La casa della sindhen

Capitolo 17 – Dietro le quinte

«I only had one rule: ‘Just say yes’. Because Indonesians are among the most hospitable people on earth, this made for a lot of yesses. Tea with the Sultan? Lovely! Join a wedding procession? Yes please! Visit a leper colony? Of course! Sleep under a tree with a family of nomads? Why not? Dog for dinner? Uuuuh, sure».

(Elizabeth Pisani, Indonesia etc.)

11 ottobre 2013

Ore 15.35

Yogyakarta

Sono reduce da un’esperienza magnifica. Gli ultimi due giorni sono stati qualcosa di meraviglioso. E devo ringraziare il mio maestro Udreka per la sua disponibilità e trasporto nei miei confronti. Sto avendo modo di entrare nel vero modo di vivere degli abitanti di Yogyakarta, ma soprattutto degli artisti, musicisti e prima cosa tra tutte: i dalang.

Le ultime quarantotto ore sono state per me un tuffo nello spaccato di vita quotidiana di una delle figure più importanti nel panorama cittadino, regionale e forse anche nazionale. Una figura rispettata e stimata, uno dei mestieri più antichi e rispettabili in un paese dove le tradizioni e le arti performative sono elevate ad uno dei posti d’eccellenza nella graduatoria delle fondamentali attività umane.

Oggi, in un mondo che procede marciando ad alta velocità lungo la traiettoria della tecnologia, dell’economia, del progresso e di tutti questi slogan altisonanti dei quali i media occidentali traboccano, c’è ancora qualcuno, che vive di arte. C’è qualcuno che ama esprimere sé stesso tramite forme di comunicazione consolidate nel patrimonio genetico della propria terra d’origine e ama condividerle con chi abbraccia altrettanto passionatamente questa filosofia.

Qui c’è ancora qualcuno che ama condividere senza mirare a un tornaconto personale. Qualcuno che ti apprezza solo perché apprezzi la sua arte, che forse non è più tanto apprezzata come lo era prima, quando i tentacoli della globalizzazione non si erano propagati in questa parte poco gettonata della carta geografica. Ma ancora oggi, nonostante questo puzzle di terre fluttuanti nell’oceano venga sempre più compresso dai più fronti che lo uniscono e lo dilaniano al tempo stesso penetrando tramite vie traverse in ogni sua piccola cavità, resistono forme di genuinità di modi di vita e semplicità di pensiero. E Yogyakarta ne è il cuore pulsante. La punta di diamante di un’antica cultura viva e vibrante nel presente.

Questa è la culla della cultura, il cuore di Giava. Qui, dove l’etichetta non fa tendenza, dove la religione è la cosa fondamentale qualunque essa sia, dove un occidentale direbbe che il progresso si è fermato agli anni ’50, qui dove la gente sorride, dove ti dà tutto quello di cui hai bisogno anche se forse ne ha più bisogno di te, qui dove è sempre estate anche nella mente e nel cuore. Qui, sopravvive la forma artistica più perfetta al mondo, quella che unisce musica, canto, teatro, arti visive, improvvisazione, epica, comicità, tradizioni, critica della società, rito, comunione. Questa forma regina delle forme spettacolari, rituali ed esistenziali è il wayang kulit.

L’albero della vita

Mattina del 10 ottobre

Tento disperatamente di accaparrare minuti di sonno prima di recarmi a lezione. Alle 7.00 squilla il cellulare. Mister Udreka mi dà il consueto buongiorno su WhatsApp, più presto del solito, in un giavanese più serrato del solito. Decido che non mi metterò a tradurre a quell’ora del mattino, che si tratti di un incendio scoppiato in aula o semplicemente di un eccesso di attenzioni per me fa lo stesso.

