La casa della sindhen

Capitolo 18 – Dieng

«“Il viaggio dev’essere avventuroso. “La gran cosa è muoversi,” dice Robert Louis Stevenson in Travels with a Donkey [Viaggi a dorso d’asino] “sentire più da vicino le necessità e gli intralci del vivere; scendere da questo letto di piume della civiltà, e trovare sotto i piedi il granito del globo, sparso di selci taglienti”. Le asperità sono vitali. Tengono in circolo l’adrenalina”».

(Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza)

12 ottobre 2013

Yogyakarta

Ore 00.00

Ho appena finito di impacchettare i bagagli, ma questa è una storia a parte. Ci arriveremo.

Oggi si può dire che è stata una giornata di relax. Mi sveglio a mezzogiorno per recuperare epoche di sonno arretrato e faccio una signora colazione con caffè italiano fatto con la moka e pancake alla banana preparati da Daniel. Passo il pomeriggio con lui a guardare video divertentissimi dell’Opera Van Java, il programma televisivo del quale avevamo visto le prove ieri sera. Lui mi traduce tutto ciò che dicono, le immagini fanno il resto.

Attori vestiti da personaggi del wayang si cimentano in sketch comici a presa in giro del medesimo, con un risultato ultra kitsch. Questo tipo di comicità mi fa abbastanza rabbrividire. In tutto ciò delle sindhen cantano banali canzoni pop che parlano sempre e solo d’amore (aku cinta kamu,’ti amo’, è la frase più ricorrente). La povera orchestra gamelan è ridotta ad un mero simbolo e talvolta è usata a scopi comici (tipo botte a suon di gong tra due performer). Altre volte svolge la sua funzione musicale, fedelmente accompagnata da strumenti occidentali, in primis batterie e chitarre.

Verso le cinque Stephanie ci raggiunge e decidiamo di andare insieme al Malioboro Mall, ognuno in cerca di cose utili alle proprie attività. Dopo circa due ore nella Gramedia usciamo trionfanti. Stephanie hatutto il materiale per i suoi schizzi e modelli e un libro sul fashion design giavanese, io ho trovato due libri sul gamelan, uno balinese e l’altro giavanese, che è un vero e proprio manuale di tecnica, una miniera d’oro. In tutti i sensi: qui hanno decisamente prezzi da bule.

Daniel torna a casa a vedere la partita di football (l’imperdibile Indonesia-Corea) ed io e Stephanie ci diamo appuntamento con Teddy, l’altro coinquilino. Andiamo a cena al Warung 79, vicino casa, dove ero già stata con Asep. Specialità della casa: anatra. Ne ordiniamo tre porzioni più riso, tempe e l’immancabile tè jahè, il tè allo zenzero che ha un sapore micidiale ma pare sia un toccasana per tutto. Ci rechiamo poi ad un posto abbastanza chic (anche troppo per i miei gusti), frequentato da turisti e ricchi indonesiani. Ordiniamo dei magnifici dessert multicolore (è proprio un must del food design indonesiano) e un caffè gusto menta e nocciola e ci mettiamo a chiacchierare sul sottofondo di tre ragazzi suonano canzoni americane con chitarra, percussioni e voce.

Poi Teddy tira fuori il portatile e cominciamo a fare piani. Lui e Stephanie hanno intenzione di passare questo lungo week-end (da sabato a martedì) in villeggiatura, approfittando di una festa islamica. Decido di unirmi a loro, in fondo non ho altro da fare, l’ISI sarà chiuso (figurarsi), e non voglio saperne di spettacoli per un po’ di tempo.

Il dado è tratto: domattina si parte.

La destinazione è Dieng, una località a un centinaio di chilometri a nord di Yogya. È un piccolo villaggio che sorge su un altopiano tra un lago multicolore e un alto e impervio (ma soprattutto attivo) vulcano.

Quindi, in quattro e quattr’otto ficco due cambi e alcuni oggetti necessari nella borsa di tela e mi preparo a questo viaggio improvvisato. Il programma prevede colazione al ViaVia alle nove, tanto per avere un ultimo assaggio di civiltà, attivazione GPS e poi via in sella ai motorini, verso l’avventura.

