QUELL’ACCOZZAGLIA DI STORIA DELL’UMANITÁ CHE CHIAMANO ROMA

«…e solo quando passai sotto la Porta del Popolo seppi per certo che Roma era mia…l’ansia di giungere a Roma era così grande, aumentava tanto di momenti in momento, che non avevo tregua…ma confessiamolo, è una dura e contristante fatica quella di scovare pezzetto per pezzetto, nella nuova Roma, l’antica; eppure bisogna farlo, fidando in una soddisfazione finale impareggiabile. Si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l’una e l’altro, la nostra immaginazione. Ciò che hanno rispettato i barbari, l’han devastato i costruttori della nuova Roma. Quando si considera un’esistenza simile, vecchia di duemila anni e più, trasformata dall’avvicendarsi dei tempi in modi così molteplici e così radicali, e si pensa che è pur sempre lo stesso suolo, lo stesso colle, sovente perfino le stesse colonne e mura, e si scorgono ancora nel popolo tracce dell’antico carattere, ci si sente compenetrati dai grandi decreti del destino…e da quest’immensità emana su di noi un senso di pace mentre corriamo da un capo all’altro di Roma, per conoscere i massimi monumenti. In altri luoghi bisogna andare a cercare le cose importanti: qui se n’è schiacciati, riempiti a sazietà. Si cammini o ci si fermi, ecco che appaiono panorami d’ogni specie…».

(Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia)

Roma, 30 settembre 2020

Roma è la cartolina di tutti i posti in cui vorresti andare, nello spazio, nel tempo, nell’Io.

È facile viaggiare e vedere qualsiasi cosa, se parti da Roma, se Roma ti ha cresciuto. Non riesci a immaginare cosa si provi ad esperire il mondo senza aver vissuto da sempre qui e sentirsi comunque legato ad una madrepatria così impegnativa, nonostante siamo nomadi, vagabondi, o cittadini del mondo, come ci chiamano.

Roma ti apre gli occhi sin da subito e per stupirti ci vuole ben altro. Ti allena al bello estremo, ti terrorizza a sufficienza, ti confonde, ti sbatte qua e là, e poi sei pronto ad andare lì fuori, da qualche parte, altrove. Da Roma vuoi sempre e comunque scappare, ma sai che prima o poi torni, ti fai la dose di meraviglia e schiaffi sonori, ti riempi un po’ di tutto, sei sazio, ci rimani male quanto basta, apprendi qualche altra lezione qua e là tra resti di imperi e periferie scalcinate, e sei pronto a ridirle addio.

Un vuoto, grigio e piovoso giorno di pioggia

L’addio non è mai un addio vero, è sempre un arrivederci, anche se non ci torni più, perché comunque, che tu lo voglia o no, te la porti sempre appresso. È per questo che i viaggiatori romani sono i più difficili, ricercano sempre quella dose di meraviglia e orrore che non troveranno mai da nessun’altra parte e quindi cercano, ricercano, scavano e girano in tondo. Sono dei giudici severissimi alla disperata ricerca di essere smentiti. Ovviamente non trovano nulla, ma nel frattempo si arricchiscono notevolmente. È la tenacia e la disperazione che li guidano. Partono già ricchi per nascita, e lo sanno. Sono già in possesso, geneticamente, di tutto ciò che il calderone storico-emozionale ed esperienziale di Roma offre.

Roma ti ride in faccia quando ti vede ad arrovellarti dall’altro capo del globo a cercare e ricercare i duplicati della tua esistenza in qualche metropoli fumosa o qualche vecchio avamposto dimenticato di storia di qualche civiltà. È come cercare una nuova fiamma per dimenticarsi l’amore della vita che non potrai mai sostituire, per quanto tu lo possa odiare. È un chiodo scaccia chiodo perenne, che perdi in partenza. Puoi vincere solo se sul piatto della bilancia ci metti la quantità di altre esperienze vissute per sopperire a quelle che vuoi cancellare dalla tua memoria, perché appartengono a Roma, e qualitativamente sono comunque vincenti, nel bene e nel male.

