Voci dal nord

Capitolo 15 – L’orso!

«A notte fonda il tempo scorre a modo suo».

(Murakami Haruki, After Dark)

12 luglio 2013

Ore 08.10

Pullman per Kuusamo, destinazione Oulanka Park

(Finalmente, l’Orso!)

Dopo una delle notti più inverosimili delle nostre vite (ancora dobbiamo decidere se è davvero accaduta o se eravamo anche noi sotto effetto di allucinogeni) siamo pronte alla nostra tanto agognata avventura: alcuni giorni di trekking nel parco nazionale di Oulanka. Solo noi, le nostre provviste, e chilometri di boschi e laghi.

Karhunkierros Trail, il sentiero dell’orso

Abbiamo pianificato tutto da settimane. C’è stato solo un lieve posticipo sul programma, dovuto alla deviazione a Kaustinen.

La notte è proseguita nel modo seguente. Dopo aver finito di scrivere la telecronaca in diretta (più o meno intorno al quinto pazzo) le mie palpebre, forse sovraccaricate dall’eccesso di visioni, sono crollate come due saracinesche e sono crollata a faccia in giù sul tavolino (con tanto di cappuccio in testa), oscillando tra fase REM e coma.

In quell’oretta e mezza (dalle 3.00 alle 4.30 circa) è successo di tutto. Fra mi riporta gli episodi degni di nota. Tre tipe ubriache (ma ormai non c’è neanche bisogno di dirlo) entrano, ordinano da mangiare… e se ne vanno. Per sempre. Tre tizi entrano con lo skateboard creando il panico. Uno di loro si mette a sedere per un po’ di fronte a noi (sapevo che sarebbe successo prima o poi). Un tizio si ferma a sostare schiena contro schiena con Fra… per un bel po’ di minuti. Qui hanno tutti carenze d’affetto.

Ma la cosiddetta goccia che fa traboccare il vaso avviene al mio risveglio… Ore 4.30 del mattino circa, apro gli occhi anchilosata dalla testa ai piedi (nei e ciglia compresi) con la sensazione di un’incudine che appoggiata tra capo e collo e la reattività di un paguro tramortito dalle onde. Non so come, né perché, mi ritrovo due energumeni seduti al nostro tavolo, intenti ad intrattenere una beata conversazione (con noi…) dando pacche sulle nostre buste delle spesa di tanto in tanto (che noi ormai proteggiamo come cuccioli). Dato che non avevo facoltà di pensiero valide al momento, mi sono lasciata trascinare con Fra in un susseguirsi di dialoghi sconclusionati e improbabili… forse credendo che stessi ancora sognando.

Partendo da discorsi vaghi sulla nazionalità e sullo scopo del nostro viaggio, siamo passati a sfoggio di foto di automobili costose (nella piena convinzione che, in quanto italiane, fossimo delle esperte in materia) per proseguire con il racconto interminabile e privo di connessioni logiche del viaggio in Lapponia (di chi, non si sa) uniti ad una serie di consigli da giovane marmotta e serie raccomandazioni (tipo “Non andate in Russia perché ci sono brutte persone”, infatti, meglio restare ad Oulu).

Ma il meglio è venuto con i tentativi di raffronto di termini italiani e finlandesi che è sfociato in un’insistenza morbosa del tizio di fianco a me sul significato della parola “ELICOTTERO”. Termine che ad un certo punto ha cominciato a ripetere ad oltranza ad intervalli regolari, come se si fosse impallato, fissando il vuoto, nella forma abbreviata “COTTERO”, dando vita ad una vera e propria traccia sonora in ostinato stile psy-trance

“COTTERO, COTTERO, COTTERO, COTTERO, COTTERO…”

