Karantina

Capitolo 5 – Cafè de Paris

«È una questione di molecole, e la felicità, suppongo, scatta nel momento in cui captiamo allo stato libero gli elementi che compongono il nostro essere. E là, allora, ce n’era un bel numero, in uno stato di libertà totale, e io avevo la sensazione di essere entrato nel mio stesso autoritratto sospeso nell’aria fredda».

(Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili)

Yogyakarta, 12 aprile 2020

Giorno 6

Mi sono alzata in una soleggiata mattinata pasquale, addirittura alle 11.30. Quasi mi aspettavo di veder sorgere il sole.
La mia coinquilina è sempre in balìa di qualche campo di prigionia, non si sente e non si vede da una settimana.

Ieri notte – a parte mettermi a studiare lo spagnolo su Duolingo di punto in bianco alle due senza nessun apparente motivo – sono andata a letto ad un’ora abbastanza decente, cioè tra le due e mezza e le tre.

Una dimostrazione scientifica che la teoria per cui prima vai a dormire e prima ti svegli è sempre valida.

Quindi mi sono svegliata, ho fatto colazione con il mio pane all’uvetta fresco fresco di bakery, cioccolato bianco, latte e caffè.
Non sarà la colazione di Pasqua ma comunque si avvicina già ad un concetto di colazione.

Il sole oggi è molto caldo ed il cielo sorride abbastanza.

Visto che comunque tra una cosa e l’altra si è fatta già l’una e mezza e io alle tre ho appuntamento con la mia amica italiana che mi viene a prendere per andare al mare, ho fatto giusto in tempo a mettermi dei vestiti decenti (quanto mi mancava) e ho acceso il computer. Ma giusto così per dire che non avevo buttato una mattinata, in realtà non ci ho fatto niente.

Sempre col computer acceso, ho preso la chitarra e mi sono messa a cantare nel giardino sul retro. Ho strimpellato una delle mie canzoni, Semalam di Istanbul (‘Una notte a Istanbul’), tanto perché grazie alla saponetta ero entrata in pieno tema Turchia e non riuscivo a togliermelo dalla testa.

Quindi via alla nostalgia melensa della musica in stile pop-melayu, con chitarra scordata tra i panni stesi.

Il cantautorato da quarantena

E Buona Pasqua.

Ovviamente ci ho fatto un video per Instagram, o sarebbe stato come se non aver suonato.

Visto che adesso mi rimane un’ora, credo che spegnerò il computer, che ha fatto comunque la sua parte, rimanderò le varie attività di blog e diari a stasera e mi metterò a leggere il libro sulla Cambogia attendendo la mia amica.

Oggi il mood è sereno variabile con nubi sparse e possibili temporali.
Mi sento fiduciosa che riuscirò a riacquistare una routine.
Non importa su quale fuso orario.

Post-mare

Oggi è stata finalmente una bella giornata. La prima bella giornata da un mese a questa parte.

Certo, è stato facile, bastava uscire.

Dopo aver passato il resto della mattinata a leggermi il libro nella mia stanzetta soleggiata – un sole veramente molto intenso come lo sapesse che fosse Pasqua nonostante qui non se ne avverta minimamente traccia, mentre l’angoscia dell’approssimarsi del Ramadan cresce esponenzialmente – sono sgusciata fuori di casa come una fuggitiva, sentendomi un evaso da Alcatraz.

Che poi nel mio complesso residenziale a nessuno frega nulla in realtà, vanno alle preghiere di massa, voglio dire.

Sono uscita dalla guardiola bardata più di un bandito messicano passando davanti ai sorveglianti – tutti rigorosamente senza mascherina – intenti a spruzzare candeggina su chiunque richiedesse l’accesso al comprensorio, cioè quasi chiunque. I residenti venivano graziati, come se facesse qualche differenza. Se esci e rientri porti comunque germi dall’esterno, non è che il Corona guarda il tuo contratto d’affitto. Boh. È tutto senza senso.
Mi sono chiesta quanti di quei poveracci in motorino abbiano intossicato a botte di candeggina.

Comunque, oggi è Pasqua.
Checché se ne dica.

Il tragitto verso il mare da casa mia è brevissimo, saranno 15 o 20 minuti al massimo, tutta dritta verso sud tra i monti di Imogiri e i campi di riso, uno spettacolo.

Mi chiedo perché non ci vada quasi mai, poi mi rispondo subito che normalmente ho una vita.

La luce tra le tre e le quattro di pomeriggio è meravigliosa, il sole si avvia alla sua fase calante e tutto è romanticissimo. Poi dalle cinque lo è un po’ meno, comincia crepuscolo, circo di insetti e zanzare.
Ma quella è un’altra storia.