16 ottobre 2013

Yogyakarta

Ore 17.15

La mattina del 13 ottobre mi sveglio alle 8.00 e ho appuntamento coi miei due coinquilini, Teddy e Stephanie, nel salotto. Si va tutti insieme a fare colazione al ViaVia prima di affrontare il lungo trip motociclistico.

La colazione è generosissima: per loro un set di uova, bacon, pane tostato, insalata e altre mille cose degne di una colazione continentale che si rispetti. Per me, che per quanto abbia gusti stravaganti rimango pur sempre un’italiana, caffè all’avocado, macedonia di frutta esotica e i gloriosi pancake alla banana. Con gli stomaci pieni, pronti ad ogni evenienza, carichiamo le borse sui veicoli e partiamo all’avventura. Il GPS rimane rigorosamente acceso sin dalla partenza, per evitare che l’avventura diventi più ‘avventurosa’ del previsto.

Imbocchiamo il Ringroad, il grande raccordo anulare che cinge Yogya, sul quale se ne vedono di tutti i colori. Non ha caso qualche commerciante locale col senso dell’umorismo ha lanciato la maglietta con lo slogan Lord of the Ringroad (un ironico richiamo al ‘Signore degli Anelli’, Lord of the Ring). Scampati al Ringroad, ci immettiamo in una stradina sterrata che costeggia un fiume alternando: buche, i soliti banani, capre che si abbeverano, buche, panni e cibi stesi sugli argini a prender sole, buche, bambini che sguazzano allegri nell’acqua verdastra e pazzi con pick-up colmi di fasci di legna o materiali improbabili ed evidentemente troppo ingombranti.

Ma sostanzialmente buche.

Il vento in faccia, il sole e il pensiero della meta verso la quale siamo diretti ci rende euforici. La ruota posteriore del mio motorino, bucatasi dopo pochi chilometri, provvede subito a riportare gli animi giù di qualche livello nella scala dell’entusiasmo. Ci fermiamo a chiedere informazioni alla prima baracca malmessa che troviamo. Per fortuna Teddy è di Giacarta, dunque non abbiamo problemi di comunicazione di sorta. Il vecchietto di turno ci risolve il problema in un attimo: proprio a 50 metri c’è un’‘officina meccanica’ (mai uso più improprio è stato fatto di tal termine). Pare ce ne sia una ogni 100 metri, è evidentemente un business che frutta (cfr. buche).

Mentre guardo riparare la mia gomma a forza di fuoco, ferri incandescenti e mani nude, faccio foto ed esploro i dintorni. In meno di due minuti trovo due figlie adottive e una famiglia. Decido di tornare alla mia postazione.

L’ ‘officina meccanica’ (bengkel)

Dopo altri interminabili minuti, il lavoro pare sia terminato. Non ho ben capito il metodo di lavorazione, ma nel dubbio mi fido. Saluto le mie pargole e il resto della banda con spassionati gesti dal sedile del mio trabiccolo in moto e ripartiamo via per le intricate stradine extraurbane, colme di vegetazione, salite e splendidi paesaggi.

Ma sempre e comunque buche.

On the road to Dieng

Qualche giro sull’ottovolante e numerosi rischi d’incidenti più tardi, decidiamo di fermarci per il pranzo. Siamo in viaggio da circa due o tre ore, la mia schiena è distrutta, come forse tante altre parti del mio corpo, ma non posso saperlo dato che non le sento più. Siamo ricoperti di smog e polvere, i panni sono zuppi a causa del caldo cocente, ma non ci azzardiamo a levarci i giacchetti causa rischio barbecue umano. I caschi roventi sono diventati ormai parte di noi, al contrario dei molti oggetti che hanno preso il volo dalle nostre borse. Però siamo stati previdenti: indossiamo scarpe chiuse. Non è immaginabile il numero di sandali e ciabatte disseminati qua e là sulle carreggiate. Il fatto è che si ostinano a indossarli sempre, ovunque e comunque vada.

