Voci dal nord

Capitolo 20 – Tutte le strade (ri)portano a Oulu

«Sto cambiando orbita: con un perfido magnetismo, i grandi centri e i flussi della periferia Ue mi strappano alla “terra incognita” dove mi sono gioiosamente infrattato per due settimane e mi sparano verso luoghi conosciuti. […] Ora, scendendo a sud da questo spazio “smisurato”, passo a un mondo di cui conosco perfettamente scala, orizzonti e dimensioni. Sto uscendo dall’Europa verticale per entrare in quella orizzontale».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

17 luglio 2013

Ore 13.40

Tavolaccio in legno spoglio della casetta in Canadà

Tutto è pronto ormai alla dipartita. Tra circa un’ora ce ne andremo dall’adorata dimora, che ci ha accolto a rapide aperte in questi tre giorni di ritiro.

Lasciamo questo locus amenus per rituffarci nel marasma cittadino. Alla fine abbiamo deciso di tornare ad Helsinki perché Sofia ci ha riferito che le signore lapponi non sarebbero state disponibili. Dunque, un po’ a malincuore, ci dirigiamo verso il sud e verso un cambiamento decisivo del paesaggio: dagli abeti alle betulle.

Diamo l’ultimo saluto alla natura selvaggia e cominciamo a farci coccolare dall’idea di docce, letti e cibo commestibile. Non so quale sia, tra questi, il bene di lusso a cui aspiriamo di più, anche se il letto per ora rimane in testa. Diciamo che dormire per tre giorni su un tavolaccio di legno in una casa a mollo nel fiume, dopo cinque giorni di trekking estremo, non è stato un toccasana per le ossa.

La colazione ce la siamo fatta con calma al Campo Base, con un caffè fumante, dando fondo alle scorte di cioccolata e biscotti. Uscendo, ho dato una craniata allo stipite della porta, ancora ho l’eco nel cervello. Ovviamente, qui al Campo Base ci siamo fatte i fatti nostri, come al solito, intascando pane a volontà e usufruendo del lavandino del bagno per le faccende mattutine.

Siamo tornate, quindi, a fare i bagagli. Ma, non contente, decidiamo di dare un ultimo e significativo addio ai monti e, dunque, appena lavate, nutrite e rilassate… ci mettiamo a fare il fuoco, sotto la pioggia battente. Parte così l’ultima puntata delle comiche in casa Yaga’s. Comincio a racimolare tutta la carta che trovo in casa e faccio un bel cartoccio che mi ficco in tasca assieme ai cerini. Poi, pretendo di reperire della legna asciutta. Dato che quella accatastata vicino al braciere è ormai acqua rivestita di corteccia (“Ce potemo fa i gavettoni”), punto dei tronchi lasciati sotto ad un’incerata. C’è solo un problema: bisogna tagliarli. Dopo aver impugnato un’accetta, vibrato una serie di colpi accaniti e aver scalfito dieci millimetri di legno, decido che “la falegnameria non sarà mai il mio mestiere” (cantandola alla Venditti). È a quel punto che mi arriva la voce amica di Fra (estremamente allarmata dalla mia nuova impresa) tipo grillo parlante: “Ci sono dei ciocchi già tagliati nel capanno”. Con tutto l’occorrente a disposizione, mi appropinquo al braciere, dispongo la carta, i rametti e i ciocchi in posizione strategica, da brava scout… e butto sette cerini perché è tutto zuppo di nuovo e la carta non si degna minimamente di accendersi. Ma poi Fra ricompare, stavolta nelle vesti di fata turchina, impugnando gli strumenti magici: accendino… e mutande. Prendono subito. Le getto sotto alla pira assieme alla carta, la fiammella divampa, estendendosi man mano ai ciocchi più grandi… e il fuoco diviene realtà.

Di quella pira l’orrendo foco, tutte le fibre m’arse, avvampò!

