manco fosse uscito da una SPA.

Rimango dei buoni minuti sulla porta guardando il mio amico: “How do you suggest I can take a shower?”. Lui risponde tranquillamente: “Oh it’s simple. Just take the water from the bucket and pour it on you”. Era quel che temevo. Mi viene un dubbio: “Isn’t it the same water used to flush the toilette?”. Lui sempre placido: “Yes, but you can use it for both”. La classica doccia che ti fa venir voglia di farti una doccia. Mi chiudo dentro e mi arrendo inesorabilmente alla setticemia, il mio primo incontro col bak mandi, il sistema di bagno tradizionale con vasca d’acqua e pentolino (spoiler: continuerò a lavarmi così per i miei prossimi sette anni durante i quali deciderò di abitare in case tradizionali).

Dopo esserci ‘rinfrescati’, ci piazziamo davanti al televisore, in compagnia del tè caldo e dell’Opera Van Java. Un po’ di sano trash era proprio quello di cui avevamo bisogno. Non capisco a pieno i dialoghi ma bastano poche parole, i loro assurdi costumi e le loro movenze per farmi sgranare gli occhi ed emettere sogghigni colmi di interdizione ad ogni stacco comico. Daniel comincia a tradurmi tutto ciò che dicono. Dopo neanche un minuto lo prego di smettere, preferisco illudermi che stiano dicendo qualcos’altro di sagace e brillante.

Quando il mio amico non ne può più di crepare dalle risate e io non ne posso più e basta, poniamo fine alla visione della versione indonesiana del Bagaglino e usciamo a reperire cibo. Non intendendo affatto replicare la sessione di caccia al tesoro sotto al diluvio. Ci fermiamo al primo chiosco che troviamo sotto un ponte, accantonando ogni minima pretesa. Non avremmo dovuto, mai abbassare la guardia. Ci accomodiamo al più che sudicio bancone di un più che rustico chiosco, mentre odori malsani provenienti dal retro invadono le nostre narici. Ma più che rustico è ‘ruspante’: teste, zampe e creste di polli, ben cotte, sono esposte nella vetrinetta portavivande.

Vorrei tanto alzarmi e correre a gettarmi nell’orto più vicino a nutrirmi di foglie crude di pandano, ma non posso. Una grassoccia signora in grembiule più che unto e unghie di qualche tonalità compresa tra il marrone roccia e il nero seppia si piazza dietro di noi. Ci chiede cosa vogliamo mangiare. Daniel tenta di limitare i danni chiedendo due semplici soto (zuppe). Per ingannare la snervante attesa peschiamo qualche antipasto dal cesto dei fritti. Spugne fredde traboccanti olio di semi e mosche. Mi rificco le mani in mano maledicendomi per le mie smanie.

Poi arrivano: due scodelle dai fumi mefitici, colme di brodaglia e roba mista galleggiante. Faccio un profondo respiro e comincio a selezionare le cose che sembrano meno prossime alla putrefazione. Dopo aver più o meno riempito il mio stomaco con qualche noodles, qualche foglia di verdura e pezzi di uovo riesumati dal fondo tipo l’antica campana dell’Amaro Montenegro, cedo tutto il resto a Daniel senza complimenti. Tanto per la cronaca, chiedo cosa siano, secondo lui, quei pezzi di materia organica che ho accuratamente lasciato a sé stessi. Dice che sono interiora di mucca, avrei giurato fossero funghi.

Ordino un caffè forte senza zucchero per tentare di confondere il mio stomaco e insabbiare tutti i brutti trascorsi. Arriva più chiaro di quanto ci si aspetti da un caffè forte e rigorosamente freddo. Il bicchiere, tra l’altro, è palesemente stato usato senza esser stato lavato. Lascio tutto come sta, pago e me ne vado con una tale sensazione di disgusto che quasi mi getterei a peso morto nella bacinella del bagno.

