Karantina

Capitolo 3 – Il giorno dopo il giorno ieri

«[…] si sente la sua mancanza, è arrivato e ripartito, odore di vuoto – lo puoi dire dal silenzio della cabina elettrica all’angolo che c’era qualcosa, e non c’è più».

(Jack Kerouac, Viaggiatore Solitario)

Yogyakarta, (aprile?)

Giorno 2 e 3?

Audio-diario quarantena giorno… ecco, già mi sono persa i giorni, neanche ho iniziato.

A che giorno eravamo? Uno, due, tre…? L’audio recita letteralmente “non so se è il tre o il quattro, comunque quello dopo ieri”.

Diciamo quarantena “giorno dopo il giorno ieri”.

Ieri che ho fatto? Boh.

Ieri ho fatto di base quello che faccio ogni giorno. Ormai vado a dormire tra le quattro e le cinque di mattina. Alle tre se mi dice bene, alle due ormai è un lusso.

Cosa faccio?

In questo momento sto tentando di riparare con lo scotch biadesivo la lampada sopra al mio letto che sta drasticamente sfaldandosi. Mi cascherà la lampadina in testa mentre dormo. Forse prenderò fuoco. E porrò fine alle mie pene. Amen.

Comunque sto tentando di mantenere una mia routine, ma la verità è ogni routine è andata definitivamente a farsi benedire. Ho cominciato ad andare a dormire sempre più tardi, fino quasi ad invertire il giorno con la notte. La cosa non mi è del tutto nuova, facevo lo stesso quando cantavo negli spettacoli di teatro delle ombre ma non è che si possano tanto paragonare le due cose…

Quest’anno avevo cominciato bene, con una routine ‘diurna’, svegliandomi alle otto o alle nove ogni giorno, con i corsi alla scuola di canto, il tirocinio al palazzo reale, le esercitazioni di kroncong, i concerti, il muay thai… tutte cose che ormai sembrano lontane anni luce, e non è passato neanche un mese. Direi quasi che era l’anno scorso.

E adesso rieccoci di nuovo qua alla vita notturna, ma senza una vita.

Tento di analizzare razionalmente i fatti (una vita in accademia sarà pur servita a qualcosa). Da una parte sarà dovuto al fatto che di giorno ora fa troppo caldo per fare qualsiasi cosa. Siamo a cavallo di due stagioni più o meno da tre stagioni. Ma quando viene la stagione secca? Quindi io mi attivo definitivamente di sera e comincio a fare le cose dalle sette in poi. Di giorno sto buttata un po’ sull’amaca, un po’ sul divano di bambù a rompermi le ossa con libro, chitarra, cellulare…

Ma le idee migliori mi vengono verso le nove di sera. Tipo editare i video, fare corsi di chitarra online, imparare a fare l’astrofisico da salotto, cose così. Quindi vado a dormire, molto tardi, dormo male, mi sveglio in un bagno di sudore all’ora in cui già dovrei aver vissuto mezza giornata e cerco di dare un senso a tante cose ma “un senso non ce l’ha” (Rossi 2004).

Si, questa era la scusa razionale che mi racconto per prenderla comunque non bene ma meglio di quanto potrei.

E oggi di nuovo: sveglia a mezzogiorno, trastullamenti tra amaca, pioggia, non pioggia, libro, non libro, chitarra, non chitarra…

Ho mangiato una ciotola di riso rosso con formaggio cremoso e tonno, in pratica una ciotola di cibo per gatti, e mi sono detta che forse è ora che vada a fare un po’ di spesa. Poi mi sono detta che in effetti è da due settimane che non faccio spesa. Poi mi sono detta che, in effetti, oggi era il giorno della spesa. Ma mi sono alzata a mezzogiorno e quindi era troppo caldo e poi pioveva e non pioveva e quindi amaca, libro, chitarra e “avanti, indietro, di lato e via” (chi non ci ha giocato da piccolo non può capire).

E questa è sempre la spiegazione pseudo-razionale dei fatti.

Poi c’è il motivo reale, che è che, obiettivamente, la “shit together” non la tengo affatto.