Nel frattempo, l’altro pensava bene di fare a Fra proposte indecenti circa il dormire da loro anziché sul tavolo del Mc Donald’s, come se fosse un’alternativa valida. Dopo altri vari frammenti di discorsi senza capo né coda, il tizio vicino a Fra (l’altro era ancora impallato su “COTTERO”) decide che è ora di andare. Ma prima, pretende un bacio appassionato “alla finlandese”, che trova risposta in un “Ma non ce pensà proprio”, pronunciato in perfetto accento romanesco con tanto di mani avanti. Se ne vanno lasciandoci una scatola quasi finita di mentine ed un pacchetto di salviette del fast-food che “potranno esserci utili nel nostro viaggio” (nel senso che, forse, se li mostriamo la gente capisce con chi abbiamo avuto a che fare e ci lascia in pace). 

Ancora più sconvolta, cerco di capire cosa sia successo, cosa stia succedendo in questo paese e forse nel mondo, davanti ad un bibitone fumante di caffè. Passo pochi minuti di crisi esistenziale, dopo di che, per non essere da meno degli autoctoni, decido di andare a cambiarmi i pantaloni in bagno.

Alle sei del mattino riusciamo ad uscire dal circo degli orrori, riflettendo seriamente sul mollare l’Etnomusicologia e correre ad iscriverci a Psichiatria. Abbiamo già materiale sufficiente per la tesi di dottorato. Ammutolite e perplesse, ci rechiamo a fare gli ultimi giri per sistemare i bagagli e prendere quantità considerevoli di cornetti in svendita al chiosco sul porto. Quindi, ancora pensierose ed emotivamente annientate, ci rechiamo alla stazione dei pullman, ansiose di raggiungere il prima possibile un luogo avulso da ogni forma di vita (esclusi orsi, renne, licheni e mosche cavalline, la cui compagnia è stata notevolmente riconsiderata).  

Sbuchiamo fuori dal sottopassaggio già pregustando la natura selvaggia ed incontaminata e mettiamo piede nel parcheggio… rimanendoci secche. Comitive di adolescenti buttati a terra con zaini e sacchi a pelo, corredati di pallone da calcio, bottiglie di ogni sorta ed equipaggio da scampagnata domenicale a Poggio Bustone. Se fossimo state dei cartoni animati le nostre mascelle sarebbero cadute sull’asfalto in concomitanza con la fuoriuscita dei bulbi oculari. 

Buttate su una panchina, rassegnate fino allo stremo, osserviamo il ragazzo francese seduto a pochi passi da noi che, dopo aver sciacquato il cucchiaio con cui ha appena finito un barattolo sano di nutella, si cambia i pantaloni en plein air.

Il tempo residuo di attesa del pullman trascorre tra autoconvincimenti (pericolosamente vicini a tentativi di Voodoo fai da te) che loro non sono diretti ad Oulanka. Del resto, jeans, Superga e borsette di Hello Kitty non sembrano decisamente un equipaggiamento adatto ad un percorso di ottanta chilometri nelle foreste lapponi. Non hanno neanche le tende… sembrano più diretti ad una braciolata di Pasquetta che al trekking estremo. O forse siamo noi ad aver sopravvalutato la situazione… non sappiamo più nulla.

È un dato di fatto: abbiamo perso ogni capacità di giudizio critico sulla realtà che ci circonda, continuiamo a farci trascinare in un flusso onirico in cui i pochi paletti delle nostre certezze sono stati brutalmente divelti, uno ad uno. Ci concediamo attimi di riflessione e dialogo interiore, per tentare di recuperare il senno e la lucidità.

La certezza per ora è solo una: Karhunkierros, il Sentiero dell’Orso.

Cerchiamo di affrontare le tre ore di viaggio nel migliore dei modi, ripetendoci una serie di mantra: il pullman non è pieno di gente e no, il nostro ascetico e selvaggio trekking nella foresta non si rivelerà una succursale di Kaustinen; non siamo già abbattute dalla stanchezza come tronchi careliani dall’IKEA ancora prima di cominciare; e i finlandesi sono quelle meravigliose persone stereotipate dalle pubblicità: inglese impeccabile, denti bianchi, assennatezza e praticità. 

