Karantina

Capitolo 8 – Giorno X: un mese di quarantena in Indonesia

«Il ricordo avrebbe dovuto riempire il tempo, ma rendeva il tempo un buco da riempire. Ogni secondo era lungo duecento metri, e bisognava percorrerlo, strisciando. L’ora seguente non si poteva vedere tanto era lontana. Domani era oltre l’orizzonte, e per raggiungerlo ci sarebbe voluta tutta la giornata».

(Jnathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata)

Yogyakarta, 21 aprile 2020

Un mese di quarantena

Quarantena giorno… boh.
Non lo so più.
Non scrivo-registro questo diario da più di una settimana.

Sono le 4.20 del mattino e mi sono appena strafogata un pacco di saus kering (una specie di piccoli bignè vuoti, salati e secchi che fanno qui) dei mini wurstel aromatizzati in lattina (tecnicamente di manzo, ma poi vai a capire) e delle rarissime olive portate in salvo tipo la campana dell’Amaro Montenegro, gentilmente reperitemi dalla mia amica italiana in spacci di cibo occidentale.

E il brunch è servito.

Sto mangiando sempre più cibi occidentali, o cose che ne facciano le veci.
Sarà che mi manca l’Italia?

Ho fatto una pasta ‘alla norma’ senza norme. Ho utilizzato ingredienti da radiazione dell’albo degli italiani all’estero, tipo l’Hot Chili Pesto Filippo Berio (che ormai dovevo spendermi in qualche modo) la cream cheese anonima ed insapore, le melanzane indonesiane, la pasta Balducci e altri tre o quattro nomi finti di cose insipide. È venuta inspiegabilmente buona.

Mi manca mettere vestiti veri, fatti con buoni materiali. Il giubbotto di pelle, gli stivaletti, il trucco, i profumi, la stanza pulita e accessoriata, Netflix, il bagno caldo, il WiFi. Per la prima volta mi cominciano a mancare tutti questi – chiamiamoli – comfort. In sette anni non ne ho mai sentito il bisogno.

Che ormai, ridendo e scherzando, è più di un mese che sto in quarantena. O forse è sempre lo stesso lasso di tempo ma a me ogni giorno sembra un anno in più, levando le due settimane di liti con quello e le altre due con quella, che tra l’altro non s’è fatta più vedere né sentire da quindici giorni. Io ogni giorno la blocco su un social diverso. Più mi ignora più la cancello dalla mia vita.

L’avevo capito subito, sin da quella mattina, in cui mi sono svegliata e lei non c’era. Ho avvertito una sensazione forte e decisa. Sapevo che sarei rimasta da sola.

La quarantena in Indonesia, da sola.

Che dopo due eruzioni vulcaniche, tre terremoti, un’alluvione, due cicloni tropicali, innumerevoli intossicazioni alimentari di cui una su un treno per Surabaya, e la dengue (tutto nel giro di sette anni) era comunque un’esperienza che mancava.

In realtà ho superato l’iniziale sensazione di vuoto. Sarà che sto riempiendo le giornate il più possibile. Sto facendo un sacco di cose. Sarà che prima o poi ci adattiamo a tutto.

Le fasce orarie di produttività vanno comunque dalle due di pomeriggio alle quattro del mattino.

Ho finito due libri e due serie TV in pochi giorni. Sto imparando nuovi pattern di chitarra con dei tutorial su YouTube, sto lavorando alle mie canzoni, studiando nuovi brani di qualsiasi genere, traduco canzoni dall’indonesiano all’italiano e vice versa.

Ho smesso di studiare sindhen per il momento, ma senza la scuola del palazzo reale, i maestri, le colleghe, gli spettacoli, i contesti… è troppo straniante. È lo stesso sentimento che mi viene quando torno a Roma. Ho notato che vivendo all’interno e non all’esterno (cosa che di solito faccio nella mia vita a Roma e non in Indonesia) tendo a ripetere gli stessi pattern della mia vita occidentale, ma traslati qui, il che viene automatico che sia distopico e surreale. È tipo la parodia della mia vita in Italia.

In Italia canto raramente sindhen. È qualcosa troppo legato al contesto, non ci si può entrare così come i cavoli a merenda, tra una spruzzata di Baygon e una pasta scotta. E, in generale, fare cose legate all’ambito ‘tradizionale’ è qualcosa che ti viene da fare lì fuori, qui in Indonesia, all’aria aperta e nella piena socialità. È una cultura molto esterna e sociale. Quindi stare dentro casa e al chiuso mi riporta automaticamente all’occidente, e capisco anche perché per molti indonesiani sia difficile se non impossibile stare in quarantena. Anche perché lo stare in ‘casa’ qui non è come stare in quelle fortezze di agio e culle di tecnologia che ci creiamo noi e in cui ci potremmo tranquillamente crepare senza sapere che anno è fuori. Qui le case sono quello che sono. Dopo un po’ devi uscire, anche per dimenticartene.

Manco a dire che puoi berci su, non puoi fare manco quello.

Ho tentato di leggermi il libro sull’anatomia del tratto vocale ma sono durata un capitolo e poche immagini incomprensibili. Monto video come non ci fosse un domani e continuo a cucinare per sussistenza. Oggi mi sono messa a pulire il frigo e ho ritrovato i pete (una specie di fave indonesiane che sanno di metano) che aveva lasciato la coinquilina. Ho deciso di farci un risotto. Risotto al metano piccante, un’altra prelibatezza da doppia ‘C’ (CIM e CERN).

