UN ALBERO CRESCE A SANTO STEFANO

«Torno sempre anch’io e sempre più mi domando se, dopo tanta strada fatta altrove, in mezzo a tante genti diverse, sempre in cerca d’altro, in cerca d’esotico, in cerca d’un senso all’insensata cosa che è la vita, questa valle non sia dopotutto il posto più esotico e più sensato».

(Tiziano Terzani, In Asia)

Il fusto color marroncino, acquoso e tenue, bordato di immaginarie ombreggiature gialle e nere a seconda della direzione dei raggi solari, sfuma in ramoscelli esili bordati di foglie dalla vaga forma di felci che si arrampicano per metà della lunghezza della casa a tre piani. Il tutto si interrompe all’incirca all’altezza del balconcino che affaccia dalla rampa di scale. L’albero è incompleto, poiché è fatto di tempere colorate. Io e mio padre, con santa pazienza e sotto la supervisione attenta dei paesani, lo portiamo avanti un pezzetto al giorno.

Ogni mattina da un mese a questa parte mi sveglio nell’appartamento all’ultimo piano di questa casa a quattro piani sulla cima di una montagna, in un paese chiamato Santo Stefano di Sante Marie, frazione di Sante Marie, in provincia dell’Aquila. Già solo a spiegarlo è tutto un programma. È una frazione di frazione di mondo che consiste in poche case, due chiese (una piccola solo per occasioni speciali), un agriturismo schiaffato in cima al colle e una serie di terreni, boschi, fontanili e tornanti.

Il paesaggio mattutino è divenuta una delle mie certezze nella vita.  La routine di aprire la portafinestra, appena scesa dal letto, uscire sul balconcino che corre tutto intorno alla casa e immobilizzarmi nell’aria fresca coi monti ai miei piedi e la stradina che sale in salita all’accesso del paese, fermando le sinapsi e svuotando i sensi, è ormai un mio rituale personale. Lo concludo accendendo un incenso sul mio altarino indo-animista che ho posizionato sul camino e dirigendomi verso il bagno, dove svolgo le mie funzioni mattutine con una serie di monti nebbiosi che mi dà il buongiorno dalla finestrella.

Dopo la colazione esco di solito a fare jogging o delle lunghe passeggiate per i sentieri di montagna o le strade che collegano i vari paesi qua attorno, notando, annotando e godendomi tutte le meraviglie dell’Abruzzo provinciale e gli infiniti dettagli in cui è insita la bellezza dei paesi. Così, tra osservazione partecipante dell’antropologo e eagle eye del viaggiatore, mi tengo a mente tutte le sacrosante abitudini e piccolezze che fanno la differenza in ogni mio santo giorno lontano dai miei allegri tropici e dal nervoso marasma cittadino romano.

La mia veduta mattutina

LE SACROSANTE ABITUDINI DEI PAESI

Ci sono alcuni elementi ricorrenti nella mia routine montanara. Sono tutti elementi che amo e che mi danno sicurezza, che non mi stanco mai di guardare, di passarci e ripassarci.

La panchina della piazzetta principale di Gallo, un crocicchio con quattro case che si affacciano l’una sull’altra come se fossero un unico condominio, e la croce sempre fiorita con quel Gesù Cristo appeso che veglia sulla ‘movida’, cioè i cinque o sei anziani (sorprendentemente mai gli stessi) seduti lì sotto a lasciarsi scorrere la vita addosso, come dovremmo fare tutti ma non abbiamo l’età, l’esperienza e la rassegnazione necessaria.

Se la mattina ti metti in testa di fare jogging da Santo Stefano a Gallo e ritorno, ti fai comunque un totale di 12 chilometri tra saliscendi e l’unica figura che ti trovi ad incrociare – a parte qualche vecchina centenaria piazzata su qualche seggiola a bordo strada o su un balconcino, che è comunque quasi più arredo urbanistico che presenza umana – è un gatto nero piazzato all’ombra su un tombino, che ha lo stesso atteggiamento dei tipi sulla panchina. I gatti dei paesi sanno tutto della vita ed è per questo che appaiono sempre così terribilmente annoiati.

Quando approdi a Scanzano dopo un’immane salita, sulla via del ritorno, il paesaggio non è poi molto diverso. Ti riposi un po’ al fontanile (l’ennesimo) e te ne vai asciugandoti gocce di acqua e sudore mentre un omino trascina una carriola giù per il corso di Sant’Anastasio, i suoi passi che rimbombano nel silenzio cosmico. Tu rimetti le cuffie e via, torni nel mondo reale ancora una volta e prosegui di corsa fino alla prossima finestrella spazio-temporale.