Mi reco a lezione in tutta calma e obietto ai suoi reclami circa la mancata risposta con un più che ovvio: “I can’t understand Javanese yet”. Il giovedì è il turno della lezione base, i miei compagni sono più giovani e gli insegnamenti più comprensibili per me. Imparo forse a maneggiare il benedetto cavallo contro lo schermo con il cavaliere sopra una volta per tutte. Imparo anche una nuova melodia in slendro, e il maestro mi fa provare il saron più piccolo (che si chiama peking), da suonare con note ribattute dunque al doppio della velocità, visto che ho imparato a stare appresso agli altri.

La lezione è decisamente proficua. Dopo esser passata alla biblioteca a ordinare il secondo volume dell’enciclopedia del wayang kulit (piano piano la avrò tutta), torno a casa a morire temporaneamente e a ricaricare le energie per l’ennesima performance serale che si prospetta (ormai sono una habitué). Alle 17.00 ho appuntamento a casa del maestro Udreka. Non ho idea di dove si trovi, eccetto le poche coordinate presenti sulla rudimentale cartina, da lui disegnata sulla prima pagina del mio quaderno. Già mi tengo pronta al peggio.

Imbocco la Jalan Parangtritis in direzione sud fino alla morte, o meglio, fino al secondo semaforo dopo l’ISI. Secondo il navigatore era il terzo. Dopo innumerevoli svolte sbagliate, informazioni nel mio misero bahasa indonesia (che comunque non capiscono, perché qui parlano giavanese stretto), comincia il ‘toto casa’. Nel villaggio perlomeno dovrei esserci, Gotah Suber Agung Jetis, o qualcosa di simile (me lo ricordo solo perché nella mia mente richiama Gotham City).

Per il resto siamo alle solite: capanne, banani, risaie, chioschi dismessi e decadenti dai quali escono polli starnazzanti e vecchietti provenienti da un passato mitico. Comincio a fermarmi ad ogni parvenza di baluardo civile esistente per chiedere dove sia la casa del dalang Udreka, che tutti dovrebbero conoscere. È così, in realtà, ma non lo scopro finché l’ennesimo informatore me lo pronuncia in modo corretto, con la ‘a’ finale che di chiude in ‘o’, perché giustamente il giavanese si pronuncia in modo diverso. Se non altro cominciano a capire quello che gli chiedo. Ora sta a me interpretare i segnali.

Finalmente, dopo l’ennesima svolta senza speranza, intercetto la famosa: “Tower”, sulla quale Pak Udreka ha insistito parecchio. Solo dopo altri giri a vuoto convengo che ‘tower’ corrisponde al traliccio dell’alta tensione. La fantasia è decisamente il mio ingrediente base di sopravvivenza. Giro quindi a sinistra pur nella totale reticenza: trattasi di misera lingua di strada sterrata ricavata tra due campi di risaie. Nel senso che ero in bilico tra due sterminate paludi colme d’acqua, zanzare, cavallette modello 50 special e piantine verdi facenti capolino dalla fanghiglia. La mia vita era in mano ad un Mio Yamaha dalla carena sfasciata e lo specchietto dissaldato.

Ho vissuto momenti brutti.

Tuttavia, dopo metri di divertimento, raggiungo un agglomerato di quattro case in croce. Mi ritrovo invischiata nel solito tour tra un’aia e l’altra, vegetazione a non finire, mucche legate ad aratri e altri attrezzi provenienti non so da dove ma sicuramente non da questa era e staccionate divelte da stagioni delle piogge passate.

Chiedo aiuto a una signora che rimane traumatizzata a vita dall’incontro con me, manco fossi il fantasma di casa Usher, e corre ad avvisare i familiari dell’intrusione nel loro terreno. Mi arriva incontro un tizio seminudo in calzoni sporchi di fango, cappello di paglia e rastrello in mano, accompagnato da tizia in pigiama giallo scolorito con bimba in braccio. Lei parla indonesiano standard. Quasi mi commuovo per la riconoscenza. Per accorciare i tempi le mostro direttamente la pagina di quaderno scritta da Mr. Udreka in persona.

