«I always ask leave, in the interests of science, to measure the crania of those going out there,’ he said. ‘And when they come back, too?’ I asked. ‘Oh, I never see them,’ he remarked; ‘and, moreover, the changes take place inside, you know».
(Joseph Conrad, Heart of Darkness)
Yogyakarta, 9 aprile 2020
Giorno 1
Quarantena giorno 1, 0… 2? Zero era ieri. Oggi è uno o due? Non lo so.
Questo diario lo scrivo (lo parlo? ) mentre sono intenta a guardare una serie TV che mi ha inviato una mia amica su OneDrive, usando l’hotspot del cellulare che… vabè.
Non ho comunque Netflix.
Oggi la giornata è andata un po’ meglio perché la cosa della ‘shit together’ ieri ha un po’ funzionato.
Quindi ‘stamattina’ mi sono alzata comunque alle due di pomeriggio.
Oggi che cosa ho fatto? Credo di aver pulito la cucina in un attacco di produttività compulsiva, ho pulito anche parte di casa e ho persino lavato i tappetini della cucina. Li ho lavati nel giardino sul retro, con contorno di insettini e blatte che zampettavano intorno. Non ho mai lavato tappetini a mano, è una cosa orribile. Cioè veramente non ho mai lavato a mano. Cioè, veramente non ho mai…
Sono una che porta in lavanderia anche le mutande. Questa quarantena mi sta uccidendo.
Dovrei continuare a guardare la serie che la mia amica mi ha inviato per non sprecare troppi dati tramite hotspot, ma in questo momento mi sono sentita ispirata, vai a capire perché.
Che cosa ho fatto dopo i tappetini?
Dato che ormai, tra una cosa e l’altra, s’erano fatte già le quattro, ho deciso di fare Yoga.
Quindi, tempo di trovare veramente la voglia di fare Yoga, riesumare il tappetino dal fondo oggetti smarriti dell’armadietto, piazzarlo sull’uscio di casa in posizione strategica verso il sole calante da vera influencer – giardino, sole in posizione, cambia angolazione, stendi, sposta, apri, saluto al sole, insomma ho perso altri trenta minuti – alla fine mi sono decisa. Ho settato l’applicazione Downdog su livello beginner supremo e mi sono fatta un’ora di Yoga intensivo fino a stramazzare sul tappetino.
Alla fine ero un bagno di sudore, gambe e braccia indolenzite, boccheggiavo nell’afa pomeridiana senza neanche la forza di risalutare il sole, spero non se la sia presa a male. Sarebbe un peccato dopo un’ora di torsioni.
Poi, tempo di fare le selfie necessarie per dimostrare che io Yoga comunque lo avevo fatto (perché se non compare sui social è come se non fosse mai successo), ne ho approfittato per farmi una bella Spa nel mio bagno con catino (cavolo se mi manca la vasca da bagno, cioè, cavolo se mi manca un bagno). Quindi via a secchiate d’acqua addosso col mio pentolino rosa sul quale la scritta guava troneggia beffarda sotto un disegnino di un frutto.
Breve flashback: la storia del pentolino
Una sera, dopo esser stato cacciato di casa perché non aveva nessuna intenzione di rispettare la quarantena, il ragazzo della mia coinquilina si presenta al cancello con la coda tra le gambe. A capo chino, chiede scusa a me, a lei e chiede di poter tornare a vivere con noi, rispettando tutte le norme igieniche richieste. A tal proposito, la mia coinquilina nonché ragazza gli porge del sapone e un catino per lavarsi le mani prima di entrare in casa.
Lui, per tutta risposta, comincia a lavare la moto, col catino, il sapone e il mio personale pentolino da doccia prelevato dal bagno indisturbatamente.
Segue drama di quart’ordine da telenovela sudamericana.
Morale della favola: ci guadagno un pentolino nuovo e un coinquilino riottoso in meno.
Insomma, dopo aver spalmato pacchi di maschera per capelli, ho preso la maschera per il viso al carbone, quella nera appiccicosissima che alla fine si posa su tutto tranne che sul viso e per disfartene devi rimbiancare casa. E via in accappatoio sull’amaca conciata come uno spirito malvagio ad iniziare un nuovo libro, una cosa leggera per passare la quarantena in serenità: First they killed my father, una ragazza racconta del genocidio cambogiano.