Dopo un pranzo più che decente (è bello avere chi ti traduce ciò che stai per prendere dal menu) ci rimettiamo in sella e cominciano i dolori. Siamo a circa a metà del percorso, ci avviciniamo sempre di più alla montagna sulla quale sorge la nostra amata Dieng. Ma con essa si avvicinano sempre più anche il freddo, la pioggia e le stradine arroccate sui dirupi senza sorta di guardrail o barriere, con tanto di ingombranti camion di trasporto materiali che si inerpicano senza criterio, ostacolando la viabilità e inondandoci di tremendi fumi di scarico.

È una guerra. Non ho mai fatto tanta fatica in vita mia.

Sembrava di guidare un aratro in un percorso da videogioco respirando sotto una miniera. Non so che paragone sia, ma devo pur rendere l’idea in qualche modo. Più saliamo, più la pioggia e il vento gelido ci devastano. Metto su tutto quello che ho in borsa tra un rallentamento e l’altro continuando a guidare, dando il meglio della mia arte circense (altro che wayang) ma evidentemente non è abbastanza. I vestiti più pesanti che ho portato consistono in un misero golfino di cotone di H&M e in un giacchetto autunnale da pioggia. Ringrazio tutti quelli che: “Ma si, vai in Indonesia, un pareo, due costumi e via”.

Continuo il tour de force contro tutti gli agenti atmosferici che il cielo ricorda di avere a disposizione in quegli istanti, col più totale spirito di rassegnazione. Volendo è anche piacevole tutto ciò, se non altro per il senso di assoluta libertà che infonde. È quando raggiungiamo l’ultimo baluardo di civiltà che il GPS, placidamente, muore.

Per fortuna il destino ci manda un soccorso. Una vivace, frenetica e più che colorata tizia indonesiana in sella ad una rombante Kawasaki, eccitatissima di vedere due straniere in quell’angolo sperduto di mondo (di cui una bionda, Bingo!), ci scorta fino all’imbocco della stradina che porta dritta, dritta sulla cima della montagna. Dopo altri sette o otto minuti di moine e ciance a raffica, la nostra nuova amica si sincera della nostra volontà di compiere davvero tale impresa e ci congeda con qualcosa che suona come: “Siete pazzi”.

Quando ancora non credevamo possibile di essere stati baciati dalla fortuna, tutto volge in modo da far sì che non ci credessimo più, affatto. Stephanie buca la ruota posteriore del suo motorino. A grande richiesta: bis. Siamo sempre generosissimi coi nostri telespettatori. Meglio dell’Opera Van Java.

Sotto una pioggia fitta e quanto nessuna delle docce provate finora, corriamo a cercare riparo sotto una tettoia di bambù, che pare esser ricovero di motociclisti malcapitati. Teddy e Stephanie trascinano dunque il motorino incriminato verso il loco di riparazione più vicino, lasciandomi in balìa di una decina di indonesiani in giacche di pelle con tanta voglia di fare amicizia. Dopo le classiche presentazioni nel solito bahasa indo-english techno-mix, qualche accenno a Balotelli, Valentino Rossi e poco altro che rende tanto orgogliosi noi italiani nel mondo, scatta il karaoke. Uno dei tizi ci tiene tanto a farmi sentire le hit indonesiane del momento dal suo cellulare Samsung modello prima rivoluzione industriale e non posso rifiutare.

Qualche aku cinta kamu dopo, trovo marito, è che proprio la proposta qua parte facile. Per fortuna Teddy e Stephanie arrivano appena in tempo a salvarmi. Questo matrimonio non s’ha da fare.

Ripartiamo per l’ultima tratta del nostro viaggio, la migliore e peggiore al tempo stesso. L’incanto delle vallate striate di mille sfumature di verde, tra tetti spioventi di piccoli villaggi e rovine di templi induisti qua e là, ha un prezzo (prevedibile): buche. Ma più che altro crateri, la strada, non sussiste. Qualche altro pazzo locale ci viene incontro, ma più scontro, a tutta velocità giù per la direzione opposta, su carretti e rumorosissimi bicicli, nel classico outfit moda Rainy Season Dieng 2013: infradito con calzini, pareo batik, mantella da pioggia e sciarpa di lana. Ogni tanto il mio motorino decide di spegnersi a sorpresa durante le salite più impervie ed io e Teddy siamo costretti ad alternarci tra spinte, imprecazioni, preghiere e tanta, ma tanta, forza di volontà.