Next Stop: Oulanka

Ore 11.16

Pullman per Hatajaarvi (tappa più a nord del percorso dell’Oulanka Park)

Freddo.

Fa un freddo maledetto.

Ho addosso una maglia a maniche lunghe, un maglioncino, una felpa e un giacchetto di pile pesante e muoio di freddo. Porca miseria. Ma l’atmosfera merita decisamente. Le poche volte che sono riuscita ad aprire gli occhi sul pullman ho visto cose bellissime: coppie di renne che attraversano strade semi-deserte, una renna bianca con corna lunghissime… quello del sedile dietro che tiene in mano una canna da pesca pronta all’uso (ma questa è un’altra storia…).

L’autista ci fa scendere in un piazzale su cui sorge un Lidl gigante (e basta) e si mette a scaricare tappeti. 

Prendiamo l’altro pullman, quello diretto al parco di Oulanka. La scolaresca francese ci segue (provocando attimi di panico) ma poi scende alla prima fermata (qualcosa come Petajalammen Lumakyla), quella più a sud.

Sorvolo su commenti e manifestazioni emotive da beceri romani nel mondo ai nomi delle innumerevoli tappe intermedie come Sommoaarivatti (“Ahò semo arivati!”) ed Heikkola (“Ecchela!”).

C’è n’è una che si chiama Juumantie… cominciamo a spiegarci tante cose.

Ore 17.00 forse, non so più neanche questo

Strapiombo sul fiume nel bosco

Pausa anti-stramazzamento dopo nove chilometri di cammino

Innumerevoli renne, saliscendi all’80% di pendenza e stazioni sciistiche desolate dopo, l’autista ci avvisa che siamo giunte ad Haatajarvi.

La ridente, soleggiata, popolata Haatajarvi.

L’unico baluardo di civiltà è costituito dal Campo Base del parco, che costituisce la tappa di partenza del percorso. Una casina in legno ben attrezzata, in cui vi è un Punto Informazioni con mappe, bar e Shop. Un piazzale con un arco di travi in legno è piazzato lì, forse con intento ammonitore, e per il resto solo alberi a perdita d’occhio.

E il freddo. Tanto freddo.

Entriamo a munirci di mappe e caffè, che sorprendentemente costa meno che altrove… al contrario degli altri prodotti alimentari, il cui prezzo è almeno il doppio rispetto al supermercato (che già, diciamo, non punta sulla carità).

Per fortuna ci siamo imbottite di scorte da qui alla prossima guerra mondiale.

Ultimi rifornimenti

Dopo esserci studiate un po’ le mappe e riposate dieci minuti in croce, invece che fermarci a dormire un po’ (cosa che non facciamo da più di trentasei ore) ci mettiamo subito in cammino, e ci spariamo i primi nove chilometri. Una marcia serrata con solo due brevi pause (di cui questa è la seconda, dopo gli ultimi sei chilometri filati). Altre soste minori (di pochi secondi) sono dovute a problemi tecnici: tentativi di bilanciamento del peso immane degli zaini; riallacciamento scarpe e vari set fotografici al meraviglioso paesaggio che si apre sul fiume, studiando pose strategiche in modo che io non cada a picco nel dirupo.

La mia maldestrezza va seriamente tenuta a bada in un posto simile. Già dopo i primi duecento metri mi sono fatta riconoscere quando, nell’intento di fotografare un fungo gigante, mi sono chinata non tenendo conto del fatto che sulla schiena ho uno zaino che pesa più di me… ergo: schiantata sul selciato come una tartaruga ribaltata. Ci sono volute manovre strategiche di Fra che ha mollato tutto per ritirarmi su. Se non altro sono uscita indenne dalle varie paludi, strapiombi e radici giganti a fior di terra. Mancavano solo le miniere di Moria.

