Voci dal nord

Capitolo 16 – Un giro in barca

«Lo stato di bisogno mi ha fatto capire meglio la temperatura umana dei luoghi, le difficoltà sono diventate racconto e il viaggio si è fatto da sé senza bisogno che programmassi nulla».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

13 luglio 2013

Ore 11.35

Legnaia su una palude
Circa il ventesimo chilometro, in teoria, ma la cartina non torna
Andiamo bene

Dovremmo aver percorso quattro chilometri da quando abbiamo lasciato la casetta.

In realtà, consultando la cartina, questa legnaia non risulta, ma al suo posto compaiono un rifugio con un ponte. Trovandoci al confine russo, cominciamo ad avvertire lievi crampi di timore.

Approfittiamo di questa pausa per rilassare i muscoli e le ossa, ancora distrutti dalla marcia di ieri e dalla nottata sul legno massello. Continuo a navigare tra cadaveri di zanzare schiacciate per sbaglio (ormai come mi muovo ne faccio secca qualcuna). Sono ovunque: addosso, sulle dita, tra le pagine del diario, non se ne può più. Siamo talmente doloranti che Fra non riesce neanche a ridere per il dolore alle costole. Abbiamo dormito otto o nove ore di fila (che è più di quanto si ottiene sommando le ore di sonno di tutta la settimana) svegliandoci verso le nove, in stato comatoso, sul legno che sembrava più duro della sera prima, ma decisamente ristorate.

Per inaugurare la bella giornata, decidiamo di farci un bel caffè in polvere… ma non solubile (maledette scritte in russo). Quindi, decidiamo di farci un bel tè (offerto dalla mensa di Kaustinen) con vari biscotti. Nel frattempo, ci godiamo la scena delle faccende mattutine della coppia della stanza a fianco: lui tenta di far entrare un pacco grosso quanto un neonato nello zaino stracolmo. Lei si mette a far bollire fiori e foglie appena colti, dimenandosi tra set di pentole e tazze sparse tutt’attorno (tipo televendite Mediaset). Dopo aver degustato la salutare tisana della signora, si ingurgitano un bel piatto di pasta…

Prima di ripartire, lasciamo i bagagli ingombranti nella baita e andiamo a visitare i canyon, che la mappa indica vicini al sito. Tempo di fare qualche foto sugli strapiombi (sempre a un passo dal rimetterci la pelle) e torniamo a recuperare i bagagli. Prima di rimetterci in marcia, decido che ho il bisogno irrefrenabile di farmi una foto sul tetto della baita, dunque, salgo su un’allettante scaletta di legno (l’avevo puntata da ieri) e porto avanti l’iniziativa. L’ultima incombenza è il sentito addio al maglioncino fuxia di Zara, che mi ha abbandonato gloriosamente dopo anni di fedeltà (dal liceo), compagno di avventura degli ultimi cinque giorni in bar, fast-food, trasporti pubblici e quant’altro. Lo lascio appeso ad un gancio della baita, e mi allontano con una lacrimuccia di rimpianto (“Secondo me si rimette in marcia da solo e arriva alla prossima tappa prima di noi” Fra, che ci ha quasi rimesso una costola per riderci su).

A questo punto, si riparte.

Se non trova un dirupo non è contenta
Mattina ad Oulanka
L’escursionista sul tetto
Addio, mia bella addio!

Ore 14.30

Radura nel bosco
Pausa pranzo

Piove. Magnifico.

È passato poco tempo, ma di cose interessanti ne sono successe. Una in particolare. Dopo la sosta al capanno del legname, ci rimettiamo in cammino… ma dura poco. Proprio dietro l’angolo troviamo un magnifico ponte tibetano con vicino una casetta, una capanna, dei servizi ed un altro deposito di legname. Stiamo per ripartire quando la mia attenzione è attratta da qualcosa: una barca.

Attraversamenti
Veduta sul fiume

Ma dovrò continuare dopo il racconto, causa pioggia incessante…

Ore 23.00 circa (“Fra crede”)

Piano di legno in casetta di legno
Tappa di Anjaankempi (non è vero, è qualcosa di simile che non so scrivere)

Chilometro 36

Urge la dovuta considerazione che ci siamo sparate trentasei chilometri in trentasei ore. Tra un po’ ci immatricolano e ci mettono una targa. 

Stacanovisti del trekking

Ricomincio il racconto da dove l’ho interrotto oggi. Dicevamo… in procinto di andare via dalla nuova casetta scovata, io vengo irrimediabilmente attratta da una barca adagiata sulla riva. Dunque, sento l’irrefrenabile bisogno di andare ad accertarmi che sia libera e funzionante. Poi scatta l’ideona: “Fra! Facciamo un giro in barca”. Segue occhiata perplessa ed estremamente accigliata di Fra: “Ma la sai portare?”. Ovviamente no, ma, in fondo, penso che: “È una barca, basterà remare…”.