Alle sette di sera, zuppi, sporchi, doloranti, infreddoliti ma spensierati e soddisfatti come non mai, arriviamo. Superata l’ultima erta, svoltata l’ultima curva ed evitato l’ultimo frontale con tizio sul carretto, la cittadina ci si staglia dinnanzi buia e silenziosa. Essa consiste in una stradina piena di casette colorate, qualche moschea, un piccolo supermercato, due hotel e fin troppe rumah makan (taverne). E poi campi, monti, nuvole, orizzonti.

Kawasan Dieng Plateau
Area del Plateau di Dieng

L’arco di benvenuto ci informa che siamo arrivati.

Benvenuti a Dieng

Raggiungiamo subito il primo albergo disponibile, nell’intento di affittare una camera per la notte. Ci accoglie una sorridente signora in sandali con tacco a spillo arancioni, calzini celesti, jeans verdastri, pullover di lana, sciarpa di seta con fiori ricamati intorno al viso e rossetto rosso.  Quando pensi di aver visto i peggiori dress-code della tua vita, c’è sempre qualcuno che riesce a sorprenderti.

Mentre controlla la disponibilità per le successive due notti, ci fa accomodare in un salottino tra la ‘hall’ (che è al tempo stesso sala da pranzo e reception) e la cucina (che è al tempo stesso tutto). Ci fiondiamo intorno alla ‘stufa’ (vedi: pentola di rame ripiena di tocchi di carbone rovente) e ci riprendiamo momentaneamente con tè caldo e biscotti.

Nell’albergo purtroppo non ci sono stanze libere, ma la signora ci dice che ha altre camere disponibili in una sorta di mini appartamento a due traverse di distanza. Accettiamo senza pensarci troppo. Ci addentriamo nelle pittoresche viette di questo paesino dalle vivaci architetture in stile indiano miste a sfaceli edilizi e fatiscenti depositi di patate (sono il prodotto tipico sembra) e arriviamo alla nostra dimora. Disponiamo di una camera con letto, ed è tutto.

Ma credo già sia un miracolo avere quello. Possiamo però usufruire di un ampio soggiorno sempre rifornito bevande calde e biscotti offerti dalla casa, bagno in camera decente, bagno comune che Dio ce ne scampi e stanze vuote che attendono di essere occupate da altri ospiti.

Il design è qualcosa di abominevole: è come se avessero fatto esplodere forniture dell’IKEA nel salotto di una vecchia casa di campagna del sud-Italia e avessero tirato oggetti a caso qua e là presi dalla Russia sovietica. Poi ci sono tocchi deliziosamente asiatici, tipo l’enorme pupazzo di Doraemon azzurro brillante che sorride dal bracciolo del sofà. Quest’ultimo in legno scuro e tappezzeria in velluto sintetico, con stampe floreali color malva e verde oliva. Il tutto è stagliato su un intonaco arancio rabbia, abbellito di tappeti e arazzi (che si scoprirà solo più in là essere mere coperte di lana) color viola acceso con ricami gialli e rossi. Completano il capolavoro credenze di legni diversi, palesemente fuori misura rispetto ai divani, suppellettili di dubbia provenienza tipo diplomi scolastici di chissà quali esistenze (che fanno sempre bella figura), tazze e thermos in plastica e prodotti per la casa. Una bomboniera.

Posiamo i bagagli sul pavimento, che poi è l’unica opzione. NON chiudiamo a chiave perché ce n’è solo una per tutto l’appartamento e non possiamo chiudere fuori a prescindere quelli dell’altra stanza (che arriveranno in serata). Andiamo quindi in cerca di un posto dove mangiare. Prima però ci bardiamo come tuareg nel deserto, buttandoci addosso tutto ciò che troviamo in borsa. Non riusciamo comunque a fare abbinamenti peggiori dei loro. Forse c’è un corso apposito nelle segrete della classe di batik.

Tanto perché si gela, penso bene di cadere in un canale, sulla strada principale.