Entusiasta, mando Fra a reperire tutto ciò che di asciutto e combustibile trovi in casa: spago, stracci, fazzoletti del Campo Base credo a base di benzene… Butto tutto dentro e soffio fino a che ho la faccia nera e gli occhi lacrimanti. Tempo un minuto ed il fuoco è bello vivo. Aggiungo altri ciocchetti e mi appresto a cuocere la zuppa e a carbonizzare i wurstel allo spiedo (diciamo che al barbecue ho avuto momenti migliori).

Finito di consumare l’ultimo pasto boschivo, ci diamo da fare per pensare a come risolvere il problema scorte: non abbiamo praticamente più cibo sostanzioso e ci aspettano cinque ore di viaggio fino ad Oulu e un’altra nottata sul treno per Helsinki, con sole due ore di tempo per fare spesa e recuperare i bagagli al deposito. Le scorte attuali si limitano attualmente a:

– Cinque pacchetti di noodles brodo

– Alcune bustine di zuppa al niente

– Pane su pane (che più che altro è gomma pane)

– Barrette di cioccolata Fazer

– Briciole di biscotti alla menta

– Una piadina stantia

– Due barrette ai cereali

– Carboncini al suino avanzati dal pranzo di oggi

In compenso, il mio kit di stoviglie continua a reclutare componenti: oggi si è aggiunto il terzo manico e un cucchiaino.

Fra ha deciso di abbandonare qui alcune cose: la stuoia dei francesi (a malincuore), il portapranzo ormai ridotto ad un relitto cancerogeno e la felpa che l’ha accompagnata per tutta Oulanka (che farebbe la fortuna dei microbiologi). Ah, abbiamo abbandonato anche il rocchetto di spago, contando sul fatto che non dovremo più chiuderci le porte (lo stesso vale per lo scotch da pacchi, gli elastici ed i manici di scopa). Avevo creato un tale groviglio che stamattina non riuscivamo più ad uscire, ho dovuto tagliare con il coltellaccio tipo Crocodile Dundee.

Ultimo barbecue
Di quella pira…

H 17.35

Pullman per Oulu, 9° C

Siamo posizionate sui primi sedili anteriori di un pullman la cui insegna luminosa recita: OULU. Entrambi i posti, una a destra e una a sinistra. Su questo pullman ci siamo solo noi, come del resto in tutta Kuusamo, credo. Il guidatore è il vecchietto che ci ha appena portate da Juuma a qui e che è andato a Salla e ritornato… non lo so, non capisco più nulla, forse sono tre gemelli. Siamo parcheggiate nel solito trionfo di nulla, nel parcheggio della fine del mondo, attendendo di salpare per Oulu adorata, capitale della movida nordica. La pioggia non smette di cadere fitta e sottile. Alla radio passano canzoni country in finlandese in cui ogni tanto si distingue la parola Vännämönen a ritmo di banjo. Fuori dal finestrino c’è un paesaggio che è l’espressione più perfetta del nichilismo: il parcheggio di una stazione deserta con un grande e tozzo edificio in mezzo, tutto chiuso, sigillato, morto. Un cubo di sbiadita e anonima desolazione in una distesa di cieco cemento. Un inutile cumulo di mattoni rossi che si staglia contro un cielo uniforme color cemento. L’unico tocco di vivacità è dato dal verde brillante di qualche aiuola brulla, chiazze di tappezzeria sull’asfalto fradicio, e dall’insegna color celeste della stazione, MATKAHUOLTO. Un brivido mi scorre lungo la schiena al pensiero che ci era balenato in mente il pensiero di trascorrere la notte qui.

Ecco, siamo partite. Non capiamo che stia succedendo, ma contiamo di arrivare ad Oulu. Comunque, in qualsiasi altro posto dovessimo finire, le nostre linee guida rimarranno tre: letto, doccia e cibo decente.