Siamo arrivate alla spiaggia di Parangtritis ed era – non dico deserta, perché non lo era, c’erano anche, inaspettatamente, i parcheggiatori (quindi abbiamo pagato il parcheggio) – molto meno frequentata del solito.

Considerando che è la spiaggia più facilmente raggiungibile dal centro cittadino – un po’ la Ostia yogyanese – e non l’ho mai vista priva di comitive di famiglie con mogli in veli islamici, bambini chiassosi che fanno il bagno vestiti (perché gli indonesiani fanno il bagno vestiti, con jeans e felpe), esagitati che impennano coi motorini sul bagnasciuga e carretti con cavalli al servizio di coppiette per passeggiate romantiche, si può dire che era quasi deserta.

Considerando anche che è anche domenica che è il giorno peggiore e di solito c’è una ressa che neanche a Ferragosto a Torvaianica, si può dire che la situazione fosse abbastanza sotto controllo.

Si riusciva benissimo stare a distanza delle altre persone, poche e sparse qua e là lungo l’enorme distesa sabbiosa in cui mare, cielo e spiaggia si fondono all’ora del tramonto in un unico azzurrino fioco tra il rosa e il grigio, con punte di luce calda all’orizzonte e ombre dalle scogliere rigogliose.

Pianeta Parangtritis

Un paradiso a quindici minuti da casa, mai filato di pezza.

[Calo del velo pietoso tipo Deus ex Machina]

Le onde della Regina del Sud (lo spirito che secondo i giavanesi popola queste acque) sono come al solito turbolente e minacciose. E dire che nessuno è vestito di verde, nessuno osa. Anche perché secondo la leggenda se ti vesti di verde la regina si incavola a morte e ti trascina impietosamente tra i flutti. Tutto ciò per spiegare che questo mare non è balneabile date le fortissime correnti.

In pratica, verde o non verde, se ti tuffi un minuto dopo sei in Australia.

Omaggi alla Regina

La storia comunque narra che Ratu Roro Kidul, la regina dei mari del sud, avesse intrattenuto una specie di relazione amorosa con il Sultano Agung del regno di Mataram (circa XVI secolo). Una storia travagliata e finita male quindi giustamente la regina, rifugiatasi nei suoi abissi nel suo regno tutto verde, ora miete vittime come un’assassina. Il sultano scelse i doveri religiosi e politici all’amore.

Vorrei concludere questa triste vicenda con una battuta sessista, ma non lo farò.

Tutt’oggi ogni sultano yogyanese lascia una sedia vuota per la sua consorte immaginaria, la regina Roro Kidul, con cui si ritiene ogni sultano sia formalmente sposato e lei veglia irrequieta la città dalla spiaggia verde.

Ci sono anche altre versioni di Roro Kidul, con altri nomi e altre sembianze, in tutto il territorio giavanese e anche in altri posti del Sudest asiatico (ho visto una dea simile in Thailandia, Cambogia e Myanmar). In tutti i casi è una divinità acquatica protettiva quanto pericolosa.

Nel dubbio, io il verde se posso lo evito.

La marea alterna alti e bassi come il mio umore.
Tra onde della portata di uno tsunami che travolgono tre quarti di spiaggia e secche che fanno ritirare l’acqua tanto da poter camminare chilometri bagnandoti solo fino alle caviglie. Che potresti quasi a arrivare in Australia a piedi. Esattamente come il mio umore.

Basta che stai attento quando vedi l’onda all’orizzonte e cominci a correre come un ossesso per non rimanerne travolto. Gli scherzetti della regina.

Ci siamo fatte una bella chiacchierata e una bella passeggiata arrivando fino al confine estremo della spiaggia dove sorge un’immensa rupe con un punto per la meditazione in cima. Pare che sia abbastanza difficile raggiungerlo.

Il paesaggio era quieto e surreale, calmo, avvolgente, sembrava di essere in un fantasy. Enormi rocce che spuntano dal mare, qualche omino locale con cappello di paglia a punta che pesca, una jeep che solca le dune bagnaticce, un carretto colorato con cavallo che trotta, un coatto che impenna col motorino…

Ad un certo punto ci siamo sedute sulla spiaggia ad ammirare il tramonto, acchittando un pic-nic con i panini aromatizzati del Via Via.

Italiani, italiani nel mondo.