La ricerca di una cena è più ardua di quanto si immagini. Sono solo le otto di sera ma il paese appare inanimato. In preda alla fame e al desiderio di trovare un posto caldo, ci infiliamo in una casina dal soffitto bassissimo dalle pareti color rosa pallido, con fasci di vegetali appesi qua e là e luci soffuse. Un bruttissimo tavolo vuoto al centro della sala ci sembra la cosa più invitante del mondo. Ci sediamo senza indugio. Una vecchietta sporge dal minuscolo uscio che credo dia sulla cucina, ma forse anche su Narnia, e ci guarda pensierosa. Teddy ci facilita la vita occupandosi della contrattazione dei cibi. Otteniamo del pesce e del pollo con verdure e riso. Sarà la fame ma ci sembra tutto delizioso.

Andiamo a dormire prestissimo, o almeno ci proviamo, dato che abbiamo in programma di svegliarci alle 3.30 per andare a vedere l’alba sul monte (vai a ricordarti il nome). In realtà è più dura del previsto. Una serie di inconvenienti a catena sabotano gradualmente le nostre buone intenzioni, a partire dalla palese scomodità del dormire in tre in un letto.

Come se non bastasse, circa verso le dieci di sera, fanno il loro ingresso trionfale nell’appartamento i nostri chiassosi vicini. Comincia la festa. Urla sguaiate, sbattimenti di porte, sezioni di canta-tu e brindisi a non finire, il tutto culminante nel gran finale: l’allarme del motorino. A quel punto scoppiamo in una risata isterica collettiva. Quattro ore dopo, siamo in piedi, pronti per il tour. Supero la voglia irrefrenabile di presentarmi in camera dei vicini ora dormienti con gong e traccole, e mi preparo velocemente.

Ci dirigiamo davanti l’ingresso dell’hotel, dove un tizio in tuta alla guida di uno sgangherato pick-up ci attende, assieme ad altri quattro passeggeri muniti di coperte e provviste. Li invidio tanto. Montiamo sul retro e iniziamo questa scalata surreale verso la montagna. Special guest star: buche. Non ti mollano mai. Il trabiccolo sobbalza che è una meraviglia, rischiamo di essere catapultati fuori ad ogni curva, mentre il vento gelido sferza le nostre guance e le mani tremano dal freddo. Una ragazza ci offre un pezzo di qualcosa da mangiare del quale capisco solo ‘multicolor’. Non posso vederlo, è buio pesto, ma ringrazio e mando giù senza farmi troppe domande.

Del paesaggio distinguo a stento foglie, rami e qualche masso sporgente ai lati del sentiero, ma la parte più bella è proprio sopra le nostre teste: il cielo, è completamente tappezzato di stelle. Si vede ogni singolo astro incastonato in ogni singola costellazione. Penso che potrei anche morire all’istante. Arriviamo in uno spiazzo che non ha affatto l’aria di essere il picco della montagna. Ci sono altri pick-up e motorini parcheggiati e chioschi che vendono coperte, cibi e bevande. È proprio come temevo: si va a piedi.

E così, alle quattro del mattino di una freddissima giornata in quella che ormai per me non è più Indonesia, ci ‘arrampichiamo’ su per il fianco della montagna, nel folto della foresta. L’applicazione torcia elettrica del cellulare, da sempre la più denigrata tra tutte, scatta prima in graduatoria. In tutto ciò, c’è gente in infradito. Niente, è più forte di loro. Il tragitto non è lungo, dopotutto, e una volta arrivati in cima saremmo disposti a rifarlo mille volte di corsa, anche in infradito, se necessario.

Lo spettacolo dell’alba è indescrivibile. Siamo nel mezzo di una vallata fluttuante tra le nuvole, dalle quali spunta qua e là qualche cima di vulcano e lontano all’orizzonte. Si cominciano a vedere i bagliori rossastri del sole nascente. Piano piano il disco perfettamente rotondo e luminoso si alza da dietro il complesso roccioso che fa da punto focale rispetto al piano in cui siamo. I rumori di click consecutivi rompono il perfetto silenzio da suspense creatosi negli istanti precedenti. In pochi minuti è giorno. Con la memory card colma di scatti semi-identici in sequenza e il cuore colmo di serenità, mi adagio vicino a Stephanie su una roccia, in contemplazione dell’orizzonte.