La pizza del forno di Tagliacozzo e il pane di Poggio Filippo. In città perdi l’abitudine di andare ai forni, ai macellai, i pastifici, i caseifici, e tutta un’altra serie di ‘-fici’ che si dissolvono tra la prepotenza plastificata dei centri commerciali. Da piccola ci andavo spesso a fare le commissioni in giro per i ‘-fici’, cioè non ci andavo io, mi ci portava mia nonna per mano, nel quartiere di Pietralata, dove ancora resisteva qualche baluardo del passato delle periferie romane.

Ora neanche più le periferie sono rappresentative di qualche stralcio di memoria popolare, bisogna andare nei paesi, i più alti e sperduti possibili, protetti dall’impervietà delle montagne, finché non ci arrivi qualche via di comunicazione importante, e allora addio e di nuovo plastica e codici a barre e mondo globale. E addio ‘-fici’ e pizza calda appena sfornata che non è mai uguale all’altra di giorno in giorno, di ora in ora.

Anche alla stazione dei Carabinieri di Avezzano c’è un bel repertorio di glorie del mondo passato, a partire dai cimeli messi in bella mostra nella teca all’entrata, che segna la transizione tra il 2020 e gli anni ’60. Ci andiamo per fare la denuncia di smarrimento della patente (che ho lasciato in Indonesia riportandomi indietro quella internazionale, tanto perché non può mai andarmi tutto bene sempre).

Questo è il pretesto, poi il sopralluogo in sé diventa un tour a spasso nel tempo.

Nello stanzino di un gioviale carabiniere baffuto, sotto gli occhi vigili dei rosari e delle madonne appesi alle pareti, assieme ad una foto di una vecchia Giulietta Alfa Romeo e un videocitofono, ci intratteniamo in conversazioni piacevoli tra un timbro e l’altro. Mio padre gli tira fuori la storia di famiglia (da mio nonno a mio zio erano tutti carabinieri, io lo scopro solo ora) e finisce in uno scambio di ricordi, memorie e considerazioni sul passato.

Ad un certo punto mio padre vuole levarsi uno sfizio: “Mi sono sempre chiesto cosa portate in quella fondina appesa al torace, ma non ho mai avuto il coraggio di chiederlo ai miei parenti”. Detto fatto, il carabiniere ci mostra il fodero di pelle nera, lo apre e, tah dah… dentro non c’è niente. Un altro mero simbolo di rappresentanza delle glorie passate. Tra l’ultima firma e l’ultimo timbro quasi mi sembra di aver ritrovato un lontano parente. Ci congediamo chiedendo quanto ci metteranno ad inviarmi la nuova patente, ottenendo un italianissimo: “Beh, sapete, Agosto… a Roma…”. Ho capito che non vedrò la mia patente almeno fino a ottobre, ma va bene così, ne è valsa la pena.

I gerani e i vasi di fiori colorati messi con estrema cura e perizia ad ogni balcone ed ogni finestra in ogni paese. I materiali con cui sono costruite le case, con le stesse pietre delle montagne su cui sorgono le fondamenta, ben visibili tra le pennellate di intonaco colorato. I nomi dei paesi. Un paese si chiama Pace, un altro Colli di Pace. Per il resto c’è sempre qualche ‘monte’, ‘rocca’, ‘poggio’ o ‘castello’ di mezzo e ci sono talmente tanti Stefani e Marie che gli altri santi fai prima a cancellarli dal calendario.

Le scampagnate mattutine, fino a Castelvecchio, con i cordiali buongiorni dei paesani, passanti e, più di rado, degli escursionisti occasionali. Alcuni si caricano zaini e tende a dorso di mulo, come nei libri dei migliori romanzieri passati che hanno visitato queste terre.

Il mulo è ancora un mezzo di trasporto e locomozione validissimo, è più prezioso di un fuoristrada.

La raccolta di more, fichi e albicocche per le marmellate, di funghi, origano, cardi per fare il lievito madre (non l’avrei mai detto in vita mia), delle verdure dell’orto di mio padre, le passate di pomodoro e le pizze e le crostate fatte in casa, potresti sopravvivere soltanto con i frutti della terra, come le antiche civiltà, fregandotene dei prodotti chimici e delle catene di montaggio.

Il pane di Poggio Filippo, che è rinomato come il miglior pane del circondario, cioè di buon parte della Marsica. A Poggio Filippo c’è solo il pane. Cioè, c’è un ristorante che funge da pizzeria e forno, forse anche da farmacia e comune. Come del resto il ‘Pane, Alimentari, Giornali’ di Valle San Sebastiano. Poi a Poggio Filippo, oltre il pane-pizza-municipio c’è anche una splendida veduta. Se ti perdi in una viuzza inerpicata tra una madonnina incoronata di fiori gialli e un dirupo, ti ritrovi il monte Velino in faccia. Alle sue pendici scorgi anche, mesto e indisturbato, il cimitero.