In realtà è un bel libro, ma mi chiedo perché non riesca a scegliermi un libro o una serie TV che non parli di genocidi, reclusioni, violenze, torture, catastrofi…
Se non altro l’ho smessa con le cose a tema Indonesia, anche perché ci sono letteralmente intrappolata.
In realtà ho scelto questa lettura anche grazie a uno di quei colpi di genio tipo: “Potrei trovare molte citazioni interessanti da inserire nel capitolo del mio blog sulla Cambogia, aggiornando il diario di viaggio che…”.
Nota bene: non tocco il blog da novembre.
È una di quelle cose che hai tirato alle lunghe per mesi e non è proprio probabile che tu riprenda proprio adesso ma è bello pensarlo.
Quindi al calar del sole ho continuato il trattamento Spa stendendomi sul mio comodo materasso su stuoia in bambù (sempre il letto) tentando di non imbrattare tutto con la colla nera in faccia che si attacca peggio del Covid-19 a qualsiasi superficie io sfiori anche solo col pensiero. Poi ho acceso la candela aromatica e ho continuato la lettura.
E poi via altre secchiate d’acqua (nel frattempo fredda, perché si è fatto buio) a lavare via le macchie nere da ogni cosa. Credo che alcune ormai facciano definitivamente parte del pavimento del bagno. I prossimi coinquilini dovranno chiamare un medium per disfarsene.
Poi ho pensato bene di accendere il phon per asciugarmi i capel… blackout. Vabè.
Sono uscita brancolando nel buio a riavviare il contatore, sono andata in cucina a staccare il bollitore del riso e ho riacceso il phon… blackout.
Mi ero scordata anche le lucine in soggiorno.
Insomma dopo circa tre riavvii di corrente sono riuscita ad asciugarmi i capelli in modo più o meno decente.
Quindi ho spento il phon, ho riacceso le luci in soggiorno, ho riavviato il cuoci riso, ho cominciato a cuocere il riso rosso (il che significa minimo quaranta minuti di estenuante attesa coi crampi della fame) e ho cominciato a saltare il pollo semi-marcito (ultimo esemplare di proteina commestibile rimasta in frigo) con delle verdure, sempre improvvisando tutto secondo l’infallibile filosofia orientale “tu metti spezie che te frega”.
Dopo il lauto pasto a base di verdure speziatissime e riso non cotto (a un certo punto ho aperto il bollitore e ho cominciato a versare riso poco cotto ustionante nel piatto per disperazione) mi sono messa ad armeggiare con questa storia dell’hotspot e di OneDrive per concedermi un po’ di nullafacenza davanti ad una serie TV. Ma poi mi è venuto in mente di registrare l’audio-diario e quindi… eccoci qua.
Qualche ora dopo
Audio-diario quarantena giorno 1, seconda parte.
Ore cinque e quattordici del mattino (sempre per il discorso del “keep my shit together”, la regolarità degli orari e… vabè).
Riflettevo, tra una cosa e l’altra nel tentativo di prendere sonno, che alla fine sono orgogliosa di come ho sistemato questa casa. Cioè, pensavo, “è casa mia”. Dopo anni che ho vissuto a casa a Roma coi genitori, con mia madre, a Londra in una scatola di pochi metri quadri con due coinquilini rinchiusa nella mia stanza vista metro di Leytonstone e in Indonesia in altre case con altri coinquilini, questa è la prima volta che sono in una casa davvero mia. È fatta a mia immagine e somiglianza.
Non è una casa occidentale ma è piacevole ed accogliente. C’è il necessario per vivere anche se con molte rinunce. Mi piace l’esposizione alla luce, è perfetta, e circola sempre aria. Il vicinato è tranquillo e silenzioso, pochi rumori, il cinguettio degli uccelli la mattina, il richiamo della moschea che scandisce le ore… è una casetta rurale ma ben congegnata per una mentalità artistica e solitaria.