Pessima idea. Finito il momento topico dello spuntare del sole, tutte le attenzioni sono concentrate su di noi. All’inizio pochi temerari fanno foto con noi nostra insaputa. Il segreto è tutto nel posizionarsi vicino senza dare nell’occhio. Dopo un po’ però prendono coraggio e si crea letteralmente la fila. C’è quasi una ressa da grandi magazzini. Tutti vogliono una foto ricordo con le bule, più gettonate dei gladiatori davanti al Colosseo. Uno mi chiede persino di fare una foto mentre tengo in mano una bottiglia dell’acqua locale sorridendo. Il nuovo volto di Dieng, prossimamente davanti le vostre case.

Impressione del sole nascente a Dieng #1
Impressione del sole nascente a Dieng #2

Iniziamo a ridiscendere in direzione del pullmino e, tra uno scatto e l’altro, Stephanie ruzzola giù da una discesa, davanti all’intera scolaresca di Sumatra, che si affanna per aiutarla a rialzarsi. Con sguardo esperto e passo sicuro, intraprendo lo stesso cammino convinta di non ricadere in errori passati. Faccio la stessa identica fine, giù per il pendio. Dopo le ennesime premure manco fosse caduto il Papa, tra i vari: “Miss, Miss, are you ok Miss?” riesco a racimolare un briciolo di dignità e continuo a testa alta verso la meta. Riusciamo ad arrivare a valle senza altri numeri speciali.

Rimontiamo dunque su quella scatoletta di latta firmata Toyota e ripartiamo. Col sole alto nel cielo, il paesaggio appare più nitido, colorato e meraviglioso che mai. Mi siedo sul bordo del pick-up e comincio a immortalare tutto quello che mi passa sotto gli occhi. Alla prima buca cambio idea e mi siedo all’interno. I voli è bene farli solo con la fantasia, in questi casi.

Quando cominciamo ad avere una fame nera e non vediamo l’ora di tornare al paese a mangiare qualcosa, l’autista fa una deviazione. Sorpresa: si va a visitare le sorgenti calde. Uno spettacolo bellissimo, calderoni di materia grigiastra ribollente dal terreno, tra fumi che si levano in alto portati dal vento. Avere gli stomaci vuoti si rivela vincente, l’odore è decisamente meno gradevole dell’aspetto.

Le sorgenti

Risaliamo in sella alla nostra carrozza, pregustando la lauta colazione che ci attende. Ci rifermiamo: escursione sulla montagna vicina, per osservare il magnifico lago dai cinque colori. Via all’ennesima scarpinata, stavolta sotto il sole cocente, a stomaco vuoto e con quattro ore di sonno all’attivo. Sto per svenire. Però quando arriviamo in cima lo spettacolo è impagabile. Ci sediamo in pizzo a un dirupo ad osservare le diverse sfumature di verde e azzurro che si dipanano sotto di noi, tra le cornici di fiori gialli e rami di alberi montani.

Il lago dai cinque colori

Finalmente si va a fare colazione. A questo punto quasi speravo che spuntasse fuori qualche simpatico ometto dell’orchestra del wayang con il mitico portapranzo in cartone a sussurrarmi la parola magica: “Makan”.

Approdiamo all’albergo e la proprietaria ci presenta la colazione: nasi goreng (riso fritto) con uovo fritto e nuvolette di granchio, fritte. Con faccia evidentemente atterrita e l’intestino che si contorce solo al pensiero, mi faccio coraggio e mando giù tutto. Sono sul punto di gettare il mio fegato in una delle piante ornamentali dell’ingresso quando Teddy tira fuori due involti di foglie di banano e li poggia sul tavolo. Sorpresa: dolcetti di riso e cocco appena cotti dal venditore fuori la via. Sono buonissimi, ancora caldi, li finiamo in pochi secondi. Andiamo subito a comprarne altri, costano solo 1000 rupie l’uno, una somma che convertita in euro non esiste.

Dopo esserci decisamente saziati, decidiamo di fare una passeggiata senza senso in giro per i campi e le valli. Finiamo al tempio di Arjuna. Le rovine del tempio induista, il cielo terso, il tepore del sole che spazza via il gelo notturno, l’erba verde, la pace che emana quel luogo, tutto contribuisce a rilassare i nostri sensi in modo sublime. Anche troppo: ci adagiamo sul prato e cadiamo in coma.

