Karantina

Capitolo 9 – I temibili giorni Y e Z

«Gone is the air of mystery and excitement; now I am simply afraid».

(Ung Loung, First they killed my father)

Yogyakarta, 22 aprile 2020

Giorno Y. Ovvero: “Me so rotta i…”

Sono le 23.20. Sto tentando di andare a letto presto stasera.
Ma se non ci sono riuscita in un mese, perché dovrei proprio stasera?
Istituiremo il 22 aprile festa nazionale della lotta ai disturbi del sonno.

Ieri mi sono buttata nella geniale impresa di farmi la nottata in bianco per ‘azzerare il conteggio’ e sperare di crollare alle otto di sera.

Risultato: sono crollata alle otto di mattina.

Per lo meno mi sono vista l’alba, un momento molto piacevole, se non altro ho appurato che la mattina esiste ancora.

Ho fatto una pseudo-colazione col venticello fresco e poi mi sono buttata un po’ sull’amaca a godermi una luce diversa da quella calante del primo pomeriggio, fresca, limpida, nuova. Ad un certo punto quasi sentivo freddo.

Poi mi ha fregato un nemico inaspettato: la tassa fissa mensile che ogni donna paga suo malgrado. Fitte di crampi mi hanno costretta a rientrare in casa e gettarmi sul letto ad agonizzare. E tra un’agonia e l’altra bam! Stesa.

Sveglia alle 14.00.

Stessa luce, stesso caldo, stessa vita.
Non capivo se avessi sognato o meno.

Ormai non vivo più in una temporalità reale, vivo in una specie di film di Lynch che si riavvolge su sé stesso.

Però ho realizzato di aver finito il libro sulla Cambogia, forse sull’amaca. Un’altra prova del fatto che ero davvero sveglia. Che quell’arco di tempo tra l’alba e i crampi del basso ventre l’ho vissuta davvero.

Non ho pranzato tanto ormai non ho più orari dei pasti, mangio a comando dello stomaco.

Ho finito di editare il video che mi ha fatto fare nottata ed eccomi di nuovo qua. Notte, letto, stanza. Un altro giorno è passato?

Ah, la ciliegina sulla torta. Quasi me ne dimenticavo. Il numero di punta dello show di oggi. Mentre svolgevo pratica igieniche in bagno, ho realizzato che mi era finita un’orrenda cavalletta verde nel bak mandi, la vasca in maioliche da cui attingo l’acqua per ‘fare la doccia’.

Quindi , dopo essere corsa fuori seminuda, ho blindato il bagno. Non credo di voler prendere provvedimenti fino a domattina. In caso di bisogni credo di utilizzare il giardino sul retro, tanto non credo di notare l’attuale differenza col bagno.

Fuori Servizio

Non voglio pensare a domani mattina, quando dovrò comunque prendere coraggio e andare a vedere di tirarla fuori in qualche modo. Non posso passare il resto della quarantena a lavarmi in giardino e urinare nei cespugli. Era verde, grossa, orrenda e faceva tutti quei rumori cavallettosi con tutte quelle zampe. Spero se ne vada da sola nottetempo. Che poi mi chiedo da dove entrano visto che il bagno non ha una finestra. Forse dal sottotetto, vai a capire. Domani compro del Napalm. Se avanza ne usufruisco anche io e la facciamo finita una volta per tutte.

Yogyakarta, 23 aprile 2020

Giorno Z. Ovvero: “Un altro giorno di…”

Ho fatto un sogno da quarantena, ora sono definitivamente pronta per servire la scienza.

Ero con un gruppo di amici, presumibilmente il mio solito gruppo di amici romani. Era una di quelle tante domeniche pomeriggio in cui non sapevamo che fare. Eravamo davanti alle macchine parcheggiate da qualche parte nel centro cittadino, piazza Cavour, quartiere Prati.