Nisa, la mia coinquilina, ancora non torna dopo quattro giorni, in cui è andata ufficialmente dalla madre a reperire cibo. In realtà penso che neanche lei sia forte abbastanza, o sufficientemente debole, da indossare i vestiti migliori e farsi la quarantena come si deve facendo finta che vada tutto bene tra una sveglia alle dodici e una ricetta orrenda che: “è inutile, non abbiamo mai saputo cucinare, non impareremo quest’anno”.

La verità è che il mio giorno zero non era il vero giorno zero. Io la quarantena ufficialmente l’avevo iniziata lunedì 16 marzo 2020, ora siamo al 10 aprile, circa tre settimane dopo. Tre settimane che sono state un incubo graduale verso il baratro.

Ho iniziato con le liti con i miei coinquilini indonesiani, Nisa e Ali (vedi episodio pentolino e annessi) e ho continuato con alti e bassi, facendomi comunque l’idea che alla fine in due non era così male, che avevamo tanti progetti musicali da portare avanti, che ce l’avremmo fatta come due sorelle che si prendono cura l’una dell’altra.

Poi la mattina del 7 aprile, quattro giorni fa, mi sono svegliata tutta contenta (era in programma un’escursione a Imogiri, per reperire un modem e farci un giro su per le montagne per rinfrescarci le idee e girare qualche scena per il nostro videoclip) e ho trovato casa vuota. Poi ho ricevuto il messaggio: “Sono tornata dai miei per qualche giorno, scusa se non ti ho svegliato, dormivi, mio fratello mi è venuto a prendere alle otto”. Sono seguite breve risposte di falsa comprensione, breve discussione, valutazione della possibilità di rimanere da sola, inutili parole di conforto e vuoto.

E a quel punto no, la mia “shit together” non l’ho più tenuta. È stato uno shock. Non è stata tanto la prospettiva di rimanere da sola, quanto il tradimento. Il non potersi fidare di nessuno. Conosco bene i giavanesi e il loro evitare questioni dirette, potevo aspettarmi cose fatte di soppiatto, ma non dall’unica persona di cui mi sono sempre fidata in sei anni di vita qui.

E quindi niente mi sono disperata abbastanza e ho toccato il fondo e ho deciso, a tre settimane dall’inizio ufficiale di quarantena, che avrei indossato i miei vestiti migliori e ricominciato da zero.

E mi sono messa in testa che, non importa se lei tornerà o no (ovviamente venendo da fuori dunque mandando all’aria l’isolamento fino ad oggi) io dovrò farcela da sola. Dovrò uscirne sana fisicamente e mentalmente, sopravvivere alla noia e ai malumori e cercare di tenermi occupata finché succederà qualcosa. E qualcosa prima o poi dovrà pur succedere. O, detta all’italiana: “Ce la faremo”. Vorrei quasi urlarlo dal balcone, peccato che non abbia un balcone ma solo un afoso giardino pieno di cavallette.

Sta funzionando?

Oggi ho girato un videoclip di me che dondolo sull’amaca.

Ma siamo fiduciosi.

Attendendo quindi un possibile rimpatrio della coinquilina ‘andata a reperire cibo’ da quattro giorni (l’avranno catturata i Khmer Rouge o le avranno teso un’imboscata i ribelli separatisti di Sumatra) comincio ad attivarmi su più fronti.

La scrittura è già un grande passo avanti.

L’unico cruccio è che immagino che a lungo andare in casa da sola diventi un po’ pesante. Già in due lo era.

Ma tra un videoclip imbarazzante e l’altro magari mi metto in testa di uscire a fare spesa o a fare la famosa spedizione ad Imogiri che magari mi tira su il morale.

Un’ora d’aria credo sia d’obbligo, dopo quattro giorni reclusa in solitudine.

Ora, per esempio, il piano è finire di scrivere questa roba, poi studiarmi una o due canzoni kroncong (l’unica cosa che continuo a fare con costanza quasi ogni giorno) e poi svenire davanti a qualche serie TV montando su tutto il baraccone di hotspot, NASA, CERN etc…

Qualche ora dopo

Audio-diario quarantena giorno 3, ora ne sono certa, è giorno 3.

Dall’audio: “giorno due o tre, ma mi sa che è più il tre”.

