«Casa, per me, era uno spaccio militare o una banchina ferroviaria con tanti zaini ammucchiati».
(Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza)
15 luglio 2013
Ore 12.08
Punto fuoco in riva al lago
Chilometro 60
Siamo arrivate alla frutta, anzi, forse, anche all’ammazzacaffè, o alle noci schiacciate durante una partita a briscola coi parenti.
Questi ultimi dieci chilometri ci hanno letteralmente ammazzate: dirupi ed erte quasi verticali, strapiombi sul fiume tra sassi, paludi ed erba fino alle spalle… forse quei due avevano ragione. Il percorso è passato dallo struscio a via Condotti a Salvate il soldato Ryan. E, ovviamente, quando pensavamo di aver raggiunto un rifugio, le indicazioni fasulle hanno trasformato i due chilometri mancanti a quattro… a scale. Rampe su rampe di scale fino al punto panoramico più alto del parco. La maledetta deviazione (non segnalata) al belvedere: circa duemila gradini in legno, pietra e terriccio che non finivano più, credevo che saremmo sbucate in paradiso.
Dopo l’ultima avvincente scarpinata mattutina, possiamo contare all’attivo, complessivamente: tre caviglie storte; un ginocchio slogato; quattro anche sbilenche; quattro spalle sull’orlo della slogatura; prurito compulsivo causa pizzichi di diversi animali, alcuni dei quali ancora non ben identificati; lividi modello Carica dei 101; vasta gamma di vesciche in più punti delle piante dei piedi; saltuari giramenti di testa (acquisto dell’ultimo chilometro); schiene infiammate e ricurve.
Decidiamo, pertanto, all’unanimità, che il percorso per noi finisce qui. Passeremo l’ultima notte alla casetta distante un chilometro (speriamo) da qui e domani salperemo per l’estrema Lapponia o torneremo giù ad Helsinki.
Questa sosta, in realtà, non era programmata, o meglio, era programmata per la notte. Ma dopo aver scoperto che si tratta dell’ennesimo punto fuoco con deposito legname, senza uno straccio di rifugio, abbiamo gettato tutto a terra e ci siamo auto-ammutinate. Si pranza qui, buttate ai piedi di un albero tra terriccio umido, aghi pungenti e resina, alla faccia di quelle comode panche a soli cinque metri.
Il cartello recita placidamente MILYKOSKY 1,1 KM. Una famiglia di turisti con sei bimbi biondi (entrati probabilmente dall’entrata di questa tappa con un Campo Base che, quindi, non può essere così lontano) ha appena consumato un salutare pasto a base di pasticci di pasta e caramelle. Il nostro tè bolle sulla griglia del focolare, nel suo tegame color fumo di Londra. Senza invidia. Fra è in reparto rianimazione, distesa a stella marina sullo zaino, con un bimbo che la osserva accigliato.
Appena arrivate qui, le cose sono andate più o meno così:
Me (gettando tutto a terra e gettandomici sopra a mia volta senza la minima grazia): “Mi gira la testa”.
Fra: “Vuoi una barretta ai cereali?”
Me: “Mah… si dai…”
Dopo un po’.
Fra: “Va meglio?”
Me: “Si”
Fra: “Ne vuoi un’altra?”
Me: “Mah… si dai…”
Dopo un po’.
Me: “Fra, vuoi un pezzo di cioccolata ai frutti di bosco?”
Fra: “Mmh… perché no?”
Me: “Un pezzo di piadina?”
Fra: “Una fetta di prosciutto?”
Me: “Stiamo a pranza’?”
Fra: “Vai a mette su i wurstel…”
Strada facendo abbiamo visto un’altra renna.
Cioè, ce la siamo ritrovata proprio davanti, muso a muso. Appena ci ha viste ha cominciato a trotterellare via facendo passetti vaghi, continuando a tenerci d’occhio. Era bellissima, le corna sembravano di velluto!