L’aria è fresca, a Poggio Filippo, come a Santo Stefano, siamo più o meno alle stesse altitudini, e la gente è aperta. La fornaia ci dice che per la pizza dobbiamo prenotare in anticipo, tanto è richiesta. Ci accontentiamo di una bella pagnotta calda appena sfornata con tanto di iniziali incise sopra ‘PF’. È l’equivalente di una borsa di Chanel. La panettiera ci saluta con un “Ciao tesò” con schiocco di labbra (e io che mi facevo problemi per aver scordato la mascherina).

La pizza ce l’andiamo a prendere ‘giù’ a Tagliacozzo. Il panettiere canta la macarena.

Gli innumerevoli santuari e nicchie con santini, croci, madonne, rosari e cristi, su ogni cima di ogni monte, in ogni grotta, anfratto, albero e punto nevralgico, con acqua, fiori e ceri sempre freschi, che mi ricordano gli altarini con i Buddha sud-estasiatici, coi loro incensi e le bevande offerte come refrigerio agli spiriti locali. Non siamo poi tanto lontani, cambiano solo i nomi dei santi e l’etichetta religiosa con cui autorappresentiamo la nostra spiritualità.

È una questione di simbolo, di immagine, di pensiero filosofico, ma il messaggio è lo stesso, si chiede il permesso e assieme al perdono ai veri padroni del luogo, le entità che lo abitano da sempre a cui si tenta di dare forma e nome sin dall’antichità, a qualsiasi latitudine. È così che sono nate le religioni, prima della politica e dei bombardamenti mediatici e non. Dovremmo tornare tutti ad accendere ceri e portare fiori nelle nicchie di qualche montagna o arrotolare drappi colorati attorno ad alberi secolari, ognuno col nome che vuole, col credo che vuole, tanto è lo scopo che conta.
È per questo che porto sempre qualche conetto o bastoncino di incenso con me, per onorare le entità, gli spiriti del luogo, come ho imparato a fare in Asia, in tutti questi anni. Ne ho acceso uno anche sulla cima del monte Sevice e del monte Velino.

‘Scendere’ a Tagliacozzo – cioè farsi mezz’ora di tornanti in ogni condizione atmosferica, perché a Santo Stefano c’è solo un bar e una macelleria chiusa da quando mi ricordo – per ogni evenienza pratica, la posta, la farmacia, la pizza rossa del forno, i dolcetti della pasticceria all’angolo che fa solo quelli (un altro illustre ‘-ificio’), i maritozzi giganti con panna del bar accanto ad una delle innumerevoli macellerie, e le interminabile attese davanti al passaggio a livello che sbarra i binari del treno da Carsoli, che sembra uscito da un vecchio film d’animazione della Disney, ti aspetti di vederci Topolino e Paperino con delle enormi valigie sconclusionate che ti salutano da uno dei finestrini cantando: “Si va in gita in montagna trullallà”. Quando senti il fischio, poi, sei già nel Klondike con zio Paperone.

E poi di nuovo risalire per gli stessi tornanti che però ti fa piacere e non è come stare nel traffico della tangenziale o sul Ringroad yogyanese, e di nuovo via Gallo, la panchina della ‘movida’ col Cristo che veglia, Scanzano, Tubione (un paese con 4 case e 5 abitanti di numero stimati da Wikipedia, 10 con la bella stagione) e l’orto e la madonna all’angolo e via di nuovo nel maniero a vegliare sul mondo come il Cristo di Gallo.

Omaggio alle scampagnate
Natura viva

LE PERSONALITA’ DEI PAESI

Una delle cose più attraenti dei paesi, specialmente quelli piccoli e remoti, sono i loro abitanti. Ogni abitante, se anziano ancora meglio, è una piccola guida turistica degli usi e costumi locali, un audiolibro vivente che non serve decifrare, ma solo osservare e ascoltare. Ogni paese ha i suoi santi, i suoi veterani ed i suoi ‘matti’. Il matto del paese è come quello Shakespeariano, è quello che tra tante cose che sembrano sconclusionate ti dice più verità su quel luogo di quante te ne dica un’enciclopedia.

Noi, a Santo Stefano, il ‘matto’ ce lo abbiamo. È un ‘matto’ buono, come si suol dire, innocuo, e pieno di attrattiva.

Io l’ho conosciuto grazie a mio padre, suo buon amico e vicino di orto. Cioè, l’orto di questo signore non è proprio un orto, è un vero e proprio mausoleo, a detta sua, ed ha anche un nome. Si chiama Frascati 2 Hollywood. Se gli chiedi il perché di questo nome, lui impiegherà un buon quarto d’ora a raccontarti tutta la sua storia, intimamente legata alla storia del luogo. Il perché del ‘Frascati 2’ è semplice.

Pare che molti anni fa gli furono affidati dei terreni, che lui fece divenire dei fruttuosi vigneti con “addirittura sei o otto vangatori”. Per l’epoca era tantissimo, pare, tanto da quasi rivaleggiare con Frascati, sua maestà dei vigneti, lì dove tutti si recavano a cercare lavoro come vangatori. Ed ecco qua uno spaccato di storia di tradizioni paesane in pillole. Fino al Frascati 2, dunque, tutto bene. È il perché di ‘Hollywood’ che può lasciare un po’ increduli e interdetti.