Continuo così a sventolare il quaderno di casa in casa ottenendo informazioni parziali di volta in volta (tipo caccia al tesoro), finché all’ultima non mi risponde la sorella di Udreka in persona, che mi dice che lui è dentro il salotto. Non mi pare vero. A quel punto mi metterei a baciare la polvere e sacrificare galline a Vishnu, ma decido di mantenere un certo contegno ed entrare come se arrivare lì fosse stata la cosa più facile al mondo.

Mi levo le scarpe sull’uscio, come al solito, e prendo posto sul divano in legno e bambù. Mentre aspetto che avvenga qualcosa, mi riempio gli occhi delle meraviglie presenti in casa del maestro. Si tratta di una costruzione in stile tradizionale giavanese, tutta in legno e bambù con tetto spiovente e interno in motivi di bambù intrecciato di due colori. Il salotto in cui sono seduta è in realtà un padiglione enorme che dà sul giardino interno da un lato e sull’aia dall’altro. Il lato aperto sull’aia è l’ingresso principale.

In casa ci sono mobili in legno massiccio, lampade dorate tradizionali che pendono dal soffitto, arazzi con figure del teatro delle ombre alle pareti, strumenti musicali esotici, statue e maschere di divinità indonesiane e reperti tecnologici anni’80-90 sparsi qua e là. Un vecchio televisore a tubo catodico, un computer fisso in un angolo, uno stereo di dubbia funzionalità su un tavolino. Appesi tra un cimelio e l’altro spuntano inquietanti ritratti di famiglia che sembrano locandine di film horror coreani. In fondo alla sala un grande schermo bianco da wayang si staglia tra il pendolo e le poltroncine intarsiate. Per terra, distesi sulle assi di legno, lunghi tappeti di bambù ricoprono l’enorme superficie di quel luogo per me mistico e incantevole, ma che loro considerano usuale e modesto.

La sorella di Mr. Udreka arriva all’improvviso con un vassoio pieno di bicchieri di tè al gelsomino fumante e piatti colmi di fritture di tempe, pollo, tofu e verdure. Il classico tè delle cinque. Voglio fare la modesta ma qua non se ne parla: “Makan, makan” (Mangia, mangia). Come non detto.

Mentre sono intenta ad addentare l’ennesimo triangolino dorato di tempe, ecco spuntare il maestro dal giardino interno, con addosso una maglia batik e una sorta di pareo dalle mille tonalità del porpora. Proferisce parole che non comprendo, tanto per cambiare. Tiro fuori il cellulare e cominciamo la solita tiritera di traduzioni con l’applicazione del dizionario inglese-indonesiano. Credo che abbia capito come dire ciò che vuole dirmi e tiro un sospiro di sollievo, ma non faccio in tempo a riabbassare il diaframma che lui se ne esce con un: “Sorry, I have to go to swim”.

C’è evidentemente qualcosa che non va.

Lo guardo sparire dietro la porta a soffietto con la bocca aperta e prendo il cellulare dal tavolino per controllare l’esatta traduzione del termine. Tra i vari spropositi, salta all’occhio l’idioma: ‘to take a shower’. Sto per esplodere dalle risate, ma mi trattengo.

E così rimango di nuovo in compagnia del cibo, della brocca di tè, di sigarette di ogni tipo e dei galli starnazzanti fuori dall’uscio. Comincia però ben presto ad arrivare altra gente, sono i musicisti che prenderanno parte alla performance e le sindhen, le stupende cantanti giavanesi nei loro sgargianti e preziosi abiti tradizionali. Nessuno ovviamente parla un’acca di inglese ed esaurite le conoscenze base da prima lezione più frasi a caso imparate qua e là, piombo in un baratro di solitudine ed incomprensione. Più arrivano persone, più il brusìo di espressioni impenetrabili cresce e si amplifica intorno alle mie povere bistrattate orecchie.

