«[…] In uno dei suoi momenti cupi, Pascal dice che tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola, non sapersene star quieto in una stanza. “Notre nature” egli scrive “est dans le mouvement… le seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement”. Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. L’uomo che se ne sta quieto in una stanza chiusa rischia di impazzire, di essere tormentato da allucinazioni e introspezione».
(Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza)
Yogyakarta, 11 aprile 2020
Giorno 5
Sono nel piazzale che prima era il parcheggio del ViaVia e adesso è semplicemente un piazzale vuoto, senza i tukang parkir (parcheggiatori) e senza persone.
Prawirotaman, la Hollywood yogyanese, solitamente stipata di backpacker in Birkenstock, è deserta, surreale.
Tutte le attività sono chiuse e non c’è un turista in giro. Ci sono solo io.
Sono venuta qua per andare alla bakery a comprare pane, formaggio e cioccolato che sono i miei beni primari. Checché se ne dica.
Ah, queste cose non si trovano ai supermercati normali. Checché se ne dica.
Ho una sensazione strana, mi sento come se stessi rischiando la vita uscendo in avanscoperta al fronte per portare approvvigionamenti alle mie truppe. Quando in realtà sono solo io che sto uscendo a fare commissioni normalissime che se me lo avesse chiesto mia madre in Italia avrei pure sbuffato con poco entusiasmo.
Nella bakery c’ero solo io.
Cioè in tutta la via c’ero solo io.
Il negoziante mi ha accolta in modo cordiale. Io ho comprato quello che dovevo comprare abbastanza in fretta (mai messoci così poco a decidere davanti ad uno scaffale ben allestito) sempre comunque dandogli corda, che poi pareva brutto. Ma dentro di me c’era sempre la vocina che mi diceva “stagli lontano” o cose meno intelligenti tipo “evita l’eye contact”, come se il virus si propagasse con lo sguardo. Mi sono sentita quasi in colpa verso quel poveruomo.
Lui continuava ad attaccare bottone circa la questione mondiale, l’Italia e via dicendo.
Mi sono lavata le mani con tre litri di disinfettante appena uscita e ho di nuovo percepito quella sensazione di senso di colpa, come se lo stessi offendendo, ma al tempo stesso di una necessità a cui non potevo prescindere. Ma forse se le sarà lavate pure lui.
È terribile dover dubitare di tutti e tutti come chiunque
possa essere l’untore.
Che poi è stato un sacco cordiale e non ci siamo lontanamente sfiorati. Avevamo
entrambi la mascherina. Io avevo anche gli occhiali ed ero tentatissima di
tenermi il casco. Ma quello era obiettivamente eccessivo. Così eravamo più
verso la rapina che la prevenzione.
Tutti erano molto cordiali e gentili, anche la signorina alla cassa. Ma dietro la cordialità si percepiva comunque l’ansia in agguato.
Tutti siamo in ansia.
Sembra di essere in uno di quei film apocalittici in cui il 10% è trama, il 10% è ambientazioni desolate ma dalla fotografia impeccabile e il restante 80% è ansia.
E questo mette ancora più ansia.
Qui passa qualche motorino ma le strade sono per lo più libere. La Parangtritis sgombra fa impressione. E per sgombra intendo con solo due metri di fila al semaforo all’incrocio col raccordo cittadino. Di solito sono almeno venti. Cominci praticamente dal mare. C’è comunque molta più gente di quanta me ne aspettassi, ma la differenza si nota. Calcolando che non c’è ufficialmente nessun lockdown, non è così male.
La cosa più impressionante è Prawirotaman deserta. Si respira desolazione anche sotto uno strato di mascherina e due di sciarpa. Qui eravamo a Las Vegas! È l’unico posto a Yogyakarta in cui trovi locali e ubriachi 24 ore su 24! E negozi veri con le vetrine, non il bancarellame che c’è ovunque. E vino e pane e formaggio.
Io non riesco a smettere di pensare che sia surreale.
È l’unico termine che mi viene in mente.
La mia prossima tappa è il Superindo, un’altra avventura. Spero che non ci sia fila e che la gente non si accozzi l’una con l’altra. Ma nella mia mente già si fa largo un circo con acrobati e trampolieri. Tutti senza mascherina. Spero soprattutto che ci abbiano lasciato qualcosa. L’ultima volta i prodotti più quotati erano la salsa piccante, la pasta (ma solo penne e fusilli, chiamali scemi), le caramelle balsamiche e le tisane allo zenzero (che così il sultano è contento).
Se non altro, qui non abbiamo problemi di carta igienica, non si usa.
Post-Superindo
Della coinquilina ancora non c’è traccia. Sarà sempre ostaggio dei Jihadisti.
Alla fine, dopo l’esperienza scioccante di Prawirotaman, sono andata al Superindo, che è stato ancora più scioccante. Ma nel senso opposto.