La storia va più o meno così. Anni fa qualcuno di molto importante decise di impiantare a questo signore dei congegni di geolocalizzazione, in modo che lui fosse sempre rintracciabile. Chi, come e perché, non è ben chiaro. Basti sapere che questo semplice abitante di un paesino abruzzese è stato uno strumento “dei potenti, quelli che contano” come dice lui e questa cosa lo ha segnato per tutta la vita.

Ora, dal momento che lui è così ‘internazionale’, ne consegue che anche il suo terreno, o mausoleo, in qualche modo, lo sia. Me ne dà la prova mostrandomi delle foto stampate (gelosamente custodite in una cartellina rigida che lui si affretta a prendere dentro casa) che ritraggono lui nel mezzo del suo appezzamento, con un mappamondo in mano. Si, ma quindi, perché Hollywood? Semplice: qual è l’industria più internazionale e conosciuta al mondo? Simbolo di fama e potere? Hollywood. Ragionamento che può sembrare contorto, ma detto da lui fila liscio come l’olio e quasi lascia a bocca aperta.

Ci porta a vedere una vecchia casa di sua proprietà che è una miniera di sapere, un museo a cielo aperto. Io non sto nella pelle solo all’idea. Si tratta di una casa che risale al 1800, ed era stata convertita in un convento negli anni ’60. Ora è di sua proprietà (almeno una parte) ed ha uno scantinato annesso, ex cantina vinicola.

Accediamo da una piccola gradinata e subito ci troviamo nel salone, ma più che altro, in un’altra epoca. Un caminetto stretto in maioliche con una statuina di lupo che vi troneggia sopra ci dà il benvenuto nell’ambiente comune. Il pavimento, in maioliche sconnesse, si ritrova l’incombenza di sorreggere, oltre al camino, un piccolo tavolino semi-apparecchiato, un cucinino, alcuni mobiletti e un fantastico lavandino in marmo che vorrei proporre come patrimonio Unesco.

Dalla cucina-salone-ingresso si dipartono, oltre a una finestrella che dà sul bagno, altre tre camere. Una è la sala da pranzo, che pare uscita da un romanzo neorealista. Un angusto e claustrofobico rettangolo tappezzato di carta da parati gialla a motivi geometrici anni’60 in cui l’unico signore indiscusso è un tavolo, anch’esso rettangolare e semi-apparecchiato, che occupa la maggior parte della superficie camminabile. Nella parete più lontana è incastrato un mobile credenza in legno scuro, per lo più vuoto, tranne un mini televisorino a tubo catodico buttato lì tanto per creare un punto di fuga nel nulla cosmico. Gli elementi più memorabili, senza nulla togliere al piatto in ceramica dipinta attaccato sulla parete tanto per dire che c’è stato un tentativo di decoro, sono senz’altro il lucernaio all’angolo, unica fonte di luce della stanza, e la mini poltroncina in tessuto a fiori strizzata letteralmente dietro la porta, quasi in castigo.

La seconda stanza, evidentemente camera da letto in precedenza, a giudicare dal lettino di dimensioni casa di bambola ormai ricoperto di cianfrusaglia, è ormai quasi adibita a sgabuzzino. Un numero impressionante di televisori di diversi modelli sono buttati lì come testimoni tangibili dello scorrere del tempo. Se si ha il coraggio di guardare oltre la cassettiera che ospita indefinibili arnesi in legno e una radio Phonola che spicca come il diamante allo stato grezzo nella Caverna delle Meraviglie, si scorge un’altra presunta camera da letto. Anche qui, poca luce e molti mobili, ma tutti di dimensioni incredibilmente ridotte.

La parte più bella è la camera da letto principale, che comunica col bagno ed è divisa in due da una tenda slavata tirata in mezzo alla buona. Qui anche un modesto lucernaio fa finta di schiarire l’ambiente (quando in realtà è tutto merito del bagno che ha il ‘tetto’ in pannello di plexiglass). Al contrario delle altre stanze, qui di cose ce ne sono ben poche, ma buone. Due lettini tirati giù per magia dal mobile retrostante (cose mai viste ma che a mio padre ricordano l’infanzia e quasi non si commuove) con copriletti a fiori dal sapore campagnolo, qualche nicchia ricavata nel muro bianco per ospitare pappagalli di coccio e i soliti santi e madonne, e basta. Unici cimeli buttati sul mobile-letto due racchettoni e degli scrigni intarsiati di conchiglie. E a me tutto questo già mi vale quanto una giornata al museo di arti e tradizioni popolari.