Noi romani siamo orribili, perché abbiamo l’arroganza di chi sa di avere già tutto e la pateticità di chi pensa di non avere niente, o meglio, di avere solo un cumulo di sfaceli. E quindi andiamo in giro con la sfacciataggine di voler trovare ‘qualcosa di meglio’ con la presunzione di non poter trovare di meglio perché: “Vabè, ma io so’ de Roma…”. Questa è la frase che ogni romano dice quando vede qualcosa che per poco lo fa sobbalzare sul suo trono di superbia e frustrazione. È come dire, potrei aver trovato ciò che cerco, ma so che è solo un falso. E non sei per niente contento di questo. Torni sempre sconfitto, in un modo o nell’altro, ma vuoi comunque riprovarci un’ultima volta, finchè vedi così tanti posti che quasi ti dimentichi la tua nazionalità, ma poi ti verrà comunque il momento in cui: “Vabè, ma io so’ de Roma…” così a tradimento. E ci rimarrai malissimo ma sai che non potrai farci nulla.

Istantanee dal giardino d’infanzia

Andiamo in giro come dei critici musicali che non stanno nella pelle per stroncare il prossimo allestimento contemporaneo, segretamente sperando che gli piaccia per liberarsi del peso dei pregiudizi conservatori e obsoleti, ma che poi non riescono a fare a meno di disprezzare, perché loro in fondo si sentono di appartenere a qualcosa di più alto, insostituibile ed inimitabile. Ne sono stufi e traumatizzati ma non riescono a disfarsi di quell’ingombrante bagaglio culturale. E anno avanti così demolendo carriere e accumulando righe scritte con sprezzante sarcasmo.

L’equivalente dei diari di viaggio di un romano.

Roma è un genitore troppo erudito e caduto nella disgrazia e nella depravazione (forse anche a causa del peso della sua erudizione) che ne ha viste troppe e non sa più come gestire la sua esistenza sulla terra. E tutti i genitori degli altri ti sembrano troppo perbenisti, provinciali e ignoranti, non importa quante lauree ad Harvard e carriere diplomatiche abbiano. Un po’ invidi la loro ordinaria e serena banalità e guardi le loro esistenze normali con un perverso gusto dell’esotico, ma non faresti mai a cambio, non ci riusciresti, sei già troppo contaminato. Quindi magari scappi di casa, fai un giro nelle esistenze altrui e torni con altre milletrecento delusioni e innumerevoli nuovi parametri di giudizio.

Roma serve a questo. Non significa per forza conoscenza ma senz’altro ti insinua la voglia di conoscere sin dalla tua fase di concepimento. Sei fatto sul suo stampo. Roma è troppo vasta, troppo aperta, infinitesimale, ha estensioni in ogni direzione all’esterno, all’interno, sopra e sotto, non si placa e non ti fa placare, mai. Se nasci a Roma hai il richiamo all’espansione nel DNA. Se ci basassimo sulla disciplina dello Human Design noi romani saremmo tutti degli instancabili ‘manifestatori’ irrequieti e iperattivi, incontentabili e insaziabili divoratori di miglia, di storie e di vite. Ce l’abbiamo nel disegno astrale la voglia di uscire dalle righe, siamo umanamente progettati per la spasmodica ricerca incessante e inconclusiva. Abbiamo sempre fretta di arrivare dove non sappiamo di voler arrivare.

E quindi dopo qualche anno in Ghana o in Amazzonia, in Thailandia o tra i ghiacci dell’Alaska, rieccoci qua con le nostre tacche sulla cintura dell’accumulo compulsivo di esperienze, a passeggiare tra le vecchie rovine come fossimo turisti venuti qui per la prima volta, a chiederci se tutto questo ci fosse mancato. E ci rispondiamo a malincuore di sì. Che l’Amazzonia magari era enorme e stupefacente ma: “Vabè, io so’ de Roma…”.

E continuiamo a vagare, camminare, ricordare, detestare, amare, in lungo e in largo per quest’incredibile patchwork di esistenze e flussi ingestibili di divenire, quest’accozzaglia di storia dell’umanità che chiamano Roma.

Quel che resta