Ad un certo punto ci viene in mente di montare su un pullman che arrivava al porto [quale poi vai a capire]. Volevamo prendere delle imbarcazioni per la Campania. All’inizio c’era chi protestava: “No ma io domani lavoro”; “Non posso stare troppo fuori”; “È una cosa improvvisata, ma dove andiamo?” e via dicendo. Fatto sta che alla fine comunque prendiamo il pullman, e neanche paghiamo il biglietto perché eravamo gli unici a bordo e l’autista ci aveva preso in simpatia. “Che con i tempi che corrono nessuno prende più i mezzi pubblici” [una frase di circostanza che rimbombava tra le pareti del sogno da qualche narratore onnisciente].

Arriviamo al porto e diciamo “Va bene, abbiamo fattola pazzia, adesso torniamo indietro”.

E invece saliamo su una barchetta di legno a motore, tra l’altro davvero minuscola, eravamo in cinque o sei e c’entravano solo i nostri piedi. Il mare era di un blu meraviglioso, ma era pieno di meduse giganti, più grosse della nostra bagnarola.

Elemento che fa la differenza: bisognava stare attenti a non cadere in acqua perché il pizzico della medusa attaccava il Covid19 [e qui rientra in gioco la doppia C, CIM/CERN].

Quindi ci facciamo tutto sto viaggio lunghissimo su un mare bellissimo, in piedi e in bilico in questa bacinella striminzita cercando di non sbilanciarci, con i mostri infetti che ci galleggiano sotto.
Inutile dire che la bagnarola oscillava in un modo mostruoso.

Altra chicca: più la medusa era grossa più la carica virale era alta [vedi: CC].

Ad un certo punto approdiamo ad una specie di porticciolo minuscolo. In realtà era un muro color corallo che sporgeva dall’acqua, con dei ganci per ormeggiare la barca. Scendiamo alla destra del muro, su un piccolo molo con due gradini e due piccole casette con due porte. Anche lì spazio vitale minimo. Una delle due porte era un bagno.

Ormeggiata al muro c’era un’altra barchetta sempre di dimensioni minuscole, che invece del motore aveva un piccolo albero maestro non ad altezza sterno e per farla muovere servivano due persone, una da un lato e una dall’altro, a dondolarsi tipo gli attrezzi del parco giochi, aggrappandosi all’albero. Sempre con le meduse sotto.

La chiave del motore della nostra barca era stata messa via dal capitano e non si trovava più.

Io comincio a capire come tornare al porto, con tutto il buonsenso possibile, con quelle due trappole ormeggiate su quel quadratino di molo con le meduse infette in agguato. Dato che le chiavi non si trovavano e il capitano era sparito, salgo sulla barchetta con l’albero maestro assieme ad una mia amica e comincio a capire come farla funzionare. È difficilissimo coordinarsi e perdiamo l’equilibrio continuamente rischiando di cadere in acqua. Decidiamo che non è il caso.

Non avremmo comunque saputo come portare tutti, questa era davvero grossa come una bacinella, c’entravamo solo in due.

Poi mi giro e tutti gli altri sono scomparsi.

Si rifà vivo il capitano. Chiedo dove sono i miei amici. Dice che sono andati a mangiare il pesce da una famiglia qui dietro. A me viene un colpo. Mi incavolo come una bestia. Bisogna tornare indietro, sono una massa di incoscienti.

Comincio a non darmi pace, cerco le chiavi della barca ovunque, pure nel bagno (anche questo un bugigattolo), poi mi rimetto ad armeggiare con quell’altra bagnarola, sempre senza successo.

Esausta e rassegnata, decido di raggiungere i miei amici e faccio per avviarmi verso i gradini che portano sul retro delle due costruzioni.

Non voglio portarmi tutto lo zaino appresso, quindi seleziono due-tre cose, tipo il passaporto [utilissimo in Campania], un quadernetto e una custodia per occhiali [qui si capisce che non sopravviverei mai in caso di reale emergenza]. Tra l’altro, non trovo il portafogli.

Mentre sono intenta a legarmi in vita un astuccetto con questi oggetti ‘necessari’, pisto per sbaglio dei tentacolini di una medusa che erano rimasti sul molo e mi comincia a pizzicare tantissimo la pianta del piede. E mi dico: “Ecco, il Corona. Ma porca p…”.

Poi però mi ricordo che l’importante è non toccarsi la faccia e mi dico che non c’è possibilità che mi tocchi la faccia con la pianta del piede.