Ma la parte migliore viene poi. Il nostro amico, contento degli apprezzamenti fatti sulla casa (che da parte mia riguardano più che altro il valore storico e il tasso di vita vissuta da chissà chi in flussi temporali sovrapposti) ci porta nella cantina. Riscendiamo le scalette, mettiamo un piede dentro un antro buio con un occhio di riguardo ai santini nelle nicchie (visto mai) e accendiamo le torce. E via, risbuchiamo dall’altra parte dello Stargate.

Incorniciato dal trave in legno portante su cui abbiamo camminato poco prima che: “Fino a mo’ ha reggiuto” (e i santi acquistano punti in classifica) vi è uno spettacolo raro. C’è tutto l’essenziale per una produzione del vino coi fiocchi, il kit completo, dalla vasca per la decantazione al pozzo interrato alla pressa alle botti. È tutto lì, coperto da secoli d’oro e tonnellate di polvere ad annaspare nell’umidità pregando che qualcuno prima o poi lo riporti agli antichi splendori. Sembra di essere archeologi alla scoperta dei tesori delle tombe egizie. Pare che questo posto sia stato in passato un punto di riferimento: “Del circondariato”. La sua era una delle più importanti famiglie qui a Santo Stefano, le: “Famiglie patriarcali”, come le definisce lui, “famiglie grosse, tutti laureati o con commercio di bestiame”. E bam! Un altro Bignami di storia in una frase.

Salutando a malincuore la bottiglia di Chianti adibita a candelabro e la sedia su ruote creata dal padre del nostro amico (non senza un pizzico di orgoglio) risbuchiamo all’aria aperta e nel 2020.

È stato un soggiorno durato neanche una trentina di minuti, e a me pare di esser tornata da un viaggio dall’altro capo del mondo.

IL MONTE VELINO

Se parti da Rosciolo dei Marsi e parcheggi la macchina a Santa Maria in Valle Porclaneta (ogni nome è un’ode), ti inerpichi su per un sentiero boschivo che poi diventa sempre più brullo man mano che sali – e tra l’altro ti fai tre chilometri in più perché credi ciecamente all’informazione del primo tizio che passa vestito sportivo e sbagli sentiero – prosegui su tra gole e dirupi, ma soprattutto sassi instabili e ghiaia, superi il fontanile – in cui ti fermi a pensare: “Ma io qui che ci sono venuto a fare?” –  e passi il sacrosanto valico che da giù sembra sempre vicino poi invece… insomma, passi il valico e arrivi ad una valle incantata protetta dalle cime dei monti a picco su 2000 metri di altitudine.

Lì ti fermi un attimo e pensi che: “Vabè si, in fondo ne è valsa la pena”, però comunque per ora muori sull’erba e poi per la vetta se ne parlerà più tardi o domani.

Nella valle incantata c’è poi un rifugio, non uno di quei rifugi moderni e ultra-accessoriati con i ristoranti e gli ski-pass, ma una baracchetta in legno e lamiera rossa tirata su da volontari che vengono quassù a sella di mulo una volta l’anno e ci rimangono per quattro settimane a godersi la solitudine montana alla Kerouac e a correre in soccorso ai poveri escursionisti della domenica con bibite fresche e qualche chiacchiera.

È questo il bello dell’Abruzzo, che puoi farti anche il tour dei resort, ma se decidi di scalarti una vetta in santa pace e piazzare la tenda dove capita senza pagare un soldo nessuno ti dice niente, anzi c’è pure qualcuno che ti agevola il soggiorno.

È qui che facciamo la conoscenza di Mario, il volontario che è il custode temporaneo del rifugio, dalla grande ospitalità e la chiacchiera facile. Finisce che rimaniamo un pomeriggio a parlare di politica a suon di Genziana fatta in casa, congedandoci al tramonto su discorsi sconclusionati perché lui perde il segno (viene comunque da qualche birretta tenuta in fresco nella cisterna) e la raccomandazione di levare la tenda all’alba, che: “No, non si potrebbe piantare, cioè, si, si potrebbe piantare, ma…” (quando ti dimentichi che sei in Italia c’è sempre qualcuno o qualcosa a ricordartelo). Insomma ci infiliamo nella tenda al tramonto perché comincia a fare un freddo cane al calare del sole e comunque che altro vuoi fare in una valle a 2000 metri contorniata da dirupi?

Tanto c’è la ‘tizia che corre’ che ci sveglia alle due di notte. Si, lei corre, da fondo valle al rifugio, di notte, da sola, in tutina e scarpe da ginnastica, per vedere le stelle cadenti e tornare giù la mattina per poi andare al lavoro. E tutti la conoscono qui, per questo. Un’altra ‘personalità’ degna di nota.

Già che ci sto mi metto pure io a vedere le stelle, tanto nella tenda fa freddo uguale, mi dico. Dopo due stelle cadenti e due geloni torno a barricarmi dentro chiudendo ogni cerniera al millimetro.

Il giorno dopo siamo reduci da una notte di insonnia, siamo morti di freddo e crampi. Dunque, ci prepariamo a salire in vetta.