Prima di partire, ho chiesto più volte all’autista:

“Oulu? Oulu?”, ma lui si è limitato a fare dei cenni che potrebbero significare qualsiasi cosa e a concentrarsi a spalancare il portellone del pullman per mettere gli zaini (che non serviva, ci siamo solo noi). Poi è sparito chissà dove, per ricomparire dopo un po’ con dei pacchi postali, che ha messo in un altro vano del pullman (che sia il famigerato postino? Dato che l’omino dell’autobus per Juuma è lo stesso di altri tre autobus della stessa linea non mi stupisce affatto che l’autista del pullman faccia anche da postino, se non ci sbrighiamo reclutano anche noi).

Diciamo che anche quello che è successo prima di arrivare al pullman non è stato proprio il massimo. Oggi è decisamente una giornata no.

Lasciata la nostra casetta, arranchiamo con tutta la baracca sulle spalle più il sacco della spazzatura, per i due chilometri che ci separano dal punto di partenza degli autobus di Juuma. Inutile descrivere il piacere nello stentare tra sentieri fangosi sotto la pioggia con tutto il peso addosso, con i soliti acciacchi che non si sono affatto alleviati, anzi, si sono amplificati grazie all’umidità del fiume. E così, via con passerelle, ponti, scale e scalette in legno scivoloso con travi cedevoli (sembra di giocare a Monkey Island in 4D).

Riusciamo, se non altro, ad arrivare con nessun acciacco in più (anche perché sarebbe difficile trovarne altri). Ci buttiamo subito nel Cafè del caro omone baffuto a mangiare un dolce e delle mele, in attesa dell’autobus. Un gruppo di pescatori tenta di scroccarci un passaggio in macchina… gli spieghiamo che è quello che cerchiamo da giorni. Mentre mi faccio problemi a tirare fuori il mio coltello per tagliare il dolce, Fra mi fa notare che uno di loro ha una specie di sciabola attaccata alla cintura (“Ti fai troppi scrupoli”; “Se lo facessi a Roma ci arresterebbero”).

Alle 15:49 in punto usciamo dal cancello del parco e andiamo ad attendere l’autobus, sotto la pioggia. Inutile specificare che non c’è uno straccio di pensilina. Ci intratteniamo leggendo il tabellone di presentazione del parco, focalizzandoci su alcuni punti:

– “You can find several species of various plants and animals” (abeti e renne a volontà, uno scoiattolo spocchioso e un ciuffo di ribes rossi).

– “The travel is divided in sections, each is made to be joined in two days” (ci siamo sparate tre quarti del percorso in due giorni e mezzo).

Finalmente riusciamo a prendere l’autobus e ritroviamo i vecchi compagni d’armi: i francesi. Anche loro sembravano reduci da tempi duri, a giudicare dalle facce sfatte e dagli abiti malmessi.

Lungo il tragitto non c’è nulla di interessante, a parte un rischio di incidente per due renne in mezzo alla strada e l’avvistamento di vari cartelli con nomi tipo KITKA, VIRKKOLA e ANGRY BIRDS ACTIVITY PARK (Angry Birds è ovunque, è peggio di Hello Kitty in camera di un’adolescente).

Arriviamo quindi a Kuusamo, dove di interessante c’è ancora meno: niente. Non c’è assolutamente niente (vedi descrizione del piazzale sopra). Scendiamo dall’autobus nella stazione deserta. Tutto chiuso, blindato. Troviamo l’unico riparo da pioggia e vento gelido in una porticina aperta che dà su una specie di deposito largo un metro. Ovviamente arriva subito una che abbaia qualcosa in finlandese inframezzato con qualche “Private” e ci sbatte fuori senza troppi complimenti. Nonostante non sia l’esemplare migliore di razza umana, è l’unico. Dunque, mi rifaccio sotto e le chiedo: “Is there a place around here where we can take a shelter while waiting for the bus?”. C’è: è il supermarket. Ci si illuminano subito gli occhi. Ci indica un chilometro in una direzione (che è difficile descrivere senza punti di riferimento). Ci dirigiamo, a senso, nel punto che sembra più abitato e, tramite conferme a gesti da vecchiette locali, arriviamo… al centro prelievi di Kuusamo. Dei prezzi mai visti. Tempo di acquistare giusto lo stretto necessario per non morire di fame, veniamo rapinate e usciamo disgustate.