Risotto al pete dabliu C
Tentativi di produttività

Ah, ho cambiato la serratura di casa. Dato che non mi rimanevano più social su cui bloccare la coinquilina, ho deciso direttamente di sbatterla fuori. Ho fatto tutto da me, quindi da oggi sono anche arrotino e ombrellaio.

“Donne, è arrivato…”

Ho cambiato l’ennesima bombola di gas e ho ricaricato il contatore di corrente. Pare un gioco a premi. Solo che non vinci niente, solo seccature. Come vorrei non dover pensare a ricaricare ogni santa fonte di energia ma ricevere comode bollette a fine mese. Mi manca solo il gallone dell’acqua, quello mi mette pensiero, infatti lo sto toccando il meno possibile, bollo come un’ossessa da mattina a sera.

Questa è più o meno la mia routine da un mese a questa parte, ogni tanto ho qualche picco di creatività, ma per il resto è tutto un occupare il tempo e ingannare me stessa sul dove sia e cosa stia o non stia succedendo.

Ora mi sono messa in testa di andare ad un negozio di pittura e comprare tele e pennelli per fare un dipinto della spiaggia di Parangtritis al tramonto. Ma non so se lo farò davvero. Però è una bella idea da tenermi per qualche giornata ‘particolarmente no’, dato che le ‘giornate no’ sono più o meno tutte tranne rare eccezioni. È che quel tramonto mi è rimasto proprio impresso, non riesco a levarmelo dalla testa.

Continuo a fare Yoga un po’ quando mi pare, possibilmente in concomitanza con il circo del lavaggio capelli, e prendo due piccioni con un pete.

Più tardi

Nel frattempo, comunque, in Indonesia siamo arrivati a più di settemila casi. Aumentiamo di circa 400 al giorno ma tanto non fanno i test e non danno notizie vere quindi chi lo sa. Tutti gli indonesiani che vanno all’estero risultano stranamente positivi e a Bali si registra il più alto tasso di mortalità per dengue.
Quanti inspiegabili misteri.

Quindi continuiamo a vivere in questo limbo di “no lockdown-si lockdown-vabbè facciamo un forse e non si offende nessuno”. Ma la verità è che chiunque fa quello che gli pare. È un tutto un circo con baracconi e trampolieri.

Le poche volte che esco alterno un misto di rabbia e angoscia a vedere gli assembramenti ai supermercati e di desolazione a vedere Yogya deserta. Ma la cosa che più stranisce è ‘sentirla’ così silenziosa, senza i gamelan, i wayang, tutta quella musica dal vivo ad ogni angolo, i rituali, spettacoli di ogni sorta. Rimangono solo i tizi che suonano gli angklung ai semafori. Non sembra neanche di essere a Yogyakarta. Non sembra neanche che la mia vita un mese fa fosse così piena di eventi e di musica, di persone…
Rivedo tutto come su una TV sbiadita, in bianco e nero (che magari ad averne una) chiusa, intrappolata qui dentro.

Che poi è sempre una trappola mentale perché in giro ci potrei andare benissimo, e chi ti ferma? Qui non c’è la cultura dell’autocertificazione.
Non è tanto la noia o il non fare certe attività ma è che è distopico stare qua e vivere come se stessi a Roma sotto tesi. Mi mancano le cose che avevo lì e quelle che avevo qui in una unica fatality da Mortal Combat.

La cosa che mi disturba di più, forse più della solitudine, è lo ‘stare dentro’, in un posto che per me è il concetto stesso dello ‘stare fuori’. Non ero preparata. Non potevo immaginarlo. Di tutte le calamità naturali, avventure e sciagure a cui mi sono preparata in anni, questa è davvero la più inaspettata. Mi sono ridotta a farmi venire la nostalgia dell’Indonesia, in Indonesia. E non ho i mezzi usuali che utilizzo quando sono in Italia per farmela passare. Non ce li ho i mezzi per superare la nostalgia dell’Indonesia in Indonesia.

È troppo strano, non riesco ad uscirne. È distopico, alienante e forse un po’ triste.

Riguardo la mia vecchia schedule settimanale lì, appesa al muro, coi kraton, i pakualaman, i kroncong, i muay thai, le mille cose cancellate perché non avevo tempo e cancellavo ancora e riscrivevo e spostavo. Talvolta infilavo qualcosa in qualche spazietto tra le otto e le nove di mattina. Il che significa che mi svegliavo almeno alle sette. Se non avessi le prove che ero io direi che abbiano fatto uno scambio di persona.

Nomi che mi risuonano in testa: Pak Abdal, Pak Parto, Lisa, Wiwi, Bu Ning, come se fossero ormai lontani anni luce. Come non li avessi visti poco più che un mese fa. Quelli sono i nomi da ‘Indonesia’ non da questa cosa qua di adesso. Che è? Dove sto?

È tutto in un passato indistinto, dislocato, in un lì che è ancora qui, e non ho manco le coordinate geografiche a giustificare il senso di lontananza da qualcosa che è praticamente dietro l’angolo.

È strano.
Solo strano.