Tra l’altro mi sono anche appena accorta che è Venerdì Santo, cioè mi sono accorta che siamo quasi a Pasqua. Fondamentalmente, mi sono accorta che siamo ad aprile. Mi sono accorta di un sacco di cose ma è come se non realtà non me ne fossi mai accorta.

È un po’ una sensazione strana. Lo sai ma non lo sai, realizzi di giorno in giorno che sta succedendo, ti prende il momento di panico, poi il momento positivo, poi il momento rabbia, poi il momento “ce la faremo” urlato dal balcone immaginario senza cavallette, e via dicendo.

Che sto facendo in questo momento?

Sono ben le otto di sera ed io sto bollendo cose.

Mi spiego.

Dato che ho finito evidentemente le scorte, il pranzo del giorno è consistito in una sorta di mangime per felini, mentre la cena sarà a base di quattro fagiolini rimasti, quattro patate novelle e due rape rosse. Non so perché ho bollito le rape rosse. Cioè non so perché ho comprato le rape rosse. Mi era venuto un attacco Survivor alla Destiny’s Child al reparto ortofrutta, evidentemente.

Avevo comprato tre sacchi di patate novelle. Cosa devo farci con tre pacchi di patate novelle, in Indonesia, con un fornello a gas da campo base?

Dopo questo menu da prigione siberiana credo sia obiettivamente giunta l’ora che schiodi il sedere dall’amaca e vada al supermercato.

Che cos’altro ho fatto oggi?

In realtà poco. Oggi è uno dei giorni inutili nel domino della quarantena, tra un giorno produttivo controvoglia e uno super-entusiasta a fortuna.

Sarà che è il quarto giorno da sola e quasi mi sono autoconvinta che la coinquilina non tornerà.

Ho continuato a leggere il libro sulla Cambogia, che si fa sempre più interessante e tragico (un booster per l’umore).

Ho smanazzato la chitarra ma non ho fatto il tutorial del giorno, già mi è passata la voglia. Cioè, se non mi sono imparata la chitarra da quando facevo i boy scout a oggi ci sarà un motivo. Ora non è che siccome la quarantena, la coinquilina, la “shit together”, il bagno, l’amaca, la pioggia… allora ne esco Hendrix.

Quindi niente, continuo a scrivere questo abbastanza inutile diario di quarantena o karantina, come la chiamano qua, trascrivendo note vocali che registro quando il mio umore oscilla tra il “forse vado a litigare con qualcuno su Facebook” e il “ce la faremo!” (e fuori il balcone imaginario e le bandiere dell’Italia che sventolano e sciami di insetti che volano).

Poi che altro ho fatto?

Per lo più ho letto e scritto. Oggi è stata una giornata piuttosto meditativa.

Ormai guardo raramente statistiche e notizie sul Covid19, a differenza dei primi giorni in cui ne ero letteralmente ossessionata, manco lavorassi a una redazione ANSA.

Ho passato un sacco di tempo sull’amaca. Cioè, ‘stamattina’ (sempre inteso dalle due in poi) ha cominciato a piovere come ci ho messo il sedere sopra. Quindi ho ripiegato la motivazione a finire almeno tre capitoli e sono rientrata in casa con la coda tra le gambe a tentare di leggere facendo il tetris sul divano di bambù in preda ai crampi.

Poi dopo due capitoli di crampi è riuscito il sole, ma a quel punto faceva troppo caldo per rimettersi sull’amaca (che comunque era ancora fradicia dal fatto che aveva piovuto prima quindi… vabè).

Alla fine comunque l’amaca s’è asciugata, la pioggia non è tornata, quindi ho passato almeno una o due orette a dondolarmi mentre il vicino lavava la sua macchina e mi guardava in modo strano. Le ipotesi che ho fatto sono le seguenti: a) sono straniera quindi sono io la pandemia b) ero in reggiseno a shorts in quasi tempo di Ramadan il che è quasi peggio della pandemia c) ho un’amaca, d) avevo un libro (gli indonesiani non leggono).

Anche io mi sa che lo guardavo in modo strano, perché pensavo che finalmente ho visto i vicini. È da dicembre che mi sono sistemata qua e mai l’ombra di un vicino.

Che altro ho fatto di interessante?

A parte bollire cose.