Torniamo alla stazione. Attendiamo un po’ sotto l’unico punto di riparo che troviamo (una pensilina bucata), guardandoci intorno e cominciando a sentirci parte di un’opera di T.S. Eliot.

Il resto è noto.

Ore 24:00

Treno notturno per Helsinki

Comodi sedili (una delle migliori dormite fin’ora)

In partenza

Non so davvero da dove cominciare, c’è davvero l’imbarazzo della scelta.

Il pullman ci porta sane e salve ad Oulu tra botte di coma ad intervalli regolari, della durata di mezz’oretta l’una, e consumo compulsivo di pane residuo dalle scorte (che faceva le veci delle travel gum). Il paesaggio alterna per lo più casette sperdute nel bosco (le stazioni) e bosco. Non abbiamo le forze di scambiare molte parole, tranne poche affermazioni buttate lì tra un albero e l’altro.

Me: “Le scarpe erano dello stesso colore grigio del pile…”.

Fra: “Adesso s’intonano coi pantaloni caramello”.

Me (guardandomi nello specchietto): “Appena arrivo ad Helsinki mi compro un set di pennelli e mi ridipingo la faccia”.

Neanche le renne ormai sono più una novità (a parte il fatto che ce n’era un branco intero a bordo strada). Le strade appaiono desolate tanto quanto le cittadine che attraversiamo. La strada per Kuusamo ha due corsie di uscita e una di entrata, ma non ci chiediamo il perché.

Giungiamo quindi ad un posto nuovo: Oulu. L’ombelico del mondo. Sempre più smaniose di raggiungere civiltà, caos e movida, controlliamo subito gli orari del treno per Helsinki: 23.49. Abbiamo tre ore di tempo per dedicarci alla nostra attività preferita: fare scorte. Ci fiondiamo subito in cerca di qualche supermercato dai prezzi ragionevoli… e troviamo tutto chiuso. C’è solo un posto superstite, un mini-market aperto ventiquattr’ore. I prezzi sono abbastanza onesti, sebbene non vi siano articoli in sconto e, soprattutto, i nostri biscotti alla cannella (che ormai sono diventati un bene primario). Facciamo una prima ricognizione accontentandoci di quello che troviamo: pacchi di piadine, pane dolce e salato, yoghurt. Quando ci accorgiamo che è davvero tutto chiuso, ci ritorniamo e terminiamo la missione con: acqua, affettato e pizze pronte dal dubbio aspetto. Abbiamo anche tentato di mendicare dell’insalata da Subway, ma meno di cinque euro a scodellina non se ne parlava.

Ad Helsinki ci butteremo sul primo banco ortofrutta tipo l’assalto ai forni a Milano.

Tutto ciò ha occupato solo un’ora del nostro tempo. Dunque, nel dubbio, non sapendo che fare… camminiamo. Con tanto di zainoni, borse, buste e tenda a disco, ci avventuriamo per le solite strade e ci avviamo al mercato sul porto. Lo scopo era, a parte l’evitare come la peste il Mc Donald’s degli orrori, che ci ha causato più traumi repressi che la madre a Edipo, usufruire dei bagni gratuiti e magari prenderci un caffè al nostro solito chioschetto (che scopriamo solo ora chiamarsi Kahvia, beffate fino all’ultimo).

Ovviamente era chiuso.