I pescatori alla fine sono rimasti a pescare fino alle tre del mattino, ma sono comunque tornati indietro due o tre volte per ravvivarci il fuoco – mi sveglio attorno all’una e quaranta in preda ai sudori, mi giro e vedo una fiamma altissima accanto a me, per poco non ci rimango secca – che gentili. Noi ce ne siamo andate silenziosamente verso le sette e mezza, mentre ancora dormivano.
Ovviamente, non poteva mancare il disguido giornaliero. Ieri avevo pensato bene di piazzare le scarpe su un tronco in riva al fiume, ad asciugare (N.B. anziché vicino al fuoco). Stamattina, quando sono andata ad indossarle, m’è preso un coccolone: fradice, zuppe fino all’ultima cucitura. Ho provato a metterle al sole mentre facevamo colazione (cioè, ingurgitavamo wafer al cioccolato e menta e biscotti al miele), senza la minima speranza che si asciugassero in quei dieci minuti. Dopo aver provato ad asciugarle con lo scottex (che ormai è l’asciugacapelli ufficiale di Fra) mi sono arresa. Ma Fra ha avuto un’idea geniale: “Mettiti delle buste di plastica come calzini”.
E così, zoppicante, dolorante, infagottata come tuareg del Sahara, l’armata Brancaleone è ripartita per l’ennesima tappa… con delle buste di plastica infilate nelle scarpe fradice di una delle componenti perché, ricapitoliamo, la sottoscritta ha tentato di lavarle al fiume dopo che si erano incrostate di fango della palude in cui lei si è tuffata per recuperare la barca che ha preso senza saper manovrare rischiando la vita ad un passo dalle rapide e, non contenta, ha preteso di farle asciugare durante la notte al freddo umido del fiume in una foresta lappone.
(Da leggere sulle note de La fiera dell’est).
Aggiornamento delle 13.08
Abbiamo appena degustato un tè Lipton Energize all’arancia (proveniente dalle scorte russe) che ci ha messo un tempo di ebollizione di circa trenta minuti.
Mentre eravamo intente a sorseggiarlo, attingendo direttamente con le tazze al pentolino pieno di aghi di pino e terriccio, adagiate sempre sullo stesso albero, decido che non posso non immortalare questo momento con una foto. Mi giro per chiedere il favore al signore seduto sulla panca vicina. Cioè, gli mostro la macchinetta e gli mimo il gesto di scattare una foto. Lui, di risposta, alza la sua, nel cui schermo si intravede la nostra foto, ed esclama: “Very good!”.
Immortalate dai turisti come fenomeni da baraccone, riscuotiamo più successo delle renne.
Direi che abbiamo decisamente toccato il fondo.
Un chilometro dopo
Milykosky
Casetta tipo Mulino Bianco sulle rapide
Siamo in un posto mozzafiato.
C’abbiamo rimesso la milza e diversi muscoli stirati ma davvero non poteva valerne di più la pena. Sarei disposta a giocarmi anche l’ultima caviglia sana (non diciamolo troppo forte).
Fra è ‘a fare il bucato al fiume’, io sistemo i bagagli in una stanzetta al piano di sopra di questa deliziosa casetta-mulino che affaccia sulle rapide. Ci sono un po’ di turisti passeggeri (oggi, credo, sia domenica) che entro un’ora saranno a casa e ci lasceranno tutto questo bendidio.
Nel frattempo, lasciamo i bagagli pesanti nella stanzetta e ci dirigiamo al Campo Base che è a due chilometri da qui, ma senza zaini è tutta un’altra storia. Dobbiamo assolutamente reperire cibo e farci una doccia.
Ore 16.49
Tavolino sulla terrazza belvedere del Campo Base
“E il terzo giorno egli è resuscitato secondo le scritture…”.