Per dimenticare facciamo la cosa più indicata di tutte in questi casi: bere. Compriamo due birre Bintang e una ‘busta’ (perché qua i liquidi li vendono in busta) di arak, l’alcolico locale. E ovviamente, in una serata a tema alcol, non poteva mancare musica trash. Daniel comincia a sfoderare capolavori del punk-ska, rock e metal indonesiano. Dopo questo, sono decisamente K.O.

La mattina mi sveglio con un cerchio alla testa che farebbe invidia a Giotto. Sono lì, lì per andare a farmi una doccia quando mi rendo conto di ciò che sto per fare: la doccia. Mi faccio coraggio, prendo le mie cose e mi avvio al bagno come un condannato a morte al patibolo. Chiedo a Daniel di passarmi l’asciugamano (questo ce l’hanno concesso, uno solo, ma c’è). Lui comincia a ridere come un matto e mi mostra la scritta in fondo a questa specie di straccio azzurro slavato: Gucci. La mia faccia in quel momento non è descrivibile.

Pronta, in qualche modo, prendo i bagagli e imbocco l’uscio. Daniel mi ferma: è meglio rimpacchettare tutto in modo da avere solo una borsa da tenere ben stretta, alle cascate. Chiedo il motivo: le scimmie che rubano. A posto.

Mentre mi do al tetris, Daniel ne approfitta per fare colazione, col sate. Dopo la raccapricciante cena, non riesco a farmi andare giù spiedini di coniglio al burro di noccioline di prima mattina. Attendo di trovare qualcosa di dolce lungo la strada. Non lo trovo affatto, devo cominciare a mettermi in testa che il dolce di mattina non è contemplato, ovunque vada nel mondo. Alla fine ripiego su un supermarket dove acquisto una specie di tortina al pandano e una lattina di Nescafè. Ogni tanto il mio stomaco dovrà pure avere tregua.

Giungiamo finalmente alle cascate. Ci sono meno scimmie di quelle che mi aspettavo e più addomesticate di quanto ricordasse Daniel. Ci sono persone che tengono tranquillamente cibi in mano senza essere aggrediti da diavoli volanti. In compenso sono davvero grasse. I rami si piegano per il loro peso ed il risultato è uno stuolo di babbuini obesi spiaggiati sul sentiero, intenti a mangiare guardare i passanti con aria interrogativa. Evidentemente hanno trovato il modo di tenerli a bada rimpinzandoli a morte. Peccato, già mi vedevo a litigarmi beni personali con qualche piccola ladra.

Scimmia con fritto misto
Scimmia appagata
Pericolosa scimmia snella acrobata

Ho comunque la mia giusta dose di divertimento quotidiano. Nell’intento di preoccuparmi di dove metta i piedi Daniel, che da bravo indonesiano indossa infradito anche nella foresta pluviale, non guardo dove metto i piedi io e finisco per terra con tutte le mie praticissime scarpe da ginnastica. Sublime. Mi rialzo subito, impaziente di raggiungere la magnifica cascata che già s’intravede da lontano. Ottantuno metri di acqua che cadono a picco dalle rocce. Più ci avviciniamo più lo spettacolo è impressionante. Arrivo fino a pochi metri dal getto arrampicandomi sui massi scivolosi, ricoprendomi completamente di acqua e fango. Ne valeva comunque la pena.

Emersa dai flussi e tornata in zona franca, posso usufruire di una fontana per sciacquare scarpe e vestiti. Mi ci fiondo completamente sotto. È comunque una doccia migliore di quella della homestay. Tempo delle solite foto coi turisti mentre mi asciugo al sole (più gettonata dell’uccello del Paradiso) ci rimettiamo in viaggio.

La cascata
La signora degli snack
Natura

La strada al ritorno sembra più breve, non so perché, anche se è ugualmente sfiancante. Facciamo sosta pranzo in un posto sulla strada che offre le solite scelte: pollo, soto, noodles fritti. Nel dubbio, ritento con il soto. Questa volta non ci sono interiora, solo pollo in carne e ossa.