Il tempio di Arjuna
Non vo’ che al tempio (plateau edition)

Mi risveglio con un viavai di scarabei sotto la schiena, due ragazzi del luogo sdraiati accanto a me intenti a farsi foto CON ME e un’ustione di terzo grado sul viso.

Mi alzo a sedere abbastanza stranita, mi guardo intorno e vedo gente ovunque. La situazione è mutata parecchio: tizi vestiti da Hanoman e altri personaggi del wayang accalappiano turisti per far foto ricordo; visitatori arrampicati sui gradini sono intenti a studiare la posa della loro prossima foto profilo di Facebook. Ma, quel che è peggio, ci sono i Teletubbies. Tutti, tranne quello verde, che forse si chiama Dixie. Decido che è troppo. Gli altri convengono con me, quindi prendiamo i bagagli, controllo di non aver portato nidate di scarabei a seguito e torniamo verso il paese.

Sono le undici del mattino e abbiamo finito le attrazioni da vedere. Succede, quando ti svegli alle tre e scali due montagne in due ore. Nel dubbio, prendiamo i motorini e cominciamo a girare per le stradine che intersecano le vallate e i campi di patate. Sono ovunque: mucchi e ceste adagiate ad ogni angolo della strada; teli coperti di tuberi dorati lasciati ad essiccare al sole; esili vecchietti con cappelli di paglia che trasportano ceste più grandi di loro sulla schiena, compiendo non immagino quale fatica.

Le indicazioni menzionano un museo di tradizioni locali. Andiamo a vedere di che si tratta. Parcheggiamo i motorini in una piazzola colma di chioschi ambulanti, che ovviamente vendono cibo (che altro?) e ne approfittiamo per pranzare. Spiedini di patate, funghi fritti e spicchi di papaya a go-go. Il museo è chiuso. Tuttavia la terrazza panoramica dello stesso offre una vista magnifica su tutta la vallata di Dieng. Rimaniamo un bel po’ seduti sotto una delle romantiche pensiline tra fiori coloratissimi e brezza pomeridiana e tra occhi curiosi di coppiette che si interrogano probabilmente sul nostro statuto di relazione a tre (sono cosciente che stiamo contribuendo al alimentare stereotipi sbagliati su noi straniere).

Terminata questa bellissima sequenza di love-story, finiamo dove ogni sceneggiatura hollywoodiana avrebbe previsto: in camera da letto. Nel senso che crolliamo come sacchi di patate (tanto per rimanere in tema).

Dieng in cartolina
Una comune giornata al villaggio
Le patate di Dieng

Ci svegliamo in tempo per cena anche se in realtà potremmo benissimo farne a meno, data la mole di cibo ancora presente nell’anticamera del nostro intestino. Senza indecisioni di sorta, andiamo diritti alla rumah makan che avevamo trovato chiusa la sera precedente e ordiniamo ampie porzioni di zuppa della casa. Ce l’hanno sponsorizzata in ogni modo, è giunta l’ora di testare. C’è dentro di tutto ma è buona. È piccante ed è accompagnata con la limonata calda che è tutto dire, ma è l’usanza. Di sicuro un toccasana per il raffreddore.

La seconda notte è decisamente più tranquilla, i nostri estroversi ospiti ci hanno lasciati. Riusciamo persino a dormire decentemente e ad alzarci alle 8.00. Cioè, Stephanie si alza alle 8.00, io alle 8.15, Teddy alle 8.40.

Germania vs Italia vs Indonesia.

Loro vogliono andare a fare colazione all’albergo con il solito salutare nasi goreng e fritto misto. Io mi oppongo, o meglio, voglio un compromesso. Prima devono consentirmi di mettere qualcosa di dolce nel mio povero stomaco italiano. Usufruisco quindi delle scorte lasciateci gentilmente dalla signora in salotto: caffè con biscotti al caffè. Sicuramente i colpi di sonno non saranno la causa dei probabili incidenti sulla strada del ritorno. Ma c’è anche lui: il Sari Roti. Il famoso pane aromatizzato sponsorizzato da carretti ambulanti dal caratteristico jingle, che ormai è diventato una super hit. Ora il mio stomaco ha lo scudo necessario per affrontare qualsiasi altro abominio che gli verrà propinato nel corso della giornata.