Mario ci offre: “Una cosina da fumare”, prima di congedarci, che per mantenere l’equilibrio durante una scalata a 2500 metri è il massimo. Alla fine mi trovo comunque ad andare su con un bicchiere di vino, non so come.

La cosa bella del Velino è che non arrivi mai, è tutta una grande e continua scoperta. Pensi sempre che è l’ultima vetta, l’ultima salita, e invece scopri sempre che ce n’è una più alta dietro che sbuca tipo matrioska all’ultimo finché quasi non capisci più qual è sto benedetto Velino, e nel frattempo ti sei scalato altre tre cime manco fossi Messner. Se sei un principiante, accade, ad esempio, che mentre ti fai le foto tronfio sulla vetta di quello che credi il Velino a in realtà è il Sevice, passa qualcuno e ti dice che: “No, il Velino è QUELLO LÍ” e ti indica un torvo cono violaceo che fa ombra a tutta la vallata sul versante opposto di dove sei tu che quasi non ti piglia un coccolone.

Ma poi ci vai, perché comunque ci sei venuto apposta.

L’ultimo pezzo è da attacco di panico (tratto da una storia vera), sei letteralmente sospeso nel vuoto su un cono ghiaioso sdrucciolevole. E lì ripeschi la domanda che avevi lasciato a fluttuare sulle vasche del fontanile a quelli che ormai sembrano centinaia di anni luce fa: “Ma io qui che ci sono venuto a fare?”. Poi per fortuna passano gli esperti che il Velino se lo fanno ogni giorno in due ore di corsa andata e ritorno entro colazione e oltre che farti sentire un’incapace ti danno anche una mano a salire. E quindi alla fine arrivi, non sai come, sei totalmente paralizzato sulla esile fettuccia di aspri sassi che ti separa da una morte per caduta a 2000 metri e una morte per caduta a 2000 metri ma col panorama diverso, ti guardi la croce inebetito, quelli che ci si arrampicano ancora più inebetito, e ti dici: “vabè, ce l’ho fatta, mo’ però scendiamo”.

Quasi ci ripensi e ti avvicineresti a quella benedetta croce per fare una foto quando vedi un elicottero approssimarsi e senti voci circa due tizi caduti in un crepaccio. Quindi guardi il crepaccio, guardi il ‘sentiero’ (chiamiamolo così) da dove sei venuto, e ti risparmi quelle due o tre foto in bilico sulla tua sopravvivenza.

Non manca mai comunque il tizio che mentre scendi tra i sudori freddi su fiumi di ghiaia, la tua vita appesa ad un masso instabile, ti deve per forza dire che lui sta andando su con un braccio rotto perché tanto è la tredicesima volta che ci viene e ormai… gli risparmi le male parole solo perché non vuoi distrarre i santi e le madonne dal compito di riportarti giù sano e salvo.

Però la cosa bella del parlare con gli altri escursionisti è che, oltre a sentirti un incapace, scopri sempre posti nuovi dove tentare la prossima follia.

La nostra, a quanto pare, sarà il Monte Camicia.

Un bicchiere di vino sul monte Velino, la felicità

IL MONTE CAMICIA

Monte Camicia, complesso del Gran Sasso orientale, 2564 metri sopra il livello del mare. Si raggiunge da un sentiero che parte da Fonte Vetica, Campo Imperatore, una vallata che è indescrivibile ma se proprio volessi descriverla dovresti rifarti a paesaggi lunari o a qualche mitologica valle rocciosa americana, cose che non hai mai visto ma ce le hai comunque dentro grazie a film e libri e te le tieni lì come termini di paragone immaginari per qualcosa di straordinario, luar biasa, come direbbero gli indonesiani. Ma tutto questo è in Abruzzo a pochi chilometri da casa (che per me che per ricercare chissà che me ne vado dall’altra parte del mondo è comunque tanta roba, se ci pensi).

Insomma pianti la tenda sulla luna (sradicando i robusti cardi di cui è disseminato il prato con una mannaia trovata nel bagagliaio della macchina di mio padre) e poi ti inerpichi sui sentierini ghiaiosi a picco sui dirupi che non ti danno un attimo di tregua, ma proprio mai. È sempre e solo inevitabile salita, a tratti quasi arrampicata, ma la fai volentieri, nell’aria fresca cercando di fare il pieno per gli occhi e l’animo, nonostante le vertigini e compagnia bella. Si, vado a scalare montagne di quasi 3000 metri con le vertigini.