Ergo: siamo quasi morte. 

Posati gli zaini a riva, caliamo la barca in acqua con non poco sforzo, non so come né perché, e finiamo nel mezzo del fiume. Il mio entusiasmo viene rapidamente smontato da una serie di constatazioni inconfutabili e assolutamente sfavorevoli:

A. Non siamo assolutamente capaci. Non riusciamo a coordinarci con i remi e la barca comincia prima a girare su sé stessa, poi ad andare un po’ ovunque, tranne dove vogliamo noi.

B. C’è una corrente fortissima che rischia di farci finire in Svezia in pochi minuti.

C. La mia macchinetta fotografica ha deciso che le pile sono scariche, quindi niente foto, o meglio, solo una (che l’unica magrissima consolazione).

D. Soprattutto, ci sono le rapide a pochi metri.

Dopo diversi giri fallimentari e l’ansia crescente, facciamo di tutto per avvicinarci alla riva ed attraccare, ponendo fine alla nostra carriera di barcaiole… per sempre. Ma, in effetti, il problema è soprattutto quello. Diamo vita ai migliori sketch alla Stanlio e Ollio nel tentativo di raggiungere una qualche sponda (possibilmente quella da cui siamo venute), ma continuiamo solo a fare giretti su noi stesse mentre la barca viene sbattuta qua e là, schizzando da una frasca all’altra come una trottola impazzita, finché non si incaglia tra i giunchi. È una situazione paradossale: sbattute a pochi passi dalla riva, e bloccate lì senza poterla raggiungere, con il rischio che, se disincagliamo la barca, rischiamo di finire di nuovo al centro del fiume o, peggio, in bocca alle rapide.

Rimaniamo per alcuni istanti a mollo, non sapendo più che fare. Fra con i remi in mano in posizione strategica per non perdere la stabilità, io attaccata ad un legno che sbuca tra i giunchi con entrambe le braccia, per evitare di far allontanare la barca. Poi decido, è ora di dare una svolta alla situazione: “Fra, scendo io e la tiro a riva”. Non faccio in tempo a mettere un piede giù dalla barca che affondo nella melma fino sopra al ginocchio. Inutile dire che il fondo sembrava più basso. Ma non mi perdo d’animo: continuo a sguazzare nel fango finché non raggiungo un punto in cui il terreno è più solido, quindi mi aggrappo alle sterpaglie e mi tiro fuori facendo leva (molto, molto poco dignitosamente).

Ma rimane un problema: Fra. Lei mi guarda con occhi di odio misto a terrore dalla barca, ancora incagliata lì in mezzo, con i remi ancora in mano. Un magone mi assale per il senso di colpa di averla trascinata lì, e mi ingegno a trovare una soluzione per tirarla fuori. Nel pieno del delirio, mi viene l’ennesimo scatto di genio, e urlo a gran voce: “Fra, aspetta, vado a prendere la passerella”.

Ottengo solo più perplessità, totalmente palesata dalle pieghe del suo volto.

Corro al deposito legname, mi carico sulle spalle un tronco enorme e corro a posizionarlo tra la riva e la barca. Ci arriva per un pelo. Evito così che lei si tuffi e venga risucchiata dalla fanghiglia, come la sottoscritta. Per fortuna funziona, il tronco assolve la sua funzione di passerella, prima di venire miseramente risucchiato dal mostro della palude e scomparire tra melma e sabbie mobili.

Si susseguono diversi minuti di silenzio pregni di significato.

Poi Fra rompe il ghiaccio: “Non mi farò mai più trascinare nelle tue idee folli…”. Silenzio. Guardo la parte inferiore del mio abbigliamento, completamente ricoperta di fango… “Pensa, stamattina ero indecisa se buttare o no i calzini”. Scoppiamo a ridere come matte. 

La barca

Dopo questo diversivo, quattro chilometri di cammino completamente fradicia e altri due o tre ponti tibetani, arriviamo alla fatidica pausa pranzo. Buttate in una radura a caso, a soli trecento metri da un favoloso punto-fuoco con legna (sempre impeccabili), consumiamo un pasto frugale a base di fettine di arrosto confezionato, ceci in scatola forse scaduti (come credo la maggior parte del cibo acquistato), pane stantio (relitto di guerra della mensa di Kaustinen), frutta secca e barrette ai cereali. Proprio quando pensiamo di rilassarci un po’ prima dei successivi nove chilometri di cammino, il genius loci pensa bene di affrancarci con una bella pioggerellina molesta che impedisce a Fra di dormire e a me di scrivere. L’unica soluzione è rimetterci in marcia, aspettando che spiova per fermarci di nuovo, dato che non ci sono rifugi nei prossimi nove chilometri.