Quando il dalang ha finito la sua ‘nuotata’, si riunisce a noi e ricominciano le presentazioni. Durano pochissimo tuttavia, hanno altro da fare, devono prepararsi allo spettacolo. A parte uno dei musicisti che continua a ripetermi la parola: “Banana”, soddisfatto che io gli risponda ogni volta: “Pisang”, tipo scimmietta ammaestrata. Per il resto, ognuno si mette a svolgere i propri preparativi, perdendo ogni interesse per la ‘bule Italì’ (la bianca italiana, ci siamo definitivamente sbarazzati della California).

Uno dopo l’altro i suonatori cominciano ad indossare gli indumenti da scena: il sinjang sotto, il surjan sopra, il blangkon in testa e il keris (pugnale) dietro la schiena per il dalang. Qualcuno nel frattempo fuma, qualcuno mangia o beve, le sindhen si agghindano di orpelli luccicanti e si ricoprono di quintali di fondotinta. Un vecchino suona lo slenthem adagiato accanto l’ingresso, per passare il tempo. Anche se il passatempo più gettonato è lanciarmi occhiatine e prendere in giro i miei modi occidentali, tipo la deplorevole abitudine di lavarsi le mani con l’amuchina. Hanno anche un che da ridire anche sui miei sandali. Perché qua se non vai scalzo anche dentro il vulcano sei davvero una persona maleducata.

Finiti i rituali di preparazione il dalang distribuisce ad ognuno un foglio con su scritto un testo in giavanese. Vorrei fargli una foto ma non faccio in tempo perché una delle sindhen me lo leva da sotto gli occhi. Tuttavia, riesco a vedere il titolo, è qualcosa come kangge ibu waranggana (per le donne cantanti). Recitano tutti insieme una preghiera di buon auspicio seduti a terra e pare siano pronti. Montiamo tutti sulle Toyota multiposto, io vado in quella principale con Mr. Udreka e le sindhen. Mi sento una VIP.

Arriviamo verso le sette nel centro di Yogya, in una enorme piazza gremita di carretti ambulanti nella quale è allestito il magnifico palco. Qui si terrà l’ultimo spettacolo di wayang del festival iniziato circa una settimana fa. Varie performance di danza aprono la serata, mentre tutto il gruppo si mette seduto in disparte nell’attesa, intento nella sua attività preferita: makan. Ne approfitto per fare un po’ di foto in giro.

Dopo un po’ mi stufo e mi metto a sedere su un gradino, accanto ad un venditore di noccioline letteralmente stramazzato dietro il suo carretto. Manco riesco a rimettere la macchinetta nel fodero che si avvicina uno dei musicisti con due scatole di cartone in mano e l’aria tutta sorridente: “Makan, makan”.

No, di nuovo.

Accetto l’offerta come al solito e poso le scatoline vicino alla borsa, nell’attesa che lui torni al suo posto. Niente, rimane vicino a me e controlla che pulisca fino all’ultimo chicco di riso. Mi procura anche un’altra porzione del suggestivo dolce multicolore (rosa, verde e beige) che pare io abbia apprezzato molto.

Finalmente è tempo di iniziare lo spettacolo di teatro delle ombre, tutti salgono sul palco ed io mi metto comodamente in prima fila, con la camera posizionata sul cavalletto, in attesa che finisca la lunga presentazione preliminare. Dura mezz’ora, preghiera delle 21.00 inclusa.