Ci metti tipo ore, mentre le coppiette e i vecchietti stacanovisti con tutine in tessuto tecnico ed equipaggiamento essenziale ti superano senza pietà e quello che fai tu in 5 ore loro lo fanno in 3 andata e ritorno. Ma sti cavoli tu ti godi il paesaggio e ti fermi a guardare le nuvole, come dice Kerouac. La cosa bella è che comunque tutti salutano e si scambiano parole di incoraggiamento, come vecchi amici accomunati da uno scopo comune, che poi è quello di andare in cima al mondo a fare un respiro e sentirsi totalmente liberi per quei pochi minuti che riesci a resistere a picco sul vuoto coi vortici di vento (e le vertigini). Ma ti pare poco? Incontri anche quelli che vanno su con l’amica e: “La moglie ed il cane restano a casa” (Vecchio Abruzzese in camicia aperta e bastone con bionda a seguito 2021: 1).

E insomma vai avanti su, su e ancora su tra rocce, macchie sottostanti in cui si intravedono lupi e stambecchi e concertati di grilli in ostinato tra l’erba dura e tenace che cresce lì sopra e quasi rinunci a un certo punto perché da lontano sembra sempre che sei quasi arrivato ma non arrivi mai e ti inerpichi sempre più su e ancora su, in salita, a strapiombo e via dicendo. Ma poi passa qualcuno con la tutina ergonomica a passo svelto come stesse facendo una sgambata a Via Condotti e ti dice che: “Dai, sei quasi arrivato”, e tu gli dai retta anche se non ci credi. Ma poi in qualche modo arrivi.

Gli ultimi 100 metri ti strappano l’anima, un cono di ghiaia sdrucciolevole e massi instabili in equilibrio sull’infinito, ma poi, in qualche modo, sei sopra. Ce l’hai fatta, non sai manco tu come, ma se lí, ti guardi il Gran Sasso faccia a faccia, le cupe guglie del Monte Prena, le creste verticali su cui ti rendi conto di esser passato a filo poco prima: “Dio santo ma sul serio?”, e persino il mare all’orizzonte. E basta, sei completo, non ti manca più nulla. Fai un bel respiro, una foto che documenta l’evento, e riscendi giù a smadonnare su sassaie e burroni. Ah, e ho indossato la camicia, sul Monte Camicia, una finezza come tante.

Mi rendo conto che quando scrivo questi resoconti scrivo più storie di altri che mie. Mi chiedo quanti di noi sono entrati nei diari degli altri, e quali sfumature o frammenti di personalità abbiano colto loro che noi non coglieremmo mai. Tipo il milanese qua fuori la mia tenda che in questo momento parla al telefono con tono da tipico milanese e descrive il panorama: “Da manicomio”, imprecando per l’assenza di segnale. Su una cosa ha ragione: non c’è campo. Qui il cellulare diviene un orpello inutile, bastano un buon libro e una buona fotocamera, entrambi possibilmente tascabili. Neanche te ne accorgi se non leggi le notifiche per due o tre giorni, con tutto quello su cui hai da soffermarti qui.

Campeggio sulla luna
In vetta

ETERNI RITORNI

Mi piace vedere la strada scorrere tra l’asfalto e il guardrail. Magari su sfondo di nuvole arcigne e montagne in lontananza, con gli Avenged Sevenfold o qualche canto popolare di chissà dove nelle orecchie e qualche buca a 100Km/h.

Né qui né lì, nel mezzo, tra un arrivo e una partenza, che anche se fai ogni volta la stessa strada con le stesse soste e gli stessi caselli non è mai uguale. È un movimento, il viaggio, un processo nel turbine emozionante del divenire. Le luci basse di qualche lampione, arancio-giallognole, il cielo coperto, l’asfalto bagnato, i temporali di fine agosto, che mi ricordano un po’ il periodo dei primi monsoni ai tropici ma senza il caldo asfissiante, il là, il dove, il prima e il poi, ma nel frattempo in marcia e avanti tutta.

Rifarei questi viaggi in autostrada tutto il giorno senza arrivare mai. Ogni tanto fai una sosta a qualche Autogrill di quelli che vendono tutti le stesse cose, anche se ogni tanto ci provano a buttarti lì un angolo di prodotti locali, dei confetti di Sulmona, un vino abruzzese.

Prendo il solito cappuccino amaro con tanta schiuma e il cornetto ripieno di crema al pistacchio. Non faccio colazione apposta a casa per arrivarci col buco allo stomaco e godermi il senso di soddisfazione della prima colazione in autostrada, con gli occhi ancora increspati di sonno, il vento mattutino e l’odore di benzina. Quanto ho sottovalutato il cappuccino ed il cornetto! A quest’ora in Indonesia starei venendo a patti con del tempe fritto oleoso e pieno di cipolla e un acquoso granuloso caffè nero, come quella volta alle cinque di mattina appena finito di scalare il monte Ambarawa, e altri innumerevoli casi dispersi nella memoria che ancora ce li ho sulla coscienza. Quanto avrei voluto un cappuccino e un cornetto al pistacchio in quei momenti! Ad ognuno le proprie soste, ad ognuno le proprie colazioni.

