La casa della sindhen

Capitolo 19 – Lady Dalang

«Everyone wanted to see a touch of Javanese culture brought into their isolated village. Yahyu danced from her soul, so lost was she in the ecstasy of performing to an audience of friends. The villagers looked on in awe at the beauty of her performance. They may not have understood the story behind the dancing but they appreciated beauty and grace which they compared to their own harsh physical existence».

(Patrick Sweeting, The jaipong dancer)

16 ottobre 2013

Yogyakarta

Ore 00.00

Mi sveglio come al solito risicatissima per la lezione (ormai ho imparato), metto in bocca biscotti alla rinfusa e mi fiondo fuori casa. Decido che, ora che ho più o meno imparato le strade principali da casa all’ISI posso permettermi di utilizzare il lettore mp3 a basso volume, per farmi compagnia nel tragitto. Sentire le mie canzoni preferite decontestualizzate fa un certo effetto, ma il nuovo contesto non mi dispiace per niente. Guidare quel trabiccolo diviene un’altra cosa, mi sento davvero Valentino Rossi in sella alla sua Honda (ormai il mantra dei miei amici è: “Jangan Rossi bos!”, “non fare Rossi, Boss!”).

Arrivo davanti il dipartimento di Pedalangan e trovo tutti, professore compreso, ad aspettarmi. Scambiamo le solite quattro parole poco comprensibili ed entriamo. Oggi è il turno della classe intermedia e come al solito è impresa non facile per me raccapezzarmi. Riesco a seguire dal libro qualche dialogo e qualche canto mentre i ragazzi si destreggiano a turno davanti al kelir. Se non altro la mia tecnica sul saron migliora di giorno in giorno.

Mister Udreka mi invita a prendere un succo di frutta al bar, ma posso rimanere poco in sua compagnia, devo correre alla classe di Bahasa Indonesia che, tra l’altro, come al solito, non so dove sia. Ogni volta è in un edificio a sorpresa.

Mando un SMS a Dona per evitarmi le solite perdite di tempo e ricevo la seguente risposta: “Please go to the crafts department, the room is the one of ceramic theory”. Capisco subito che non sarà facile. Mi reco al dipartimento, ormai ho capito dov’è, ma la classe di teoria di ceramica mi è nuova. Comincia il solito gioco a premi. Dopo una staffetta di quattro piani in tre diversi edifici più ping-pong nel cortile interno sotto gli occhi dubbiosi di studenti, arrivo alla mia Itaca, in ritardo. Tanto perché non mi bastava, rincaro la dose facendo una figura sublime davanti a tutta la classe. Nel tentativo di recuperare le nozioni perse, comincio a chiedere alle insegnanti la traduzione di tutto ciò che è scritto sulla lavagna, compreso quello che non potevo sapere essere il nome di una delle studentesse.

Riguadagno decisamente punti quando è il mio turno di lettura del brano in indonesiano. Sembra che sia l’unica della classe ad avere acquisito una pronuncia impeccabile. Non so se dipenda dal fatto che trascorro ormai la maggior parte del mio tempo con indonesiani o dal fatto che non sia poi tanto dissimile dalla pronuncia italiana.

Con la testa piena di innumerevoli nuove nozioni, ansiosa di sfogliare le dispense consegnateci, mi fiondo a casa e trovo tutta la famiglia. Teddy, Stephanie e Daniel sono indaffarati in salotto a sbrigare ognuno le sue faccende e la casa sembra più calorosa e vissuta che mai. Faccio un breve resoconto della mia giornata, dopo di che annuncio che sto morendo di fame. Sono le 15.30 e non ho messo nulla sotto i denti per tutta la mattinata. Daniel con mia grande sorpresa decide di mettersi ai fornelli e cucinare qualcosa di buono con gli ingredienti a disposizione. Gustiamo un ottimo riso con pollo e verdure al curry e tempe. Ho la gioia nel cuore.

Mi metto dunque a fare i miei compitini di Bahasa Indonesia da brava figliola e passo un pomeriggio da studiosa diligente (il primo forse). Mentre sono intenta a leggere, scrivere e tradurre, uno scroscio d’acqua raggiunge le mie membrane uditive. È la pioggia. La prima pioggia a Yogya. Esco fuori nel giardino zen a godermi le gocce fine e fitte che cadono sul prato e picchiettano sulla grande statua di Buddha. Non sembra più di essere in un paese straniero, dall’altra parte del globo terracqueo, sola e sperduta.

Sono a casa.

La serata continua sulla stessa piacevole lunghezza d’onda. Tra un compitino e l’altro, faccio due chiacchiere con gli altri, compresa la futura ospite che si unirà a noi da venerdì prossimo, in diretta su Skype. È una ragazza tedesca che studia medicina e sembra socievole e tranquilla. Finisce che ottengo un soprannome. Ormai sono tutti convinti che diverrò una dalang miliardaria, essendo una delle poche donne occidentali che si cimenta nell’arte del teatro delle ombre.

Quando i tuoi coinquilini ti soprannominano Lady Dalang e ti propongono l’improponibile singolo ‘Puppet face’, capisci che forse stai prendendo i tuoi studi troppo sul serio, o troppo poco.

Lady Dalang

Giorno 17 ottobre

Solita sveglia, solita colazione, nuovo hobby: ascoltare musica in sella al glorioso Mio Yamaha, a tutta velocità sulla Parangtritis.

