PANDEMIC EDITION #3

Borobudur

«Quel che mi è sempre piaciuto del buddhismo è la sua tolleranza, l’assenza del peccato, la mancanza di quel peso sordo che noi occidentali, invece, ci portiamo sempre dietro e che è in fondo la colla della nostra civiltà: il senso di colpa. Nei paesi buddhisti niente è mai terribilmente riprovevole, nessuno ti rinfaccia mai qualcosa, nessuno ti fa mai una predica o cerca di darti una lezione. Per questo sono paesi piacevolissimi e fanno sentire a loro agio tanti giovani viaggiatori occidentali, in cerca appunto di libertà».

(Tiziano Terzani, Un indovino mi disse)

Yogyakarta, 8-9 luglio 2020

L’aria è più fresca a Borobudur.
I colori sono più vividi. Il verde è più verde, il celeste incredibilmente celeste.
L’aria, a Borobudur, è profumata.

Dopo due ore di Jalan Magelang sempre dritta da Yogya – Yogya è come Roma, imbocchi una jalan raya a caso (l’equivalente delle nostre strade consolari) e da qualche parte arrivi – varchiamo l’arco di benvenuto ad una delle mete più quotate dell’Indonesia: Borobudur.

Più che patrimonio UNESCO, più che sito archeologico, più candi di qualsiasi candi (vedi PANDEMIC EDITION #1, Prambanan), ma anche pura una volta all’anno, grazie a speciali concessioni, in occasione del Vesak (il capodanno buddhista, durante la cui notte il cielo sopra questo tempio di riempie di lanterne colorate) Borobudur è il Tempio per eccellenza. Se la combatte solo con Bagan in Myanmar e Angkor Wat in Cambogia, gli altri due templi a forma di templi del sudest asiatico.

Piazzato come un gigante saint’honoré (non so perché mi ha sempre ricordato questo dolce, tecnicamente la forma rispecchia quella di un mandala tantrico che si eleva su nove livelli) tra le verdeggianti e rigogliose pianure di Magelang in una felice conca naturale tra monti e valli, sorvegliato dai monti Merapi e Merbabu, irrigato dai fiumi Progo ed Elo, questo tempio del buddhismo mahayana del IX secolo sembra davvero una sorta di Olimpo sulla terra.

Noi ci andiamo per un weekend di relax post-apocalisse virale e per girare qualche puntata del Vlog della mia amica Elisha, divenuta famosa come cantante nei teatri delle ombre giavanesi ed ora vera e propria star del Web indonesiano.

Mentre lei armeggia con il suo Osmo Pocket, io, come al solito, registro memorie cartacee per il mio modesto Blog, da un livello un po’ più basso del mandala della comunicazione mediatica.

Imbocchiamo la strada Soekarno-Hatta, marcata dalla grande statua intitolata ai due eroi dell’indipendenza indonesiana e cominciamo a vedere i primi stupa gettati un po’ ovunque, era prevedibile. So già che ne vedrò molti altri.

Tra i verdissimi campi di riso costellati da palme e baracchini e i soliti cartelli originali che trovi nelle località famose che ti ricordano continuamente dove sei (come se te lo scordassi facilmente) – Tobacco Borobudur, Warung Borobudur etc. – scoviamo la nostra prima tappa: la locanda che vende Sop Iga Sapi Banar, la zuppa di manzo, verdure e fagioli rossi secondo la ricetta del luogo.

Un casco di banane troneggia al centro della tavola. Un grasso gatto sonnecchia placido, ‘buddhisticamente’, sotto le nostre sedie, cullato dal silenzio campagnolo tutt’attorno.

E già uno la pace interiore l’ha raggiunta. Anche la zuppa è una buona tappa sulla strada verso il Nirvana, è letteralmente divina.

Il traffico di Yogyakarta è già un miraggio.

Finiamo di sorseggiare il nostro bicchiere caldo di asem gula, una bevanda al tamarindo e zucchero giavanese, e ci rimettiamo sulla strada lungo gli ultimi pochi chilometri che ci separano dalla homestay. Seguiamo un camioncino sul quale due gemelline indonesiane in pigiama batik si beano del vento fresco attaccate al parapetto del rimorchio, in piedi, senza alcuna protezione.

Dopo una grande curva a conca sfrecciamo davanti l’ingresso principale del tempio e proseguiamo dritte tra orti e campi.

Passiamo sotto l’ennesimo arco che recita:

Kampung Homestay

Villaggio delle Homestay

Fa parte anche questo delle cose ‘tipiche’.

Altre meravigliose stradine tra piantagioni di pannocchie dopo – nella mia testa ‘piantagioni di cavallette’ – arriviamo al Janur Bungalow.