Ripieghiamo per una poetica cena sui gradini del molo a base di wurstel carbonizzati (gelosamente custoditi nel portapranzo per tutto il viaggio) e il solito pan di spugna, che dobbiamo finire dato che ne abbiamo comprato un pacco sufficiente a sfamare una squadra di rugby. Consumiamo il tutto con il sottofondo di musica rock che arriva da qualche parte, mista ad urla sguaiate provenienti sicuramente dal karaoke in fondo alla piazza. Su Oulu puoi dire tutto, tranne che manchi la musica.

Intorno a noi ci sono vari ubriaconi ormeggiati con le loro bottiglie di birra. Ogni tanto qualcuno ne tira una a caso e la vecchietta del riciclaggio passa pronta a raccogliere (finché non ci sono feriti la cosa funziona benissimo).

Fra: “Però dai, qui ci sono solo ubriachi, non c’è gente strana”.

Me: “No, quella sta tutta al Mc Donald’s”.

Tempo di ripulirci freneticamente dal nero miniera gentilmente rilasciato dal portapranzo, ci rilassiamo con una sigaretta russa e della frutta secca alla splendida luce del tramonto sul porto. Questa è una cosa che davvero ci mancherà.

Dopo i pochi minuti di tregua ci riarmiamo e partiamo alla volta della stazione. Non mancano momenti di alto lirismo: “Fra, non mi lavo SOLO dall’altro ieri e già faccio schifo”.

Lungo il tragitto incappiamo in una serie di attraversamenti stradali mal sincronizzati: interminabili minuti di rosso per tutti, pedoni, bici e auto (tipo Mezzogiorno di fuoco) e poi via! Verde per tutti e si salvi chi può.

Ce la caviamo con qualche attacco di panico.

Giunte alla stazione, ci fiondiamo alle cassette di sicurezza per ritirare il resto dei bagagli (quelli lasciati qui prima di Oulanka). Visto che ci mancavano ancora quaranta minuti di tempo, decidiamo di metterci a travasare i bagagli a soli quattro minuti dall’arrivo del treno. Tanto per non perdere l’occasione di un’ennesima corsa forsennata. Ma questa, del resto, è ancora la parte migliore.

Saliamo sul primo vagone che riusciamo a raggiungere, aiutate gentilmente da un addetto che mi vede imprecare contro la porta blindata. Scopriamo subito che siamo in un vagone letto. Arranchiamo nell’angusto corridoietto tra spinte e incastri coi bagagli, fino a raggiungere l’altro vagone… letto. Che, del resto, è l’ultimo del treno.

Ergo: ce la facciamo tutta a ritroso: letto, letto, letto… (un po’ come ‘cottero’).

Dopo il quarto vagone-letto, sbuchiamo su un baratro. È subito panico. Cerchiamo di trovare un angolino in disparte per mollare i bagagli senza venire travolte dal viavai di persone, dopodiché Fra va cercare qualcuno per chiedere aiuto. Torna con una buona notizia e una cattiva: si può passare oltre la congiunzione dei vagoni (come nei migliori film western), ma dobbiamo passarne altri cinque. Abbiamo recuperato tutti i chilometri risparmiatici nell’ultimo tratto dell’Orso.

Dopo essere, in pratica, tornate a piedi ad Oulu mentre il treno era già a Ylinska, spompate fino all’ultima fibra, ci buttiamo sui primi sedili che troviamo, fregandocene ampiamente dell’assortimento di brutti ceffi che costella i dintorni (tipo quello di fronte a noi con colbacco e faccia paonazza).

Insomma, zainone sopra sullo scomparto bagagli, pile appeso al sedile, spesa parcheggiata al nostro fianco (al sicuro, visto mai), borse sotto le gambe e coltellaccio a portata di mano, ci spalmiamo sui sedili, con gambe sul bracciolo e cuscino gonfiabile dietro la schiena. Fra studia la sua guida in cerca di prossime mete, mentre io finisco il solito resoconto.

La notte è giovane.