La mia vita per un fungo!

Abbiamo anche tentato di fare una pausa pranzo, ancora ignare della piaga che ha colpito la Lapponia più della peste a Milano: le zanzare. Dopo aver trascorso minuti di fuoco a lottare contro un nemico alato che nessuna minaccia di manate e nessun repellente è riuscito a scoraggiare (si posavano persino sul flacone aperto, a sfregio), abbiamo ingurgitato in fretta e furia il contenuto dei portapranzi e ci siamo date a gambe levate prima di morire dissanguate (che tra tutti i pericoli possibili qua sarebbe veramente una morte da deficienti).

Cioè, diciamola tutta, io sono stata attaccata da ogni fronte da frotte e frotte di zanzare che non accennavano a schiodarsi dal cibo (di cui io ero parte integrante), esibendomi in coreografie che farebbero invidia a Carla Fracci e spargendo repellente ovunque manco  fossi il prete la domenica delle palme, battendomi con tutte le forze, schiacciandole tra le pagine del diario e brandendo il flacone tipo clava, spruzzandogli il repellente sopra mentre loro continuavano a spiluccare beate il mio pasto (e me), il tutto senza risultato alcuno, anzi, sembrava che ne attirassi sempre di più.

Ad un certo punto neanche mi davo più pena, bastava muovermi che ne facevo secche due o tre insieme tante ne avevo addosso. Abbiamo demorso presto, chiuso baracca e burattini e ci siamo ripromesse di mangiare solo in tenda sigillate tipo pacco di posta prioritaria.

In tutto ciò… Fra ne è uscita indenne, neanche un pizzico.

Avremmo voluto fare anche un’altra sosta in un suggestivo rifugio di tronchi sul fiume, ma era occupato. Di ottanta chilometri di bosco noi troviamo gli amiconi che fanno il nostro stesso sentiero: due ragazzi finlandesi, più o meno della nostra età, che ci hanno proposto di fargli compagnia tra una grigliata e un bollitore d’acqua pronto. Decliniamo l’offerta e decidiamo di proseguire da sole, cercando la nostra pace bucolica tanto agognata. Tra un servizio fotografico e l’altro, tuttavia, li incrociamo più volte sul sentiero. Decidiamo di fermarci un altro po’ per dargli strada, per evitare che il trekking solitario si trasformi in una spedizione di scouts. Ma Fra è fiduciosa: “Dai, proseguiamo, sono due ragazzi, con pochi bagagli, andranno più veloci… “. Ergo: li raggiungiamo, li superiamo e li seminiamo. Ma ci raggiungono di nuovo all’ennesima pausa scarpe. Continuiamo questo giochino per altri tre chilometri, dopo di che li perdiamo del tutto.

Dobbiamo cercare di accaparrarci il prossimo rifugio o dovremo camminare per altri venti chilometri per trovarne un altro. 

Fra K.O.

Ora, Fra credo sia svenuta, io continuo a dar fondo alle scorte di acqua e frutta secca mentre scrivo gli aggiornamenti tra un tango e l’altro con le zanzare (me ne sono appena schiacciata una in faccia, che schifo). Tra l’altro, si è alzato un freddo ancora più pungente, mi sa che ci convenga rimetterci in marcia… 

Ore 23.00

Baita sul lago
Sacco a pelo adagiato su un pianale di tavole in legno
Nel cuore della foresta lappone, a 16 Km di cammino da Haatajarvi
Benvenute “In the middle of nowhere”

Alla fine ce l’abbiamo fatta, in un modo o nell’altro. Ci siamo sparate questi sedici chilometri di sentieri sassosi tra i boschi e la riva del fiume.