Prima di tornare a Yogyakarta facciamo un’ultima tappa turistica al famosissimo tempio induista di Prambanan, visto che è di strada. Becchiamo proprio l’ora adatta: è il tramonto (ormai siamo abbonati ai tramonti) e le rovine del tempio si stagliano sul cielo roseo dando luogo ad inquadrature magnifiche. Daniel mi salva la vita l’ennesima volta, aiutandomi ad ottenere lo sconto studenti, mostrando vari documenti a riprova che sia una studentessa dell’ISI. Sono scettici fino all’ultimo, ma alla fine riesco a pagare un terzo del prezzo.

Prambanan
Trimurti
L’area del tempio
Tramonti giavanesi

Prima di entrare ci fanno indossare una sorta di pareo in segno di rispetto. Le scarpe ce le risparmiano. Apprendo con grande sorpresa che quello che vediamo non è altro che la ricostruzione operata dagli olandesi di ciò che era un ammasso di rovine distrutte. C’è voluto più di un secolo per ricostruire i tre templi principali di Brama, Shiva e Visnu. L’opera è ancora in corso. Chiedo come fanno a sapere quale fosse il modello originario sul quale basarsi e Daniel mi mostra il metodo. Le parti di tempio crollate sono divisibili in parti ‘maschio’ e parti ‘femmina’. Ogni blocco maschio è ricongiungibile col suo relativo femminile. È esattamente quello che fanno gli addetti ai lavori, ricongiungere blocchi uno ad uno.

Dopo altre spiegazioni della mia guida personale (i lati positivi di avere amici locali), ci mettiamo in fila per entrare nel tempio principale. Una coppia vuole una foto con me, ma singolarmente: prima la moglie, poi il marito. Sono riuscita a rubare la scena persino a Shiva. Niente, non c’è verso.

Ci mettiamo l’elmetto distribuito all’ingresso (dopo l’ultimo terremoto prendono le precauzioni necessarie) e cominciamo a visitare l’interno delle costruzioni. Recito una preghiera indonesiana dinnanzi la dea della bellezza, come tradizione, ed eseguo dei movimenti rituali sul corpo della statua. Mi sento un’idiota, ma Daniel mi assicura che in questo modo il primato di bellezza è assicurato. Mi chiedo come si possa avere il primato se ogni donna che esegue il rito lo ottiene. Ma non è questo il posto per il criticismo.

Finito il tour ci fermiamo davanti ad un punto panoramico e ci riempiamo gli occhi della luce soffusa del sole calante… e di polvere. Corro a sciacquarmi alla fontana prima di divenire del tutto cieca. Il primato di bellezza non l’ho ottenuto, in compenso forse otterrò il primato di fortuna andando in giro bendata. Mi sa che le preghiere sono arrivate alla dea sbagliata, magari è la volta buona che finisco i miei guai.

Vorremmo andare a visitare gli altri ‘mille templi’, i candi sewu, ma è troppo tardi, dunque dobbiamo rimandare. Lungo la via dell’uscita c’è un affollamento di bancarelle di ogni genere. Vengo letteralmente accalappiata, come una mosca su una ragnatela, dalle figure del wayang esposte in una di esse. Non l’avrei mai detto, sono le più economiche trovate finora. Prendo i quattro Punokawan e mi faccio due chiacchiere col vecchietto assai incuriosito dal mio acquisto. Mi augura di farne buon uso ed esercitarmi a dovere per diventare una grande dalang (ci risiamo).

Mettiamo piede sulla soglia di casa letteralmente cadendo a pezzi. Stephanie ci accoglie sorridente con una fetta di anguria in mano. Presa da invidia, oltre che da fame, decido finalmente di testare il recente acquisto al Superindo: il dragon fruit. Appuro con piacere che è completamente fuxia, anche all’interno. Questa è una delle ragioni per cui le persone come me non dovrebbero mai metter piede nei supermercati asiatici.

Rimango abbastanza delusa dal sapore che è decisamente meno incisivo del colore. Capisco che non è serata di colori quando tiro fuori i miei panni dalla lavatrice: sono tutti blu, anche quelli che non dovrebbero esserlo. A questo punto ripiego sull’unica soddisfazione che la serata può concedermi: una doccia senza pentolino.