Entro in classe più carica che mai e trovo pane per i miei denti. Mr. Udreka approfitta del ritardo degli altri, per insegnarmi come si siede un vero dalang. Mi siedo davanti al kelir, tentando di copiare ciò che fa lui e ottengo solo disastri. Innanzitutto la posizione: un improbabile incrocio di gambe di modo che il piede destro sia libero di muoversi per colpire il baule col batacchio in ferro, tenuto tra alluce e indice. Già questo basta a portarmi via due anni di buona salute. Ma è solo l’inizio.

La mano sinistra impugna l’altro batacchio in legno, da percuotere sempre contro il baule, ma nella parte interna. Tutto ciò a tempo, con la mano destra, che dovrebbe manovrare le figure destreggiando mille stecchette di bambù e riuscire a fare determinate mosse mantenendo la corretta posizione del personaggio. E per fortuna ancora non si è aggiunto il canto delle melodie karawitan seguendo l’orchestra e la declamazione in giavanese antico dei dialoghi. È follia. Capisco come mai il dalang sia una figura rispettata e ben pagata, per divenire abili con tutte queste cose ci vogliono anni di esperienza.

Quando sono sul punto di legarmi da sola la camicia di forza per evitare episodi di schizofrenia compulsiva, ecco entrare i miei compagnucci. Sono salva, la vera lezione ha inizio. Mi metto tranquilla al mio saron e presto il più possibile orecchio alle spiegazioni, che tuttavia ancora non posso ancora comprendere in gran parte.

Poi c’è un cambio di location inaspettato: ci trasferiamo tutti all’esterno, nel padiglione della danza. Il maestro ordina dei succhi di frutta al bar e ci sediamo tutti in cerchio, a cimentarci nella declamazione dei versi in giavanese antico, me compresa. Va meglio del previsto: non so assolutamente cosa sto dicendo, ma evidentemente lo sto dicendo bene.

Torno a casa con un sorriso che quasi mi lacera la faccia per quanto è teso. Ad ogni modo sempre meno dell’insolazione di Dieng, che ha cominciato a produrre i suoi effetti collaterali. Mi guardo allo specchio e quasi mi metto ad urlare: il mio volto è completamente in via di desquamazione. Mi copro di litri di crema idratante e vado a cucinarmi qualcosa. Cioè, ci provo. Non sapendo che inventarmi, prendo le solite verdure a caso e le butto in pentola con spaghetti di soia insapore. Tra i vari innocui vegetali, spicca un affare che mi ricordava vagamente una zucchina al momento dell’acquisto, ma evidentemente non lo era. Un sapore amaro da rimanerci secchi.

Getto tutto via e mi sbuccio un avocado dannando me e la mia inettitudine culinaria.

Dopo questo lauto pasto, mi do ai tentativi di traduzione del testo datoci dal professore e impazzisco. Non trovo nessun dizionario online che riconosca una sola parola di quella lingua. Daniel accorre in mio aiuto e cominciamo a cimentarci in una serie di traduzioni a staffetta, dal linguaggio antico (che in pratica è quasi sanscrito) al giavanese moderno, al Bahasa Indonesia, per poi finire all’amato inglese, che ormai devo dare per scontato essere la mia madrelingua.

In un’ora traduciamo a stento e male un misero paragrafo.

Decidiamo di dare una svolta alla situazione e al pomeriggio: incursione al Gramedia in centro. Non trovo il vocabolario giavanese-inglese, che forse non esiste, ma in compenso trovo un pratico e comodo dizionario tascabile indonesiano-italiano e un libricino sui personaggi del wayang che sembra scritto in un indonesiano fluido e semplice, facilmente traducibile.

Per ristorarci andiamo a sederci sul lungo-fiume, al centro della città. Ci sediamo sui tappeti di bambù distesi sui marciapiedi che danno sugli alti argini e sorseggiamo tè e caffè testando il mio nuovo acquisto. La cosa va più o meno così: discorsi in inglese con inserti in indonesiano, cercati in italiano sul dizionario, qualvolta non sapessi un termine. Una conversazione singolare.

Ci viene fame e, dato che ormai siamo in giro, Daniel pensa di portarmi ad un ristorante bellissimo a Bantul, un vero paradiso tra laghetti, cottage in legno, statue e alberi in fiore. Mangio una deliziosa anatra accompagnata da succo di dragon fruit mentre bande di tifosi passano strombazzando in sella alle loro moto, direttamente dallo stadio lì vicino. Dico a Daniel che voglio assolutamente andare a vedere una partita di football locale, prima o poi.

Quando siamo pronti ad andarcene, la mia attenzione è catturata dalla musica gamelan che percepisco nel padiglione adiacente al ristorante. Ci avviciniamo a curiosare e mi si illuminano gli occhi. Uno schermo proietta un filmato di uno spettacolo di wayang, davanti a pochi disinteressati uditori. Ovviamente mi piazzo lì davanti e faccio amicizia con il tizio a fianco a me non appena poso piede sul tappeto. Seguo così una parte di spettacolo, sfogliando di tanto in tanto il libro appena comprato che Daniel gentilmente si presta a tradurmi lì per lì.

Dopo un po’ decido a malincuore di andare via, domani mattina ho appuntamento con Dona alle 9.00 per discutere dei corsi di Karawitan.

Ma tanto ho già in programma altri appuntamenti sul calendario, figuriamoci se rimango una settimana senza wayang.