Karantina

Capitolo 1 – Giorno 0

«Nessun uomo dovrebbe vivere senza aver sperimentato ameno una volta la sana anche se noiosa solitudine di una dimora tra i boschi, scoprire di dover dipendere solo da sé stessi, e per questo tirar fuori la vera forza interiore».

(Jack Kerouac, Viaggiatore Solitario)

Giorno 0

Audio-diario uno. Giorno zero.

Inizio questo diario mentre sono intenta ad indossare i miei vestiti migliori per andare a fare una corsetta nel vicinato. Premetto: vivo in un complesso residenziale con giardino e vialetti, non uscirò in strada, non supererò la guardiola, anche se potrei. Qui non vige ancora nessun ordine di lockdown, nonostante siamo a quasi 3000 casi in crescita continua. Ma questa è un’altra storia, o forse è la stessa, ma la parte troppo ufficiale di cui non frega mai a nessuno finché non è troppo tardi.

Andare a correre nel vialetto. È la prima volta che lo faccio. L’ho programmato da settimane, non ho mai avuto la forza sufficiente finora. O probabilmente non ho mai avuto sufficiente debolezza.

Ho iniziato questo audio due volte, forse lo riinizierò una terza, quarta, quinta… è più facile scrivere che parlare. Perlomeno parlare da sola come una deficiente perché sì, sono da sola.

Sto camminando avanti e indietro dalla cucina al bagno, circa due o tre metri con una pastiglia di Vitamina D in gola e un bicchiere effervescente di supplementi di ferro e magnesio in mano. Preferirei avere una pastiglia di un qualche stabilizzatore d’umore in bocca e un bicchiere di vino in mano, ma sono entrambi vietati in questo paese. Per le droghe c’è proprio la pena di morte. Per dire. Ah, e tra poco comincia il Ramadan. Sempre per dire.

Oggi, dopo circa un mese di quarantena – di cui: due settimane a litigare coi coinquilini per farli rimanere a casa con conseguente dipartita di uno dei due (il concorrente ha abbandonato la casa); una di: “Mi sa che abbiamo scordato di comprare quella scemenza lì di cui possiamo fare a meno, perché non prendiamo il motorino e andiamo dall’altra parte della città?” e una effettiva da sola, dopo che anche il secondo ha preso il volo – mi rendo conto di cosa sia una quarantena. Anche se, si, siamo in un paese tropicale, abbiamo il sole (quando non scatena il monsone), l’amaca (quando non scatena il monsone), il giardino (quando… insomma un clima orrendo). Cosa non abbiamo?

Non abbiamo Netflix, Amazon Prime, Disney + ed Infinity. Perché, in realtà, a casa non abbiamo neanche il WiFi. Ma non è poi un problema, visto che non abbiamo la TV. Ma neanche questo è un problema, dato che ci sono problemi più grossi, tipo che non abbiamo una doccia con l’acqua calda (catino pieno di acqua con terriccio e pentolino sono i nostri appuntamenti quotidiani) o che non abbiamo una vera cucina (un frigo rotto, bombole di gas e fornelli sderenati dalla ruggine) o acqua potabile (galloni e bolliture d’emergenza), per dire.

Poi potremmo parlare del soffitto che gocciola (sempre i monsoni maledetti) o del topo in cucina, delle blatte nel giardino sul retro e le cavallette nel giardino anteriore. Ma questi non sono problemi, perché ci conviviamo da sei anni, cioè la mia coinquilina indonesiana da una vita. Non credo sappia neanche cosa significhi vivere senza.

Per noi niente #Netflix&Chill o chilometriche videochiamate-aperitivo (i gigabyte costano e col cellulare ci facciamo anche l’hotspot al computer per lavorare, o almeno provarci).

Per noi niente lunghi bagni rilassanti e sonore russate davanti alla TV. Ma non è un problema, è la vita che abbiamo scelto. Cioè, che ho scelto io, la mia coinquilina ci si è ritrovata. Abbiamo due chitarre, un microfono e un Evo4 che fanno un mini studio di registrazione casalingo, progetti musicali da rappezzare senza musicisti e troupe, video da editare, brani da studiare per i prossimi concerti che magari un giorno rifaremo.