Esploratrice 1
Un quieto fiumiciattolo
Esploratrice 2
Visuali e dirupi
Esploratrice 1 nell’ennesima impresa geniale

Abbiamo attraversato passerelle di legno pericolanti sulle paludi; ripide discese tra terriccio, fanghiglia e radici. Ma più che altro salite. Chilometri e chilometri di salite. Su ad inerpicarci con due mostri giganti sulle spalle, con sacchi a pelo pendenti e cose attaccate sopra (tipo la fastidiosissima tenda a disco della Quechua). Ci ritroviamo con anche sbilenche, spalle da bodybuilder e ossa doloranti. Io ho un ginocchio che ha qualche problema, ignoro quale, so solo che è qualcosa che fa male. Avremmo dovuto fare un’ulteriore sosta ad una capanna-rifugio di legno vicino al lago, ma la sottoscritta (momentaneamente alla guida della spedizione) ha messo la quinta camminando a perdifiato senza curarsi delle indicazioni e l’ha bellamente superata, continuando a lamentarsi della mancanza di cartelli per chilometri. Inutili gli accorati richiami di Fra dalle retrovie (dovremmo seguire dei corsi da Maari).

Insomma, ci siamo letteralmente massacrate.

Domani cercheremo di andare con più calma e visitare accuratamente i siti panoramici.  Stanche come cammelli da soma in una carovana, siamo approdate alla nostra meta con stupore e meraviglia. Lo spettacolo che ci si apre dinnanzi è magnifico: questa baita nascosta tra gli alberi, davanti alle rive del fiume sul quale si staglia il ponte tibetano più famoso del percorso. Davanti alla baita vi è un focolare attrezzato con tanto di panche in legno e sul retro un deposito di legname, con file e file di tronchi e tronchetti di ogni misura, pronti per il falò (domani ho deciso di sperimentare, e fare i wurstel sul grill). Abbiamo raggiunto il Nirvana. Più lontano ci sono anche due cabine in legno con le toilette in stile careliano (cioè la tavola con buco alla ceca, no luce, no carta).

Ci fiondiamo subito nella baita a cercare un giaciglio dove distendere le membra (non per forza tutte insieme, tanto ormai sono scomponibili). Troviamo dentro un cordiale signore, intento a scrivere un diario, che ci cede la stanza col palco in legno più largo e si mette in quello singolo nella sala principale. Nella stanza adiacente alla nostra vi è una coppia di coniugi. Prima c’era anche un ragazzo ma ora ha lasciato lo zaino ed è sparito. Posiamo i bagagli, sistemiamo i sacchi a pelo e provvediamo a darci una rassettata (per quanto possibile).

Andiamo a sciacquare le stoviglie al fiume (rigorosamente senza sapone, perché giustamente è una riserva naturale, mi chiedo perché ce lo siamo portato) e ad usufruire del fornello a gas nella veranda, per cuocere le nostre zuppe da trentanove centesimi a busta. Completiamo il pasto con una magnifica scatoletta di tonno al ketchup (che ha incontrato non poche proteste da parte mia) e le verdure secche di Oulu.

Ora siamo pronte per la sfida più grande fino ad ora: dormire. Dopo quarantotto ore di frenesia ininterrotta, la notte da incubo ad Oulu, innumerevoli spostamenti con pullman, treni e sedici chilometri di marcia a cuor leggero, direi che sarebbe anche ora. Finisco di sgranocchiare i miei biscotti al miele e cannella (so che non ne uscirò) e i famosi Mulinelli al caramello (che, si, ancora ci passeggiamo dalla Russia) e ci dedichiamo ad impacchi massicci di Voltaren, tipo docce solari. Poi chiudiamo le zip dei sacchi a pelo simultaneamente e adagiamo i nostri acciacchi sulle assi di legno.

Primo rifugio
La sala da pranzo
La nostra legnaia
Master Chef
La cena è servita
Il galateo della casa

Speriamo di non trovare, domani mattina, file di formiche stile coda d’attesa per il nuovo I-phone sui nostri biscotti.