Alla prima nota del brano d’apertura clicco il pulsante e mi abbandono beata sulla sedia. Resto in pace cinque minuti esatti. Uno della troupe si avvicina e mi fa cenno di seguirlo, sul palco. Ogni protesta accorata è inutile, non capisce, ma soprattutto, non demorde. Mi piazzo dietro al dalang, tra il gong e il baule di marionette. Ovviamente, la batteria della Canon decide di essere scarica nonostante non l’abbia usata negli ultimi due giorni. Sarà diventata rossa dall’imbarazzo. Sono in mezzo all’orchestra, potrei filmare e fotografare quello che voglio come voglio e quando voglio, e tutto ciò che riesco a fare sono tre video e una decina di foto. Vorrei darmi fuoco tipo Hanoman. Mi metto l’anima in pace e mi metto a seguire lo spettacolo annotando di tanto in tanto quello che credo possa essere utile, spalla a spalla col suonatore di gong.

Dopo un po’ arriva a farmi compagnia Utami, l’allieva di Mr. Udreka aspirante sindhen che la volta scorsa non aveva fatto altro che riempirmi di complimenti e passare tutto il suo tempo in adorazione della mia pelle bianca e del mio viso. Persiste indisturbata nelle sue attività, mentre io mi godo la performance tra un tè e l’altro.

A un certo punto succede ciò che temevo più dell’eruzione del Merapi: arrivano le ennesime scatole di cibo, colme di dolcetti, noccioline e quant’altro.

“Makan”.

Mi riprometto di celebrare il prossimo digiuno del Ramadan come mai nessun vero islamico ha fatto.

Le sindhen
Offerte

Le ore passano, l’orchestra suona, il dalang muove le figure in pelle contro lo schermo tra una narrazione epica, una battaglia, e uno scambio di battute tra i personaggi. Poi arriva il momento dello sketch comico, ed ecco tirare fuori dal baule i personaggi punokawan. Ho il terrore ogni volta che li vedo, perché so già che prenderanno di punta me. Come volevasi dimostrare, accade. Tra il flusso di parole in giavanese recitate in buffi accenti e accompagnati da scrosci di risate, percepisco perfettamente le parole: “Ilari” e “Itali”. Non fa una piega.

Dopo la solita bella figura, decido di seguire la mia amica per un caffè e una sosta in bagno. Entriamo furtive nella moschea adiacente l’allestimento da un cancelletto laterale e ci intrufoliamo nelle toilette. Mi sento fluttuare in un lago di non so che liquidi (e non mi premuro di scoprirlo) distribuito equamente sulla superficie di mattonelle incolore, con comoda vasca d’acqua e ciotola in funzione di scarico. Se non altro non c’è neanche luce, occhio non vede…

Verso le due del mattino comincia il consueto esodo e la platea si svuota. I musicisti cominciano a perder colpi, il suonatore di gong si accascia sul gong ageng, il suonatore di saron si accascia sul suonatore di gong, le graziose sindhen divorano scodelle di zuppa e il dalang stesso continua a consumare sigarette e bevande energetiche mentre manovra senza sosta le marionette.

Alle quattro circa, in concomitanza con la cantilena della preghiera mattutina, la lunghissima performance ha termine. Non c’è rimasto nessuno per fare gli applausi. Tirandoci su con la freschezza e l’agilità di dinosauri sedati, cominciamo ad avviarci verso le macchine. Ma prima c’è un contrattempo: “Makan”.

Siete pazzi.

Infilo in bocca due cucchiai di riso giusto per farmi vedere indaffarata e mi sbrigo a montare in macchina. Mentre mi chiedo come diamine farò a tornare a casa senza perdermi a quell’ora e con sette ore di wayang kulit alle spalle, arriva la risposta dal maestro: posso dormire da lui. Non c’è verso che riesca a rifiutare.

Arrivati alla dimora mi siedo nel salotto in preda all’imbarazzo totale, aspettando istruzioni. Mr. Udreka mi conduce in una stanza aperta che dà sul giardino interno, tra la sua camera e la cucina. In realtà è una sorta di stanzino con una serie di mobili messi lì, del cibo lasciato sulle mensole, suppellettili e una vecchia TV. Per terra c’è solo cruda moquette e un consunto cuscino. Mi fa cenno di prender posto per terra. Credo stia scherzando. Non scherza.