Siamo state lì a goderci il tramonto, la sabbia tra i piedi, la luce meravigliosa, la sabbia nei capelli, il vento, la sabbia in bocca…

Alle nostre spalle la rupe rigogliosa ci faceva da scudo, con i mini banani che spuntavano dalle rocce e i piccoli warung (baracchini di cibo arroccati alla bell’e meglio) ormai chiusi, le lucine in lontananza oltre la scogliera…

Quando il tramonto ha raggiunto la sua massima potenza è diventato tutto pazzesco. I miei occhi quasi non credevano che fosse vero. Sembrava di essere in un dipinto vivente. Non riconoscevi più la linea d’orizzonte, era tutto un enorme specchio d’acqua grigio-rosata, cielo e mare, non capivi più dove ti trovavi esattamente.

Un’esplosione di colori. Un’incursione in una tavolozza.

Blu, indaco, giallo, rosa, celeste, magenta, violetto, arancio. Una scala cromatica digradante verso l’orizzonte che si rispecchiava nell’acqua dalla superficie quasi immobile.

Pure la regina si è fermata un attimo a guardare placando i flutti.

Impressione del sole morente #1
Impressione del sole morente #2
Impressione del sole morente #3

(Nel frattempo uno ha appena sputato a terra senza mascherina, e via il romanticismo).

In tutta questa tavolozza una menzione d’onore va alle scogliere. Che si riflettevano sul bagnasciuga creando giochi illusionistici. Terra, cielo e mare diventavano tutto un continuo. Un bagno di tutto, di vita. La sabbia bagnata, l’acqua sui piedi, la luce e il vento sul volto, la natura alle spalle e il mare di fronte. Scambiarsi risate e storie sulle misteriose apparizioni della regina (si dice che ci sia una locanda nei pressi della spiaggia che ti affitta la camera in cui ti appare lo spettro di Roro Kidul) è stato qualcosa di indescrivibile. Banalmente, ti rendi veramente conto di quanto apprezzi le minime cose quando non le hai.

Lo stato libero degli elementi che compongono l’essere

Siamo rimaste fino al calare del sole, finché la spiaggia non è diventata una distesa buia illuminata solo da una mezza luna e da poche stelle (non sapevo si vedesse Siro da qui, io ancora non ho capito a che emisfero facciamo capo visto che siamo a cavallo dell’equatore, pure le coordinate geografiche sono confuse in questo paese!).
Siamo tornate al parcheggio facendo lo slalom tra pozze e dune e guadando canali alla ceca solo con le torce del cellulare.

E siamo passate davanti a lui: il Cafè de Paris. Un baracchino malandato che si fregia ironicamente di questo nome dall’abbreviazione di Parangtritis (che i yogyanesi chiamano Paris per far prima). Peccato che sia momentaneamente chiuso, dice che facciano il pesce arrosto più buono del circondario. E chi lo direbbe guardando quelle due panche verniciate di celeste arroccate male sotto un capanno dalla luce fioca!

Cafè de Paris

E poi montate in macchina l’idillio è finito, e via di nuovo fino alla prigione. Ora d’aria finita e arrivederci vita vera.
Quanto mi erano mancate le interazioni sociali, l’aria aperta, i pic-nic, le passeggiate…
È stato come rivedere un ex di cui credevi di aver imparato a fare a meno ma che in realtà scopri di amare ancora tantissimo, anzi ancora di più.

Quindi, siccome ero di buon umore, dopo la videochiamata pasquale ‘edizione speciale’, comprensiva di zia e cugina – “Che?”; “Parla tu”; “No, parla lei”; “Eh? Ma dov…cos…?”; “Mamma sei a testa in giù!”; “Zia quello è il vivavoce non la telecamera”; “Zia… zia?”; “…”; “È caduta la linea”; “Che giorno è da te?”; “Mamma sono solo cinque ore di fuso”; “Si ma dov’è zia?” – mi sono messa a fare le polpette all’italiana.

Cioè, più o meno. Calcolando che ho solo farine di riso e maizena qui. E che il parmigiano viene dall’Australia e il basilico è piccante e non esiste pangrattato perché non esiste pane e… vabè. Per lo meno avevo i resti del pane e del formaggio del Via Via, che mi hanno salvato la cena. Ci ho aggiunto anche pepe bianco locale, lime e coriandolo, così. Quindi d’italiano le polpette avevano giusto l’intenzione.

Ora sono accoccolata sulla mia amaca.
Sono le 23.20 e penso che mi leggerò un altro po’ di libro e poi andrò a dormire sempre chissà a che ora.

Credo che la giornata di oggi possa essere una buona ripartenza. Da domani cercherò di rispettare il calendario di cose utili e produttive che ho stilato senza mai darmi troppa pena di rispettare. Sto cominciando ad abituarmi all’idea che potrei passare l’intera quarantena da sola e del fatto che, forse, non è poi così male. E comunque, appena mi rendo conto che la ‘shit together’ non la sto tenendo più posso sempre andare a far visita alla regina.

Ho capito che dovrò dar via tutti gli indumenti verdi.