Non ci sono parole per descrivere il senso di leggerezza e beatitudine che stiamo provando in questo momento. Abbiamo raggiunto il Campo Base e, dopo due o tre tazze di caffè, due tazze di latte e fette di pane di ogni tipo (in parte trangugiate e in parte intascate dal buffet), siamo entrate nell’eden: la sauna. Per otto meritatissimi euro, un’ora di sauna. Ma soprattutto, prima della sauna, la doccia. Una lunga attesissima doccia… col Lisoform. Non ho resistito. L’avevo portato pensando (ingenuamente) di utilizzarlo per sterilizzare tutti i piani d’appoggio sui quali avremmo mangiato (tavolini di treni e fast-food… bagni, pavimenti…), ma ovviamente ciò non è mai successo.
Quindi, ho pensato di darmi una bella strigliata (tre passate, per la precisione) per neutralizzare tutto ciò che mi porto appresso da giorni. Ho avuto persino il piacere di utilizzare lo shampoo, alla menta (che se va in bocca neanche me ne accorgo, ha lo stesso sapore dei biscotti), e il sapone. Ho lavato anche l’anima. Sono anche riuscita a togliere la fuliggine dalle unghie, non ci speravo più, mi ero rassegnata a un french naturale. Dopo non so quanto tempo lì dentro siamo letteralmente resuscitate.
Anche qualche altra cosa è resuscitato: i miei pantaloni, gli ultimi rimasti anche se già messi più volte ed in condizioni disdicevoli. Mi sento tanto Terence Hill in Lo chiamavano Trinità. In compenso, ho ufficialmente buttato l’ultimo paio di calzini e Fra una sciarpa (usata più che altro come straccio multiuso). Sono però riuscita a reperire della biancheria ancora pulita e un maglioncino in buone condizioni (reduce dalla strage a casa di Noora). Non intendo assolutamente rimettermi le scarpe fradicie, che ho accuratamente legato alla borsa, a fianco all’asciugamano che sbuca dalla tasca anteriore. Il Lisoform comunque fa il suo effetto, non sento più pruriti.
Dato che qui non hanno cibo (eccetto delle mele gold… cioè nel senso proprio fatte d’oro, da 50 centesimi l’una) credo che andremo all’altro Campo Base sull’altra sponda del lago, in ciabatte, neanche a dirlo.
Non vediamo l’ora di tornare a riposare alla nostra graziosa dimora da tre camere e punto fuoco, ampi servizi (una baracca di legno con buco in pizzo al dirupo), mulino abitabile, vista fiume. Abbiamo deciso di stanziarci qui finché Sofia non ci farà sapere qualcosa riguardo la Lapponia.
Si torna alla vita agiata. Stasera festa di inaugurazione con zuppe di cibo avanzato!
Ore 18.06
Suite matrimoniale con palco in legno doppio della casetta-mulino
Alla fine abbiamo rinunciato all’altro Campo Base e ce lo siamo lasciato come prima commissione mattutina, da brave casalinghe. Siamo quindi tornate a ‘casa’, percorrendo un chilometro di sentiero boschivo conciate nel modo seguente:
FRA
MODA DONNA SUMMER, INVERNO A FREGENE
– Pantaloni larghissimi da pescatore
– Felpa di varie misure più grande
– Infradito
– Asciugamano al collo
– Busta della spesa con stampa di una tavoletta di cioccolato
ME
MODA NOMADE, INVITO IN CAROVANA
– Pantaloni (sporchi) color senape, arrotolati alle caviglie
– Infradito color arancio shock con calzino lilla
– Maglioncino verde bottiglia a righe lilla
– Capelli bagnati sciolti
– Borsa di tela con scarpe zuppe appese
Abbiamo trascorso attimi di intensa vergogna incrociando due alpinisti con tutine ergonomiche nuove di zecca, appena usciti da una reclame di articoli sportivi.