Poso la borsa e mi genufletto, ma più in atto di preghiera che altro forse, e mi guardo intorno confusa. Non sta accadendo davvero, non sto per dormire per terra in balìa di ogni sorta di animale notturno, senza poter usufruire di cose come un bagno, un cambio o un materasso, per esempio. Il maestro mi dà la buonanotte tutto sorridente e si ritira nelle sue stanze. Mi scuoto momentaneamente dallo shock e decido di andare perlomeno in cerca del bagno. Poi mi ricordo che sono scalza. Passo momenti difficili ma riesco a sciacquarmi il viso, esco e mi ritrovo occhi puntati addosso in preda allo stupore. Mi fanno notare che quello era il bagno dei maschi.

Torno alla mia postazione decidendo che l’unico modo di dimenticare tutto ciò è dormirci su, e mi adagio su un fianco per la gioia delle mie anche. Dopo che quasi riesco a prender sonno, odo rumori di passi intorno alla mia testa. Come fossimo ad una mostra di meraviglie dal mondo, fungo da attrazione principale del corridoio. È cominciata la sfilata alla teca della bella addormentata nel bosco, solo che lei ha dormito cent’anni, io quattro misere ore.

Makan!

Mattina dell’11 ottobre

Alle otto e mezza apro gli occhi. Li richiudo. Li riapro. È tutto vero. Mi metto a sedere intorpidita e incriccata come avessi passato la nottata a fare rock-climbing. Mr. Udreka mi passa davanti nel suo pareo sgargiante, indicandomi di seguirlo in salotto: “Makan”. Ci mancherebbe altro.

Mi siedo sulle poltroncine taglia 15-16 anni e riesco per la prima volta a rifiutare qualcosa. Le Djarum Super di prima mattina proprio no, sono disposta a lottare mani nude nel fango, se necessario. Non riesco ad usare la stessa verve nell’impormi contro le banane fritte. Così, con le ossa ridotte a mattoncini del tetris dopo una partita persa, lo stomaco in rivolta come ci fossero degli hooligans e con innumerevoli colonie di germi a seguito, monto trionfante sul mio destriero e seguo il maestro che gentilmente mi scorta fino alla Jalan Parangtritis, evitandomi di perdere le ultime risorse vitali in cerca del Graal tra i banani.

Prima di tornare a casa passo per l’ISI a ritirare le fotocopie ordinate in biblioteca. Con mia grande sorpresa l’enciclopedia non solo è pronta, ma è magnifica. La rilegatura consiste nella copertina stessa del libro, a colori, identica all’originale. Contentissima del mio trofeo, finalmente torno alla mia Itaca e dopo una doccia inimmaginabile, muoio.

Mi risveglio solo alle tre del pomeriggio, decisamente più pulita, riposata, ma senza un briciolo di fame. Daniel mi propone di andare sulla collina a est di Yogya per vedere il panorama e magari restare a vedere il tramonto. Mi lascio trascinare dagli eventi. In effetti ne vale la pena, la città dall’alto è magnifica e vedere il cambio di luce e di atmosfera sorseggiando un cocco fresco in una capannetta in cima al dirupo non ha prezzo.

Bukit Bintang (la collina delle stelle)
Cocco con vista

Dopo circa due orette ci dirigiamo verso il centro della città e faccio il ‘gioco degli alberi’.  Secondo un’antica leggenda, ci sarebbe un incantesimo grazie al quale chi non è puro di spirito non può riuscire a passare attraverso i due enormi alberi situati nel centro di una delle due piazze principali di Yogya (l’Alun-alun Selatan). In pratica bisogna posizionarsi ad una certa distanza, davanti al palazzo reale, proprio nel centro dei due colossi, bendarsi, assicurarsi che ci sia qualcuno che eviti di farti scontrare con gente, colonne e carretti, e cominciare a camminare diritto. La sfida è proprio quella.