Ha continuato a piovere ininterrottamente.

Sparateci dunque tutta la distanza in un colpo solo, arriviamo al famigerato punto, che scopriremo essere un punto camping, stramazzando al suolo e non vedendo l’ora di piantare le tende (che, a proposito, possono essere piantate solo nei punti consentiti indicati sulla mappa, e non ovunque beatamente, come pensavamo noi, quindi, ci stiamo trascinando un pesante ed ingombrante disco così per la gloria).

Ma inizia una serie di disguidi che ci porterà a fare altri sette chilometri, per un totale di venti complessivi giornalieri. Innanzitutto, adocchiamo sulla mappa che poco lontano c’è un Campo Base (evidentemente siamo vicine ad un altro accesso al parco) e ci fiondiamo a prendere due tazze (a testa) di caffè fumante… e un ghiacciolo al lampone. Non capendo assolutamente che il camping di cui sopra si trovava a soli cento metri dietro il Campo Base, continuiamo beatamente il sentiero per un altro chilometro, fino a che sbuchiamo in un centro residenziale, con dei cottage e delle scalette che scendono fino ad un lago… non c’è traccia di rifugi, e non c’è neanche più traccia del sentiero di trekking… chissà dove siamo finite. Intravediamo presto, però, un altro sentiero, poco distante da dov’era finito il nostro. Vicino c’è un cartello di legno con su scritto CAMPING. Seguiamo fiduciose la direzione indicata, finché:

Fra: “Intravedo camper, e macchine…”

Me: “Ma… non ti sembra un paesaggio conosciuto?”

Ci mettiamo pochissimo a capire che, dopo una deviazione fuori dal parco, siamo tornate (per fortuna) al Campo Base, dietro il quale c’è il famigerato punto CAMPING, che non è affatto un punto per tende ma più che altro un parcheggio per camper.

Siamo al punto di partenza.

La baracca del Campo Base di staglia fiera davanti a noi, mentre noi continuiamo a guardarci intorno spaesate, in procinto di una crisi isterica. Rientriamo nella baracca e ci dirigiamo alla caffetteria a chiedere delucidazioni ma, da un cartello scritto in finlandese (interpretato solo per disperazione) intuiamo che il tizio (l’unica presenza nel raggio di chilometri) si è assentato per un quarto d’ora. Ci buttiamo sulle panche della veranda abbattute e indecise. Fra mi manda in perlustrazione nei dintorni e, dopo una bella corsetta sotto la pioggia (dite uno sport, oggi io l’ho fatto), giungo a quello che ha tutta l’aria di essere un camping. Ma più avanti intravedo tra gli alberi il tetto di una costruzione in legno che attira la mia attenzione. Proseguo le indagini. Poco dopo, nascosto dalla vegetazione, mi si apre davanti un vero e proprio villaggio fatto di container in legno con fili per stendere i panni, e cabine per bagni e docce, tutto in perfetto ordine e pulizia. Nei bagni c’è persino la luce e la tavoletta in legno sul tavolaccio ma, soprattutto, non si percepisce il minimo odore. Corro indietro in fretta e furia ad informare Fra ma vengo subito smontata: un cartello mostra che ci sono dei costi per pernottare in questo posto, e sono alti. Molto alti.

Torniamo sui nostri passi piene di sogni infranti e ci rimettiamo in cerca di un rifugio gratuito sulla mappa, sperduto nella quiete boschiva. La mappa ne indica uno tra tre chilometri, ma non capiamo bene che tipo di rifugio sia, dato che non è nessuna delle tipologie di rifugio incontrate finora (baite, casette in legno, capanne e via dicendo). L’importante, del resto, è trovare un posto asciutto dove passare la notte.

Nel frattempo torna il tizio e decidiamo di chiedergli se, tante volte, alla caffetteria vendano anche frutta fresca o beni alimentari commestibili. Si susseguono momenti dubbi:

Fra: “Excuse me, is the Cafè open?”

Tizio: “Maybe”

Potrebbe essere aperto, o chiuso al tempo stesso.

Il Cafè di Schroedinger.