Abbiamo lingue da imparare, blog e articoli accademici da scrivere, tesi di laurea da tradurre, inutili applicazioni di Yoga e ‘workout’ che: “Ma chi li fa?”. Obiettivamente.

Abbiamo creatività e un sacco di lievito che: “Ma chi ce l’ha il forno in Indonesia, perché lo vendono, a che serve?”. Conserviamo ingredienti pochi e inutili che vanno a male presto per tutorial surreali che: “Ma chi ha mai imparato a cucinare?”.

Abbiamo libri, serie TV (copie pirata dono degli Internet Cafè abusivi). E poi, vabè, l’amaca con le cavallette, i monsoni sì…

E allora qual è il problema? Non c’è. Il problema è nelle nostre teste, come in quelle di chiunque, in questo momento.

È quello che tu ci provi, a rimanere attivo e produttivo ma la verità è che la produttività è un pendolo che oscilla tra materasso (con stuoia all’asiatica sottostante, no telaio, no doghe, no rete) e cellulare. Tra fake news e liti sui social con sconosciuti che si beccano tutta la tua frustrazione repressa.

È che ti dici che ne uscirai migliore, con cinque lingue sul curriculum, la tesi pronta da pubblicare (anche versione Indi e Urdu), tutte le tracce dell’album registrate, il copione teatrale e le musiche dello spettacolo terminati (nota bene: è aprile, lo dici da gennaio quando ancora: “Corona che?”), i diari di viaggio pronti sul blog dall’interrail del 1999 e un fisico da paura. Ma la verità è che ne uscirai solo un po’ più annoiato e incazzato, con un sacco di cose pubblicate sulle cose che farai ma poi alla fine: “Ma chi le fa?”. Seriamente.

Cerchi qualcosa che ti farà dire: “Vabè, alla fine non è stata poi così tanto tremendo”. Invece sì, è proprio tremendo. Specialmente quando sei da solo. Da solo in un paese straniero, per quanto: “Ahò, ce sei voluta annà te in Indonesia” o per quanto: “Ahò stai lì da sei anni ancora rompi” o per quanto: “Perché non sei tornata quando c’erano gli aerei?”. Perché quando ancora c’erano gli aerei ci avevano leggermente edulcorato i dati reali. Per esempio. Ma questa è sempre quella storia ufficiale di cui non frega niente a nessuno.

Si, per quanto consideri l’Indonesia la mia seconda casa, per quanto abbia la mia coinquilina/collega/amica con me, per quanto: “Te stai a lamentà quando ce stanno situazioni peggiori”, per quanto… per quanto? Non è la smania di tornare in Italia, è la smania di tornare alla vita. Lì fuori, perché dalla vita dentro non scappi. Per quanto…

Per quanto sia in una casa che poi non è la mia. Sono in affitto a nome della coinquilina dispersa nel nulla perché noi stranieri qui non abbiamo diritti. Per quanto sia in una casa che è più un campeggio in una graziosa casa di bambole asiatica che una casa. Per quanto? Fino a quando non ci saranno i voli di rimpatrio.

E poi si, sarei egoista, come mi è stato detto diverse volte. Perché se scegli di fare ricerca in un paese straniero e resisti a monsoni, eruzioni vulcaniche, tsunami, dengue, tifo etc. ma poi viene una pandemia dal nulla allora: “Beh te la sei cercata, ora fa comodo l’Italia”. Si, fa comodo avere il mio sistema sanitario e non pochi posti in cliniche male attrezzate, a pagamento, con scarsa preparazione. “Fa comodo” sapere che, qualsiasi cosa succeda, tu sei nel paese riportato dal tuo passaporto e non una straniera che – non conta quanti permessi di soggiorno e conoscenza delle lingue locali tu abbia – è pur sempre una bianca che viene da biancolandia, potenziale fonte di orrori e pestilenze (ora il mondo si è leggermente invertito).

Ma questo non è il problema.

E allora qual è il problema? Che sei solo con te stesso.

Come va? Ti ci trovi bene?

Bene. Ma non benissimo.

(Qualcosa di familiare?)

E allora qual è il problema? È che hai capito che la quarantena è reale, che c’è un problema, che non sei e non sarai a casa per quanto tu ti ci possa sforzare. Non ci sarai non per l’acqua calda o per il passaporto. Per quelli non sono problemi (Finché non lo diventano effettivamente). Non ci sarai perché TU sei casa. E tu, evidentemente, con te stesso ci stai un po’ stretto.