Ho il mio giardino, il mio vialetto, la mia amaca, le mie chitarre e i miei libri, i miei quadernini con appunti di canzoni, i quadri batik e le foto antiche del palazzo reale, l’altare a Barong e Saraswati, incensi e candele aromatiche, lo stand coi miei kebaya colorati, il mio divano in bambù, le luci soffuse, la cucina piccola e poco accessoriata ma ben decorata, la mia stanzetta a forma di me, la stanza della mia coinquilina a forma di coinquilina e il bagno a forma di… vabè.
Poi riflettevo anche sul fatto di come oggi un po’ la mia “shit together” l’abbia tenuta, dato che comunque ho fatto un sacco di cose. Ho persino riparato la porta del bagno con un elastico.
Cristo il bagno.
Riesco comunque a tenere pulito e ordinato, a riparare cose essenziali. Lampadine e chiodi non sono più un problema, gas, acqua, luce, tutto. Provvedo a tutto. Riesco a fare le mie cose in un modo o nell’altro. Riesco a studiare le mie canzoni, a tenere aggiornato il mio diario, a leggere, sentire musica… solo una cosa non riesco ancora a fare: andare a dormire ad un orario decente.
Però, ho pensato, visto che ogni giorno vado a dormire ad un’ora più tarda, forse nel giro di una settimana riprenderò l’orario normale. Arriverà quell’ ‘awkward moment’ in cui sostituirò totalmente il giorno con la notte, come un’eclissi, e poi tutto ruoterà di nuovo e si rimetterà in asse.
O forse continuerò ad andare a dormire alle cinque.
Sarei quasi tentata di mettere la sveglia tra tre ore e sforzarmi ma so che sarà inutile. Il mio cervello sa che non ho nulla di importante da fare, non percepirà neanche l’allarme e continuerò a dormirci sopra beatamente, con tutto il caldo e l’afa che cominceranno ad entrare dalla finestra dopo le dieci. E mi risveglierò così, in un bagno di sudore, a metà giornata, con poche ore di sole a disposizione, e mi traslerò dal letto alla cucina e poi al soggiorno e poi all’amaca e poi al PC e tutto sarà uguale a ieri. O forse solo leggermente diverso. Chissà per quanto, ancora.
Ancora dopo
Per l’appunto, sono le sei. Non so più cosa vedere, cosa leggere, a chi rispondere, con chi cercare lite. Meglio continuare il diario.
Ah, comunque oggi il topo non s’è visto. Boh, sarà che ieri ne ho parlato male e si sarà offeso. O forse il veleno ha finalmente funzionato, dopo appena tre settimane di sassolini fuxia sparsi per casa.
Neanche le cavallette si sono fatte vive. Oggi ho visto solo una blatta solitaria che arrancava su per il muro del giardino posteriore mentre lavavo i panni. L’ho violentemente spruzzata di Baygon tipo intervento speciale dell’FBI. Se n’è andata agonizzando, spero dai vicini.
Quindi oggi niente animali. Quasi mi mancano. Quelle mantidi che spuntano a tradimento nel bagno o qualche mostro volante che si spiattella sul muro della cucina e tu non sai come rimuoverlo perché “corre, salta, vola che cavallo che ha…” (chi non vedeva La Principessa Zaffiro non può capire).
Comunque, in tutto questo tempo di insonnia non sono stata improduttiva. Mi sono data alla musica. Ho pubblicato su YouTube l’ultima cover fatta con Nisa, Ayam den Lapeh (la sera prima della sua dipartita, credo di aver vinto il Grande Fratello) e mi sono rimessa a guardare tutti i video di cover di lagu daerah (‘folksong’ provenienti da ogni parte dell’arcipelago indonesiano).
Quindi è finita a cantare alle quattro di notte a squarciagola. Santi vicini, non si meritano le mie blatte agonizzanti.
Come un po’ la settimana scorsa, quando Nisa si è messa in testa di ritirare fuori il clarinetto che non suonava da anni (sempre per il discorso del fare cose che: “Ma se non le faccio da una vita perché dovrei ritirarle fuori proprio adesso?”). Un altro omaggio al vicinato.
In tutto ciò, il cielo ha cominciato a schiarirsi. Percepisco una luce fioca che filtra dalle tende rosse. Forse è ora di andare a dormire.