Purtroppo per i miei cari coinquilini, scopriamo che l’albergo non dispone di provviste per la colazione questa mattina. Quindi saldiamo il conto e ce ne andiamo con qualche stomaco vuoto in più, ma sicuramente con qualche gastrite in meno. Il paesaggio appare diversissimo rispetto all’andata. Non è più sera, non c’è ombra di maltempo e anzi c’è un sole al pieno della sua forza e i colori delle montagne risaltano più vivaci che mai. Per di più, il mio caro motorino che in salita aveva non poche difficoltà, ora spicca il volo giù per i pendii, tra svolte sinuose, gente a caso che passa trasportando cose a caso su mezzi a caso e i classici dirupi senza uno straccio di protezione. Sembra letteralmente di volare.

Comunque, ad ogni modo, buche.

Ci fermiamo ad un punto panoramico a fare un po’ di foto, anche per permettere a Stephanie e Teddy di avere la loro colazione indonesiana. Decidiamo di fare una strada diversa da quella dell’andata, per goderci un po’ di più il paesaggio anche da angolazioni diverse. Si rivela una scelta azzeccatissima. Le forme, i colori e gli orizzonti catturati dalle nostre retine e le sensazioni registrate dal nostro DNA epidermico in quegli istanti non hanno paragone.

Certo, le strade sono ancora peggiori e rischiamo seriamente di fare una brutta fine quando una macchina in panne ostruisce il passaggio su una curva strettissima, in pendenza. Dei ragazzi cercano di evitare il peggio mettendo sassi sotto le ruote posteriori, per evitare che la vettura scivoli all’indietro, ed io tremo al pensiero che noi ci troviamo proprio in mezzo alla sua traiettoria. Per fortuna riusciamo a superare l’ostacolo senza incontrare neanche un veicolo proveniente dalla direzione opposta e ci sbrighiamo ad allontanarci il più possibile.

Facciamo altre due soste degne di nota lungo il tragitto. La prima in una sterminata piantagione di tè ai piedi della montagna, per cambiare il nostro outfit da freddo glaciale in una più leggera mise da pianura. La seconda abbastanza singolare, per il rifornimento carburante. Teddy accosta ad una capanna lungo la strada, che pare venda bottiglie di benzina. Lascio fare a lui e non mi impiccio oltre, anche perché i miei occhi vengono catturati da altro. Una scimmietta mi guarda con aria di sufficienza da un muretto, mentre mastica avidamente un frutto. Mi avvicino per fotografarla e improvvisamente una più piccola balza su facendomi prendere un colpo. Alzo la visuale: ce ne sono tantissime. Levo l’obiettivo della Canon davanti ai miei occhi per vedere meglio e scorgo dietro le fronde degli alberi le rovine di un tempio induista.

Ho capito che dove c’è una scimmia c’è un tempio.

Dopo aver immortalato ogni loro controversa attività (lotta, spulcio compulsivo talvolta collettivo, smorfie facciali random), rischio un’aggressione da parte della più anziana. Rimetto tutto via e prendo posto sul mio veicolo senza fiatare.

Scimmie, scimmie ovunque!

Dopo altre tre orette più pausa pranzo in posto bellissimo poco fuori Yogya, siamo finalmente a casa. ‘Getto’ l’intera borsa da viaggio nel cesto dei panni sporchi senza proprio aprirla, mi ‘getto’ a mia volta sotto la doccia e tremo al pensiero della lezione l’indomani mattina alle nove. Cerco conforto in un tè caldo, ma trovo qualcuno che ha avuto l’idea prima di me: formiche. Sono ovunque e sono enormi. Per fortuna ho sigillato i biscotti nelle scatole ermetiche. Non posso dire lo stesso ahimé dello zucchero di canna.

Sorseggio dunque tè sciapo e penso ai bei tempi in cui potevo lasciare in camera anche un abbacchio in salsa di mele allo scoperto, senza il terrore di ritrovarmici sopra un Jurassic Park in miniatura.