Decidiamo che facciamo da noi. Diamo un’occhiata ai prezzi dei pochi articoli che scorgiamo dietro al bancone. Ci basta vedere l’acqua da 2,50 euro a bottiglietta e lo stesso pacco di wurstel che ho comprato al supermercato a prezzo quadruplicato. L’unica cosa abbordabile sono le banane.

Fra (indicando le banane): “How much?” 

Tizio: “How much would you spend?”

Lui è uno che nella vita proprio non vuole certezze.

Fra: “I pay 30 cents at the supermarket”

Tizio: “Ok, 35”

Comunque devono fartici rimettere.

Ci sbrighiamo a levare i tacchi da quel posto mentre la pioggia diventa sempre più forte. Imbacuccate come due Inuit, con la tenda appesa al collo a turno tipo giogo per bovini (perché non c’è possibilità di attaccarla allo zaino con copertura antipioggia applicata) ci rimettiamo in marcia.

Arriviamo alla fantomatica tappa e continuiamo a collezionare brutte sorprese. Lo strano ‘rifugio’ menzionato dalla mappa non è altro che una specie di tana ricavata sotto un’enorme radice, larga non più di due metri, profonda un metro e mezzo e alta uno, con pavimento in terra battuta, senza alcuna fonte di luce o calore né chiusura.

In compenso, c’è muschio a volontà. Lo Hobbit.

Abbastanza costernate, riprendiamo il cammino non degnando quell’affare neanche del beneficio del dubbio, puntando al prossimo rifugio, stimato tra tre chilometri.

Giunte al loco desiato (desideriamo un tetto sulla testa di quanto Ulisse desidera Itaca) incappiamo nel solito trabocchetto: non c’è nessun posto che assomigli ad un ‘rifugio’ nelle vicinanze. C’è un cartello però, che indica che ci dovrebbe essere qualcosa… sotto al dirupo. Mi affaccio e scorgo una lunghissima discesa di scalini, che non si sa dove conducano. Lascio quindi Fra, parcheggiata nello spiazzo a prendersi secchiate d’acqua a cielo aperto, e mi incammino giù per qualcosa come 1300 gradini… con tutto lo zainone sulle spalle.

Un’imbecille.

Una serie di indicazioni mi fanno rimbalzare qua e là tra un punto fuoco e una legnaia, ma di rifugi non c’è neanche l’ombra. Faccio quindi il percorso a ritroso, in salita, morendo lentamente ad ogni gradino. Arrivo in cima boccheggiando e, tra un rantolo e l’altro (ognuno dei quali poteva essere l’ultimo), reco notizie a Fra. E così, alla luce di una ventina di chilometri di cammino quasi senza soste (escluso il tentativo di pranzo, e la sosta la Campo Base), con fitte allucinanti al collo e alle spalle, cariche come muli, zuppe (io ho ancora addosso il fango della barca), capiamo che l’unico modo di passare la notte con un tetto sulla testa… è spararci altri sette chilometri.

Se non altro, il paesaggio in questa parte di riserva naturale è davvero meraviglioso. Siamo nel cuore della riserva di Oulanka, nella seconda parte del Karhunkierros (N.B. ci siamo arrivate in due giorni). Sentieri meravigliosi costeggiano a strapiombo il fiume che si apre su una vallata dal paesaggio spettacolare, dalla vegetazione variegata e concentrazione di specie diverse di fauna. Peccato per la pioggia, contiamo sul bel tempo di domani per fare qualche foto. 

A circa tre chilometri dalla meta, decidiamo che serve una pausa di emergenza, non ce la facciamo davvero più, sentiamo le spalle che stanno per staccarsi. Usufruiamo quindi della gentile ospitalità di una legnaia (che secondo il cartello è distante 300 metri… ma facciamo 600). Ci ripariamo sotto la tettoia della legnaia, abbandonando i bagagli al riparo e cominciamo a fare stretching attaccate alle travi. Ci sediamo quindi placidamente sui tronchi a consumare le banane e un succo di frutta e a ridere come matte, nonostante le fitte massacranti alle costole, elencando le diverse disavventure (chiamiamole così) della giornata:

È il 13 di luglio e ci troviamo a morire di freddo, zuppe di pioggia sotto una legnaia in mezzo ad una foresta lappone, a consumare succhi di frutta scaduti, rimediati a gratis dalla cucina di un festival musicale al quale ci siamo imbucate ottenendo persino gli accrediti stampa; i miei pantaloni sono imbrattati di fango incrostato fino sopra le ginocchia, per aver tentato di riportare una barca a riva saltando in una palude.

Una zanzara dalle dimensioni improbabili ci aleggia davanti. La osserviamo senza scomporci: “Fra, hanno mandato i soccorsi in elicottero…”.