Cioè, come immaginavo, c’era una marmaglia di gente accozzata.
Ho fatto una fatica immane ad evitare gente ammassata nelle corsie striminzite. È stato come giocare alla versione vivente di pacman, ma col carrello. Un turbinio di mascherine messe male e zero distanza sociale. Commessi senza guanti e mascherine. Non sanno proprio cosa siano. Gente che ti viene incontro forse per carenza di affetto. Io che in tutto ciò mi sentivo come la pazza misantropa che sbuffava non appena qualcuno entrasse nella mia traiettoria a meno di due metri e spruzzava alcol a destra e a manca tipo il prete che benedice casa con l’acqua santa durante un esorcismo.
Credo di aver spruzzato tutto e tutti.
Mi sono ridotta a rifugiarmi nel reparto datteri per fermarmi un attimo a controllare la spesa in santa pace. Chi li compra i datteri?
E niente agguati anche lì. Oggi a tutti è venuta voglia di datteri.
Poi mi sono ricordata che è quasi tempo di Ramadan, e i datteri durante il Ramadan sono tipo il panettone a Natale.
Allora mi sono rifugiata alle pere, che di solito sono troppo costose e comunque le importano dalla Cina quindi a nessuno ora viene in mente di comprarle.
Mi sentirei di dire che è stata un’esperienza abbastanza traumatica. Ho passato il tempo a schivare pericoli ambulanti e ad inveire, senza potermi concentrare davvero su ciò che volevo o dovevo comprare. E a spruzzare tutto ciò che avevo a tiro, comprese le maniglie del carrello e la mia faccia (per sbaglio, ma non nascondo di aver provato un certo sollievo). Anche i signori a fianco. Spruzzati impietosamente.
Ad un certo punto una tizia ha osato toccarmi il carrello. Mi sono irritata da morire. Sono diventata un campione di spruzzi coordinati a improperi. Ne è uscita viva per miracolo.
Ho comprato comunque più o meno tutto quello che c’era sulla lista e qualcosa che non c’era affatto ma vai a capire in quel marasma.
Mi sono ritrovata uno Spicy Chili Pesto Filippo Berio che in condizioni normali non avrei neanche rilevato visivamente.
Ho comprato la salsa gule perché il kare, il curry di cocco, è andato a ruba. Sparito. Nel resto del mondo pizze e banana bread come non ci fosse un domani, qui non si vive senza kare.
Poi ho comprato verdure, pollo, e tutta un’altra serie di ingredienti che ho pensato bene di mostrare in un tutorial su Instagram o sarebbe stato come non averli comprati realmente. Ci siamo ridotti a fare ‘tutorial’ sulla spesa. Credo che a questo punto la pandemia ce la meritiamo.
Ho caricato le mie buste della spesa sul motorino e sono tornata a casa sentendomi come una nave che rientra al porto dal mare aperto in tempesta.
Il seppur breve tragitto in motorino è stata una bella boccata d’aria. Non mi sembrava vero di essere di nuovo su ruote col vento in faccia, il sole in cielo e i verdi campi di riso che sfrecciavano ai miei lati.
Poi mi sono ricordata una serie di cose. Tipo che lo smog stradale agevola il virus. Che da un motorino all’altro bisogna comunque tenere la distanza. Quindi dal Ringroad in giù non mi sono manco più goduta il tragitto.
Inutile dire le acrobazie ai semafori per stare distanti gli uni dagli altri. Il Sudest Asiatico…
Questa mattina, prima di uscire, tra l’altro, ho incrociato i vicini che con il loro camioncino andavano belli contenti verso la moschea a pregare in gruppo. Rigorosamente ammucchiati e senza mascherine. Mi hanno comunque salutato in modo cordiale. Io ero indecisa tra il ricambiare in modo cordiale e la faccia del: “Ma dove diavolo state andando?”. Alla fine ho optato per la cordialità. Tanto avrei potuto fare qualsiasi espressione sotto maschera, sciarpa, occhiali e casco, non se ne sarebbero comunque accorti.
Poi mi sono anche ricordata che qui la straniera sono io. Quindi la mia faccia bianca è molto più minacciosa di tutte quelle scrittine in arabo sul loro furgoncino che dicono: “Preghiera di massa! Preghiera di massa! Preghiera di massa!”. Nonostante io sia sepolta in casa da un mese e loro vadano regolarmente a farsi il bagno di germi.
A parte il fatto che ho quasi rischiato un incidente all’uscita del mio complesso residenziale perché non mi ricordo più come si guida un motorino, tutto a posto.
Ah, alla fine ho lasciato anche 5000 rupie di mancia al parcheggiatore del Superindo, invece delle solite 1000. Un po’per spirito da buona samaritana un po’, lo ammetto, perché avevo il terrore di prendere il resto dalle sue mani senza guanti.