Imparare a stare con sé stessi? Forse è meglio dei mille tutorial di video-making acrobatico, banjo a nove corde (che poi: “Ma chi ce l’ha? esiste?”) e giardinaggio coi bicchieri. Per dire. Ma è più difficile (anche se il banjo…).

Per quanto ti possa inventare canzoni, diari, lavori per casa, ricette, salto sull’amaca e diventare il perfetto studioso, musicista, linguista, creativo, fabbro-ferraio, quello che vuoi… non sarà mai abbastanza. Finché non vieni a patti con te stesso. Come una coppia in crisi. Non serve andare a fare pattinaggio sul ghiaccio in smoking e vestito da sera, si può stare a casa in pigiama con un libro, se si sta bene. Se il rapporto funziona. E il rapporto funziona… con te stesso?

E allora, vediamo di farlo funzionare. E iniziamo dai pic-nic in balcone e i ritratti impressionistici alle sedie e poi magari finiamo una sera con una tazza di tè a goderci la nostra compagnia. Di noi stessi.

Oggi era una di quelle giornate in cui io e me abbiamo discusso.

E che fai in questi casi? Metti i tuoi abiti migliori e dai fondo all’incazzatura, alla tristezza, alla rabbia… tutto il pacchetto completo. E dai fondo, scavi, scavi, scavi, esaurisci, tocchi il fondo, e cinque e sei e sette e otto e su. Di nuovo in corsa, un passo avanti verso l’auto-accettazione.

A me è bastata un’ora di corsetta nel vialetto del mio complesso abitativo per – come mi piace il termine inglese – ‘keep your shit together’. Per tornare un attimo lucida e dirmi: “Però, Ilà, stai ai tropici, c’hai la chitarra, l’amaca, i monsoni, le cavallette e scuse per cucinare male”.

Quindi torni in casa, ti getti secchiate d’acqua fredda addosso (la doccia), ti fai una delle poche cose che sai fare sull’unico fornello che è rimasto operativo, bolli (qualcuno l’ha mai capito il verbo giusto?) un po’ d’acqua – visto mai ti venisse sete di notte – dai una botta al tavolino della cucina per controllare che il topo sia rincasato (dovrei chiedergli le autocertificazioni) e continui da dove avevi lasciato.

E magari registri un audio-diario super emozionale parlando da sola come una scema in cucina col topo che ‘abbandona la casa del Grande Fratello’ perché alla fine ha capito che è meglio stare solo con sé stesso che stare a sentire te, poi lo trascrivi e così costringi tutti a leggere i tuoi inutili problemi-non problemi.

Però magari qualcuno si convince e se un po’ tutti impariamo a ‘keep your shit together’ (mi immagino come lo direbbero in una di quelle bellissime serie che… non ho Netflix, ma di che parliamo?). Così magari tutti ce ne stiamo buoni a casa e non andiamo a fare danni in giro. Tranne me che ovviamente ho un magnifico giardinetto con viale (seriamente, non ho Netflix).

Quindi niente, non so quando tornerò a quel concetto di ‘casa’ che ho lì in occidente e non so quante lingue imparerò e se il topo se ne andrà con la stagione secca e… se mai arriverà sta maledetta stagione secca (ma perché ho comprato un’amaca?). Però nel frattempo continuo a ripetere di ‘keep your shit together’ e forzarmi a fare il salto di qualità dai corsi di taglio e cucito con le penne a sfera a una stabilità emotiva vera, senza bisogno di imparare l’Urdu e spammarlo sui social per testimoniare che “andrà tutto bene” o che io davvero la mia ‘shit together’ la tengo, tra una scazzata con uno sconosciuto su moriremotutti.com e una ser… no, niente, non ho Netflix.

E questo era il discorso preliminare, pesantissimo, per tentare di porre le premesse e fare entrare il lettore negli stati d’animo (perché magari fosse solo uno) con cui affronto questa nuova avventura, stavolta tutta in interno. Da domani comincio ad annotare i fatti rilevanti, tipo le abitudini del topo.

La questione principale del giorno rimane comunque cosa fare con tutto questo lievito.

Ma si è capito che non ho Netflix?