“ELICOTTERO…” è la mazzata finale.

COTTERO, COTTERO, COTTERO

Ripartiamo. 

Alla fine, zuppe fino al settimo chakra, zoppe, barcollanti, malconce, affamate e ricoperte di ogni piaga possibile (vesciche, pizzichi, scorticamenti, graffi…) riusciamo a trovare il ‘rifugio’ che ci appare come il Graal.

Me: “Fra, mi sento come Biancaneve quando trova la casetta dei sette nani nel bosco”

Fra: “Si, speriamo che qui non ci siano sette persone però”

Fortunatamente il posto c’è.

Nella casetta ci sono solo due ragazzi che vanno a pesca e la coppia della notte precedente con il figlio (il ragazzo scomparso dello zaino). La casa è diversa dalla baita della notte scorsa, non ci sono camere ma solo un unico enorme ambiente con camino al centro, dei tavoli con panche e un lungo palco di legno sul quale tutti possono adagiare i sacchi a pelo. Ci ricaviamo il nostro angolino sotto la finestrella e ci prepariamo i giacigli per la notte. Il posto è bellissimo: una casetta in legno in riva al fiume con un’ampia spiaggia e un’area per il fuoco con tutta l’attrezzatura da cucina necessaria. Appena arrivate ci siamo fiondate dentro sbragando il giaciglio del povero signore che leggeva. Alla fine si è spostato e ci ha lasciato spazio (ha intuito i rischi della vicinanza con due maldestre esagitate). Ci siamo quindi cambiate tranquillamente davanti a tutti e siamo uscite, dirette al fiume, con ciabatte e asciugamano in spalla. Quindi, totalmente noncuranti dei poveri pescatori, ci siamo date una bella rinfrescata nell’acqua limpida e ci siamo anche cambiate il reggiseno dietro le frasche. Non contente, finiamo il servizio con salviette umidificate e deodoranti stick ciabattando avanti e indietro tra la casa e la spiaggia, in reggiseno e asciugamani, davanti all’allegra famigliola che faceva il barbecue sul fuoco.

Due signore. 

Rassettate a dovere e liberateci di ulteriori paia di calzini e mutande irrecuperabili, prepariamo la cena. Andiamo a prendere l’acqua al fiume, disturbando un altro po’ la quiete (io fossi in loro ci avrei già sparato), e ne bolliamo un po’ per i noodles. Io, dal canto mio, tiro fuori la mezza verza rossa che avevo comprato a Kaustinen grazie ad una ‘offerta imperdibile’ e comincio ad affettarla, contribuendo a ridurre il peso dello zaino. Poi mi reco al fuoco gentilmente lasciato dal signore (che credo sia profondamente terrorizzato da noi) e mi dedico ad arrostire i wurstel (erano due giorni che sognavo di farlo). Neanche la pioggia riesce a fermarmi. Fra passa attimi di panico col fornello a gas che “non si accende”. Accorro a darle una mano ma niente. Cominciamo quindi a chiamare tutti: mamma e figlio, il signore che legge (che non ci sta riuscendo minimamente), i due pescatori… tutti. Moleste come scimmie. Con grande sorpresa, ci aiutano gentilmente (invece di gettarci al fiume) e riusciamo quindi a degustare in veranda il nostro menu a base di:

FRA:

-Tonno in scatola al ketchup (il piatto forte della casa)

– Zuppa di solo brodo (cioè acqua calda del fiume)

– Frutta secca

– Pezzi di wurstel

– Pane (di cui è inutile specificare le condizioni)

ME:

– Zuppa blu (noodles più verza rossa, un’alchimia senza precedenti)

– Wurstel arrostiti

Il tutto ingurgitato senz’acqua, perché l’abbiamo finita e non ci va di bollire quella del fiume visto che quella dei noodles c’ha messo mezz’ora. Dovremmo anche trovare il modo di fare il bucato… senza sapone. Ma, del resto, la cosa fondamentale in questo momento è farsi una dormita. Una magistrale, epocale dormita.

Cominciamo subito (tanto siamo rimasti svegli solo io e il signore che legge, finalmente).

Doccia!
La nostra SPA
Servizio completo
Sala da bagno
Lo spogliatoio
Specialità dello chef: zuppa blu

Mezz’ora dopo…

Fra si sveglia, mi guarda…

“Ma è mattina?”

“No, ho finito di scrivere mezz’ora fa”

Qualche ora dopo, in piena notte…

Mi sveglio per soffiare nel cuscino sgonfiatosi completamente. Fra si sveglia, mi guarda…

“No, non è mattina… senti rubi un po’ d’acqua a quelli vicino?”.