Tanta gente qui sta avendo momenti difficili, essendo un paese ‘in via di sviluppo’ (chiamiamolo così) molte persone hanno attività che gli permettono di guadagnare alla giornata, non hanno risparmi e vivono già in condizioni di estrema povertà. È davvero difficile procurarsi anche solo da mangiare un pacco di riso e qualche verdura. La loro dieta è comunque molto basilare, non ci sono lieviti, latticini, carne (eccetto il pollo), salumi. Non so cosa succederà con il Ramadan, in cui oltretutto molti osservano il digiuno.
E quindi oggi sul menu dei sentimenti abbiamo un misto di rabbia, nervoso, paura, angoscia, paranoia, dispiacere e un po’di voglia di socializzare mista a fobia dell’altro perché comunque chiunque è un potenziale untore. E quindi si torna alla rabbia. Ed è il circolo della vita.
E poi c’è la sindrome del gendarme. Chiunque non si comporta in modo appropriato ti fa salire la bile e la voglia di giustizia tipo paladina della luna.
In sostanza, alterni momenti in cui vorresti abbracciare tutti e dire “CE LA FAREMO!” (balconi, tripudi, cavallette che danzano al ritmo di tarantelle) e momenti in cui vorresti affogare tutti nell’alcol o affogartici tu e dimenticarti tutto quest’incubo.
Tra l’altro, tanto per aggiungere informazioni inutili, ora il Superindo chiude alle 21.00 invece che alle 22.00, e questa per tutti quanti sembra una grande conquista nella lotta al Corona. Boh.
Ripenso a quello che mi ha detto il commerciante della Via Via bakery: “È molto difficile questa social distance per popoli come italiani e indonesiani, molto socievoli e sociali, che difficilmente rinunciano alla vicinanza e al senso di comunità”.
Ce ne siamo accorti dai circhi al Superindo.
Dopo aver messo a posto la spesa e disinfettato tutto (figuriamoci) si sono rifatte le cinque. Perché ora le mie giornate iniziano direttamente di pomeriggio quindi non è che durino chissà che, dato che il sole qui è andato entro le sei.
Ora l’idea sarebbe fare Yoga, lavare i piatti e mettermi a scrivere il blog.
Il punto è: ne ho davvero voglia?
Più tardi
Diciamo che il pomeriggio non è andato male.
Dopo che ho finito il tutorial sulla spesa (si) e le solite ore di nulla cosmico in cui forse ho anche sistemato la cucina – ma non lo saprò mai perché non ero cosciente – ho lavato i piatti.
La bacinella piena di piatti che avevo lasciato ieri a ‘marinare’ è stata svuotata con successo. Alla fine era vera l’intenzione di lavarli. È sempre vera quando li metti nella bacinella.
Dopo le varie videochiamate coi miei fatte più che altro di “mi sent…?” “pront…” “mamma non ti vedo” “papà non ti sento” “no quello è il bottone per riattaccare” “ecco ora vedo il soffitto, grazie, perfetto”, ho fatto Yoga.
Lo Yoga ti rasserena sempre.
Poi ho acceso un fascio di incensi che neanche alla Pagoda del Buddha reclinato e ho cucinato della carne con verza piccantissima.
Ora credo che mi farò una doccia con l’acqua che ho appena bollito (beato chi se lo fa er sofà) e mi seppellirò viva in qualche serie TV tra quelle a (poca) scelta sul mio hard disk.
In tutto ciò domani è Pasqua.
Dato che la mia coinquilina mi ha definitivamente abbandonata, credo che andrò al mare con una mia amica italiana a fare la covidiot, che comunque è pienamente in linea con le paranoie maniacali di oggi.
Uno lo ricordi uno lo vivi.
È che ad un certo punto bisogna sopravvivere anche psicologicamente.
Poi da dopo Pasqua faccio il fioretto mi muro in casa a fare cose produttive.
Il punto è: ne ho davvero voglia?
Ancora più tardi
La buona notizia è che sono riuscita davvero a farmi la doccia e a lavarmi i capelli, il che implica una serie di manovre dalla bollitura dell’acqua calda fino allo spegnimento di una serie di elettrodomestici a catena per poter accendere il phon senza incappare in poco pratici blackout.
E ho avuto questo flashback pazzesco sulla Turchia grazie al sapone alla cannella. Mi ha riportato subito alle narici l’odore dei bagni turchi di Istanbul e se penso che tutto ciò è successo pochi mesi fa mi viene da piangere (vedi Una via di mezzo).
Mi piacerebbe un sacco mettermi a leggere fuori sull’amaca di notte però non so se è una buona idea con quello zoo lì fuori, rischio di risvegliarmi tipo la Regina Mab shakespeariana, con parti di insetti che escono da ogni dove.