Appena tornate alla casetta c’è preso un colpo: frotte di turisti della peggior specie (famiglie con bambini molesti e cani) a bivaccare al ‘nostro’ focolare e curiosare nella ‘nostra’ alcova. Corro subito su alla stanzetta per chiudere la porta… che non ha serratura.
Una tavola di legno che oscilla qua e là tra dolore e noia.
Dunque, mi sono ingegnata con lo spago, alcuni elastici e un manico di scopa (che qualcuno aveva lasciato, senza scopa). Non entrerò negli intricati dettagli dell’ingegno. Poi, in attesa che gli ospiti levassero le tende, ci siamo messe a fare qualcosa che non desse troppo nell’occhio…
…il bucato… nelle rapide.
In totale desabille, ciabattando dentro e fuori con mucchi di calzini, mutande, leggins e mollette fuxia (che io mi sono portata appresso per tutto il viaggio), ci piazziamo sul molo a sciacquettare i nostri panni tra i turbinii d’acqua, per poi stenderli sulla corda a cui era assicurato un salvagente di emergenza, tesa tra la balaustra e la tettoia. Se non altro, tutto ciò è servito a terrorizzare i turisti, che hanno schiodato definitivamente le tende.
Giusto ora è entrata Fra esclamando con voce piena di giubilo: “Siamo padrone del maniero!”. Cominciamo a preparare il banchetto.
Che inizino le danze.
Ore 20.40
Sacco a pelo
Stanzetta al primo piano con vista focolare e bosco
Sembriamo Heidi e Clara nella baita del nonno.
Fra legge davanti al fuoco mentre l’acqua bolle nei tegami. Io corro come una forsennata per i sentieri intorno la casa a fare legna (sempre in ciabatte).
Dopo averne racimolato una bella catasta, giustamente, ha iniziato a piovere.
Consumiamo dunque il nostro pasto serale (alle sette e mezza di pomeriggio) a base di zuppa a caso e zuppa di polpette arrostite, nel salone interno, tra gli ingranaggi del mulino e il tavolo.
Un signore (ultimo impavido rimasto) ha salito le scale e, ritrovandosi cotanto spettacolo davanti (due pazze in abiti da casa che consumano zuppa di polpette circondate da calzini appesi) è indietreggiato di colpo fino ad inciampare.
La seconda parte della cena l’abbiamo passata a cercare di sostituire lo spago della porta che continuava a rompersi. Nessuno dei compagni d’armi pare sia ancora arrivato qui (né i pescatori, né la signora della pasta e whisky, né il signore che legge). Forse perché, in effetti, abbiamo fatto una deviazione dal sentiero principale, dirigendoci verso una delle entrate/uscite del parco, in prossimità del Campo Base. Questo spiega anche l’afflusso spropositato di turisti della domenica.
Quindi, in pratica, ci troviamo sole solette in una grande casa sulle rapide, con una tavola di legno chiusa con spago ed elastici al posto della porta, in balìa di qualsiasi cosa. Ma ci sono sempre il mio fido coltellaccio e gli attrezzi da falegnameria. Di questo passo diverremo delle serial killer psicotiche che faranno strage di turisti nei boschi, a cui i media sensazionalistici affibbieranno un qualche nomignolo che passerà alla storia:
LE BABA YAGA DI OULANKA!
Già me lo vedo.
Nel tentativo di trovare qualcosa di utile per chiudere la porta, ho anche fatto un giro nei locali del piano di sotto, ma ho trovato solo una padella sporca di sugo, un cartone di succo al lampone vuoto e una busta della spazzatura appesa dietro la porta. Di tutto quello che Fra ha trovato nel bosco non c’è niente di utile (a parte lo spago). Io oggi ho trovato un pentolino abbandonato su uno dei bracieri, ma temo serva a poco per i nostri scopi.
Ora dovremmo cercare di rilassarci, magari leggendo un po’, anche se la luce è bassissima… dentro.
Fuori, come al solito, sembrano le tre di pomeriggio.