Marc Augé considera l’autostrada uno dei non-luoghi, quegli spazi anonimi e spersonalizzanti creati dall’uomo per abbreviare le distanze e velocizzare gli interscambi. Non posso che concordare, nonostante il fascino che questo, come altri non-luoghi in giro per il mondo, esercita su di me. Se invece decidi di aggirare i caselli e prendere la Tiburtina Valeria, arrivi a Roma più o meno nello stesso tempo, ma invece che ipnotizzarti in un grigio divenire a 120 Km/h percepiti come 50, ti guadagni un posto in prima fila ad una rara esposizione di insediamenti umani.

Dalle terrificanti rupi di Pietrasecca (che ogni volta che ci passi ti ripeti: “Un giorno o l’altro mi casca un masso in testa”, e forse qualche giorno succede davvero), al magnifico duo Arsoli- Carsoli (che se dovessi immaginarli in forma umana penserei subito a due attori di Vaudeville), il fantascientifico Saracinesco arroccato su se stesso in cima alla fine del mondo, e via dicendo. Tutto il tragitto vale solo per l’ingresso trionfale a Tivoli, col suo castello (che è un po’ un ‘luogo-comune’ di tutti questi paesi), Villa d’Este, Villa Adriana, un sacco di ville, secoli di storia di civiltà romana incastrata tra un baretto e una piazzetta.

E l’inconfondibile odore sulfureo delle terme, la veduta panoramica su Roma Città Eterna, direttamente dalla succursale dei weekend imperiali, la casa-vacanze dei nostri antenati. Tutto questo non esiste e non è mai esistito in autostrada. Non è disegnata per quello. Mentre le superstrade sono un viaggio nello spazio e nel tempo secondo tappe ben riconoscibili e definite, che ti impregnano di senso del divenire, le autostrade adimensionali, atemporali e a-spaziali. Sono un gigantesco wormhole che ti sputa in un’altra dimensione nel tempo di prendere il portafogli e ripiegare un bigliettino.

Nel frattempo entriamo sempre più nel folto di nubi, passare il confine tra Lazio e Abruzzo è come cambiare sessione di Netflix da commedie a film horror. Mentre mi lascio trasportare dalla musica e dalle diapositive che scorrono fuori dal finestrino non so perché mi viene una di quelle epifanie joyciane e mi dico che Kerouac mi ricorda mio padre. È una di quelle cose che non hanno senso ai fini della narrazione generale, ma tu le metti lì, fa comunque testo.

Al casello, mentre in lontananza si scorgono i barlumi dei primi incendi sui pendii delle montagne, il cartello appeso al gabbiotto automatico ammonisce: “Il bosco non vale una cicca”.

Se becchi una tormenta con tuoni e fulmini proprio mentre imbocchi i tornanti di Valdevarri allora è la tua giornata fortunata. Parti da Roma con 36 gradi e arrivi a Santo Stefano con 15. È come partire e arrivare la stagione successiva, a distanza di un’ora e mezza di autostrada. In Indonesia queste cose non succedevano. Non succedeva neanche di pensarci, perché non ci sono stagioni, a parte quella secca e quella piovosa, in cui di base fa sempre un caldo immane e il sole sorge e tramonta alla stessa ora (dunque ti ritrovi sempre le stesse ore di luce e buio) solo che per sei mesi oltre a questo tipo di disagi si aggiungono muri d’acqua perpetui e allagamenti.

Questi sono i momenti più belli perché sono quelli che ti danno il senso dello scorrere delle stagioni, dunque un procedere ordinato e scandito del tempo, in cui ogni mese è ideologicamente associato a suoni, odori, sapori, immagini etc. Come sul diario di scuola, in cui ottobre si riduce a una castagna, marzo a una rondine e agosto ad un ombrellone. In Indonesia dovrei associare ogni mese a qualcosa che rimanda forse a qualche festa nazionale o religiosa, ma non certo ad elementi che indicano lo scorrere del tempo o qualche cambiamento climatico. È tutto ciclico e ripetitivo, un enorme loop temporale.

Qui il tempo scorre eccome, te lo senti addosso, lo vivi in ogni dettaglio. Specialmente a settembre, in cui ogni brezza mattutina un po’ più fresca del passato agosto, il suono di qualche uccellino diverso e i primi funghi nel sottobosco, mi rimandano sempre ai miei primi giorni di scuola elementare, in cui fissavo dal mio banco un ‘enorme cornacchia sul ramo più alto di un albero nel giardino del convento delle suore e mi sentivo rincuorata che tutto fosse al proprio posto.

E questo qui di albero, nonostante sia composto di intonaco e colori a tempera, cresce, cresce inesorabilmente, si arrampica, va su, di minuto in minuto, ora in ora, giorno in giorno. E chissà se nel frattempo quella cornacchia sarà tornata da chissà dove, come me, per posarsi sempre sullo stesso ramo, anche a distanza di giorni, mesi, anni.

Un albero cresce a Santo Stefano