Basta non toccarsi il piede con le mani e mettersele in faccia.

Proprio mentre sono assorta in questi ragionamenti furbi tornano i miei amici tutti belli allegri e soddisfatti.

Mentre sono sull’orlo di un’incazzatura magistrale mi sveglio prima di poter proferire parola.

Ed è lì che mi ricordo della cavalletta nel bagno.
Non ho smesso di pensarci un attimo stanotte, tra un incubo e l’altro.
Ora dovrò inventarmi qualcosa per riappropriarmi del locale.

Più tardi

Alla fine, dopo interminabili minuti a rimuginare nel caldo afoso di primo pomeriggio nel mio salotto, ho deciso che la mia vita non poteva fermarsi davanti ad un insetto. Soprattutto i miei bisogni fisiologici.

Ma ancor di più, che non potevo permettere alle mie paure di rovinarmi la quarantena (per quanto ci sia ancora da rovinare, stiamo raschiando il fondo con un badile industriale). In fondo è proprio questo il punto dello stare da soli no? Cercare di bastarsi e ingegnarsi a risolvere le difficoltà nella maniera più creativa possibile, crescere interiormente, fare passi avanti…

Quindi mi sono ritrovata con indosso un giacchetto, due sciarpe, il casco del motorino, in mano una scopa, nell’altra il Baygon, ad aprire la porta del mio bagno tipo agente CSI.

Squadra antisommossa unità insetti ingombranti

E questa è la massima crescita interiore che riesco a rappezzare di fronte a insetti giganti. È una delle mie più grandi fobie sin da piccola, soprattutto mantidi e cavallette. Sugli altri ormai ho imparato a soprassedere (non che qui avessi altra scelta). Da piccola coprivo le figure del libro di scienze con poster colorati per non vederli. Poi però mi rincorrevano i bulli in giardino con insetti alla mano o cose che comunque gli assomigliavano talmente tanto da farmi correre come una pazza per tutta la scuola finché non mi beccavo la nota. Io. Non è difficile capire perché ancora le detesto.

Quindi con uno sforzo di volontà e il cuore a mille ho aperto la porta secondo tutte le misure che ho visto nei polizieschi, immaginandomi di ritrovarmela chissà dove o che mi svolazzasse in camera o in cucina e a quel punto era game over.

Invece no, era esattamente nello stesso punto in cui l’avevo lasciata ieri, dietro il secchio d’acqua con cui… la doccia. Sempre verde, grossa e schifosa, con zampe lunghe e sottili, pronta a saltare. Ho pensato che prima che il Baygon avesse fatto effetto me la sarei ritrovata in faccia. La scopa non era veramente utile, ma faceva comunque scenografia.

Dopo minuti di interdizioni conciata come un agente da squadra antisommossa nel mio bagno e con quella cosa che comunque rimaneva lì indisturbata, il lampo di genio: metodo blatte volanti. Perché non ci ho pensato prima?

Ho richiuso il bagno e sono andata al riarmo. Niente scopa e Baygon, giochiamo di strategia. Colino da doccia (quello che tanto aveva già usato il coinquilino per lavarsi il motorino) e cartellina rigida.

In poche mosse da maestro ho intrappolato la cavalletta nel colino contro il muro, poi con estrema delicatezza ho fatto scorrere la cartellina rigida tra la parete e l’apertura del colino stando attenta a far bene aderire e a non lasciare nessuno spiraglio (ogni centimetro è fatale). Una volta chiusa tra colino e cartellina mi sono affrettata ad andare a scaricare il bagaglio fuori la cinta del mio giardino. Sempre bardata e col casco in testa, vicini a parte.

Non so come ma dopo questa impresa che a me è sembrata impossibile mi si è risollevata la giornata.
Ce l’ho fatta. La quarantena da soli, ai tropici, in una casa che è poco più di un campeggio, è possibile!

Ho passato il resto della giornata a fare un carico di autostima e forza interiore. E dentro di me: “Ce la faremo!” (urlo a squarciagola, bandiere, trampolieri, cavallette che suonano pentolini tipo traccole…).