Non ho veramente lavato i piatti. Ma li ho sistemati tutti in una bacinella fuxia che teniamo sul retro e in cui laviamo panni, piatti, tutto… forse tra un po’ cominceremo a lavare anche noi stesse (che è comunque meglio del bagno reale). E quindi li ho ammucchiati tutti in questa bacinella a mollo in acqua e sapone per piatti, il che indica la chiara intenzione di volerli lavare, secondo il galateo giavanese della casa, da sempre.

Forse domani li laverò, ma finché solo sola non ne vedo sinceramente il bisogno.

Quindi ora vorrei mettermi a lavorare a qualcosa di utile tipo… tipo… che volevo fare?

In realtà ho una lista di cose da fare. Ho dei fogli attaccati al muro tipo una sorta di calendario.

Prima avevo fogli-calendario fai-da-te con su scritti tutti gli impegni giornalieri (kraton, scuola per sindhen, kroncong, muay thai etc.). Un sacco di belle cose che sono andate a farsi benedire e quindi mi scocciava un sacco vederle ancora scritte. Quindi ce ne ho messo un altro con i giorni vuoti con su scritto qualcosa di incoraggiante tipo “Buona Quarantena” (“ce la faremo!” ola sui balconi) e ci scrivo ogni giorno le stesse cose che poi puntualmente non faccio e le riscrivo uguali il giorno dopo. Che è comunque un modo per passare i giorni. Sempre che un bel giorno non mi svegli e ci faccia caso e dica: “Ma che ho fatto ieri e l’altro ieri e ieri l’altro e l’altro ieri ancora?”. E poi risponda: “Avrei voluto fare questo ma…” e via con le scuse sul clima e sugli orari sballati di sonno.

Però forse alla fine qualcosina tra una buttata selvaggia sull’amaca un’intenzione di lavare i piatti la fai e quella cosa ti svolta la giornata. Ad esempio ieri (l’altro ieri? Ieri l’altro? Il giorno prima il giorno ieri?) ho fatto Yoga, così oggi ho la scusa per non farlo perché ho ancora braccia e gambe indolenzite come se mi avessero appeso a dei fili e fatto ballare la river dance.

Avevo ancora tutte le altre cose da fare scritte su un foglio e sarebbe davvero una gran cosa se riuscissi a farle, con o senza quarantena.

Che poi questo sarebbe stato il mio anno sabbatico post-dottorato ed ero venuta in Indonesia per finire le mie ricerche, lavorare alle mie pubblicazioni e mandare avanti i progetti artistici ma… no, quello era l’altro foglio-calendario.

Torniamo sempre allo stesso punto, che quando a casa ci ‘devi’ stare e le cose ‘non le devi fare’ diventa tutto più difficile. Diverso è se hai scadenze inderogabili e puoi uscire tranquillamente a fare quello che ti pare riducendoti all’ultimo secondo. Quella è vita. Sprecare tempo per poi lamentarsi di non avere tempo. E ora che il tempo ce l’hai?

Amaca…

È sempre il problema del “keep your shit”, è sempre un problema di natura mentale, perché poi il vero problema (se levi il fatto che lì fuori c’è una pandemia e mezzo mondo è confinato in lockdown) non c’è.

Non voglio improvvisarmi psicologo più di quanto lo stia già facendo. Più di quanto chiunque lì fuori da qualche parte della pandemia lo stia già facendo. Perché alla fine stiamo tutti nella stessa barca, più mentalmente vicini di quanto lo siamo fisicamente.

Qualcuno più fortunato, qualcuno meno. Quindi conviene continuare a godersi l’amaca.

Ora continuerò a bollire le mie cose (ma quanto ci stanno mettendo?) e a scrivere il mio diario e a “keep my shit together” fin quando non verranno le undici di sera e io andrò a letto e domani mattina mi sveglierò scoprendo il mio umore al momento e comunque andrò a fare spesa e darò una svolta alla giornata.

Qualche ora dopo

Udite udite! Uno dei vicini sta suonando la chitarra.

Ho appena scoperto che Netflix non funziona sul computer in Indonesia, serve un VPN. Non so se esserne sollevata o solo più perplessa.

No, non arriva nemmeno Amazon.

E si, sono le undici meno un quarto. Quindi non andrò a dormire alle undici.