La maggior parte delle persone, me compresa, intraprende deviazioni a destra o a sinistra, nei casi più pittoreschi tornando indietro o facendo giri improbabili. Io continuo a girare a sinistra poco prima di uno degli alberi, come se gli addetti alle ferrovie avessero deviato il mio binario. Il trucco non è allineare i piedi, né star diritto con le spalle, né darsi al calcolo di asintoti e rette tangenti e robe simili. Il trucco è non pensare. E difatti, l’unica volta che ci sono quasi riuscita (ero proprio al limite del muro di cinta dell’albero, dentro per un centimetro misero) è stato proprio quando mi sono lasciata andare senza pensare alla gente, alla direzione o ai miei passi.

Tempo di un ronde jahe caldo, ci dirigiamo verso la famosa e rinomata Jalan Malioboro: la Via del Corso Yogyanese. Parcheggiamo il motorino e cominciamo il dolorosissimo struscio lungo le bancarelle batik. Metri, metri e ancora metri di tessuti colorati e articoli di ogni sorta dalle mille meraviglie. Non faccio danni, sia perché non voglio che Daniel veda quanto sono capace di spendere (è pur sempre il mio padrone di casa del resto, anche se mio amico, la prudenza non è mai troppa) sia perché comunque sono in chiusura. Ho sei mesi di tempo per risollevare l’economia indonesiana.

Malioboro è magnifica: luci, colori, musicisti di strada, frastuono di ogni tipo, mezzi di trasporto dalle fattezze più impensate e architetture esotiche intervallate da insegne di centri commerciali dai nomi richiamanti vecchie figure mitiche, con liste di marchi sconosciuti. Uniche isole occidentali: un Bata e un McDonald’s.

Senza contare i chioschetti e carretti ambulanti da ogni dove, ristoranti tipici e informazioni turistiche ad ogni angolo. Qua ti chiedono persino ‘permesso’ in inglese. Questo è il lato che apprezzo di meno. Daniel si mette a ridere perché faccio smorfie di disapprovazione quando vedo qualcosa di troppo turistico e dico: “Bule” ogni qualvolta vedo un bianco. D’altronde, dopo aver dormito su un pavimento a Sumber Agung Jetis, mi sento un po’ meno ‘bule’.

Sulla via del ritorno notiamo una gran folla ammassata davanti ad un enorme palco pieno di proiettori e telecamere e ci fermiamo a vedere di che si tratta. Sono le prove dello show serale della TV locale, una delle cose più trash che abbia mai visto. Rimango a vedere indubbiamente. Si tratta di un mix di arti tradizionali, pop blando e innesti techno-mix-afro-cubani con un pizzico di rock qua e là. Partono da una danza tradizionale a tema Mahabaratha per finire a uno stacchetto stile Bagaglino.

C’è anche un dalang in tutto ciò, non è famoso mi spiega Daniel, per questo si presta a questo genere di performance, dato che la TV è l’unico mezzo ormai per fare arrivare ai giovani pillole di cultura tradizionale, bene amalgamate in un impasto di spazzatura. Un po’ come per farti prendere la tachipirina da piccolo insomma. Trovo molto interessante questo aspetto e mi riprometto di approfondire le ricerche.

In tutto ciò mi viene fame, quindi ci fermiamo ad un ristorante che sembra molto invitante e mangio un piatto di verdure miste con pollo cotte in salsa di soia, davvero saporite. Daniel mi fa provare anche il vino rosso locale, che trovo dolcissimo e molto poco alcolico anche se gradevole. Lo considero una buona variante di succo d’uva.

E finalmente giunge l’ora del riposo che, dati i fasti dei giorni trascorsi, forse sarà eterno. Ogni volta che chiudo gli occhi su una giornata qui mi sembra di stare morendo e rinascendo in una reincarnazione successiva.