Lo staff ci accoglie sorridente e armato di hand sanitizer fatto a mano. Come al solito, ci siamo solo noi.

A Lisa la riconoscono subito, c’è tanto di cartello di benvenuto che reca il suo nome. A me scatta il: “Where are you from?”, seguito da prevedibili: “Valentino Rossi!” e compagnia bella, appena nomino la mia nazionalità.

Tutto regolare.

Il proprietario ci fa gli onori di casa, noi lo seguiamo addentrandoci lungo il sentiero tra variopinti bungalow con mille dettagli etnici immersi in un giardino rigoglioso e colorato. Sembra uscito da una rivista di design.

Abbiamo prenotato il bungalow da settecentomila rupie ma – vuoi la presenza di Lisa, vuoi la totale assenza di altri turisti causa crisi post apocalisse Covid – ci ritroviamo nella stanza da novecentomila, la suite imperiale, senza aggiungere un centesimo e con tanto di drink di benvenuto, ovviamente analcolici.

Prendiamo subito posto nell’alcova gettando i nostri bagagli tra il principesco letto a baldacchino e la toletta. Poi ci diamo alla colonizzazione del bagno, anch’esso una sorta di giardino all’aperto ma con tutti i sanitari a posto, persino un’enorme vasca da bagno e piante ornamentali che pendono sulle pietre levigate del vano doccia. Il tutto è perfezionato da un’amaca (la mia passione) sulla veranda che dà sui campi di riso – una veduta mozzafiato – e grassi gatti tigrati assopiti sui gradini d’ingresso. Se avessi dovuto dar forma al mio luogo ideale non avrei saputo far di meglio.
Persino i colori sono azzeccati: rosa, celeste, verde acqua, tutti toni pastello.

Ci sediamo per un po’ in veranda a contemplare la vista sugli immensi campi che si estendono fino alle pendici delle montagne sagomate in lontananza, godendoci il fresco delle piante tropicali (nella mia testa sempre cavallette) e sorseggiando il latte di cocco e lime. Alle nostre spalle arazzi batik e lampade in rattan. Un maestoso gong fa da quinta su un lato della costruzione. A questo punto mi aspetto qualcuno che venga a dirmi che ho terminato le reincarnazioni e posso godermi tutto questo a vita.

Dopo aver ripreso fiato, ci diamo all’esplorazione. Lisa col suo fidato Osmo Pocket non perde un dettaglio per i suoi follower. Io annoto tutto sul taccuino seguendola come un’assistente alla regia su un set. Siamo più equipaggiate del National Geographic.

Dopo aver passato in rassegna ad uno ad uno tutti gli altri bungalow, la piscina con loggia e la reception, in cui troneggia immancabile lo stupa borobuduriano, decidiamo di goderci un altro punto panoramico: la terrazza di una palafitta che fa da hall, raggiungibile tramite pericolante scaletta in legno infestata da vespe formato Boeing 737. Sulla terrazzina, priva di parapetto, vi è soltanto una larga panca in legno dipinto di azzurro e tutto ciò che si possa desiderare da un paesaggio. Sporgo la mia vista oltre i tettini dei bungalow e i fiori fuxia delle piante rampicanti e intravedo il tempio come un puntino in lontananza, con tutta la vallata paradisiaca attorno.

Mentre montagne infarcite di vegetazione fanno scudo ai raggi del sole più violenti di metà giornata, ci godiamo per qualche minuto il silenzio rotto solo dai fruscii delle fronde e da qualcuno che spazza con una scopa di saggina, coi piedi all’aria e il cuore contento.

Fuori l’entrata della guesthouse, un’intramontabile vecchina giavanese in gonna blu e kebaya azzurro si trascina in questa vita sotto un ombrellino rosso. Quasi penseresti che l’abbiano pagata apposta per completare questi attimi di perfezione fatata.

Rientriamo alla base facendo lo slalom tra piante e statuine e ci rendiamo conto di non aver chiuso la porta del bungalow. Abbiamo lasciato tutto dentro, così, come fosse casa nostra.

Tento di attirare in tutti modi l’attenzione del gatto più grasso. Lisa scoppia a ridere. Ho confuso il nome con quello del proprietario. Lo ribattezziamo Ginger (Zenzero), la compagna Kunyit (Curcuma). Ora che abbiamo tutto il parco spezie possiamo procedere a cambiarci d’abito e metterci a nostro agio.

Non duriamo tanto nel relax. In poco più di mezz’oretta dal nostro arrivo ci ritroviamo nel retro di una jeep gialla stile Jurassic Park, dirette verso un safari nella valle. Non so neanche come ci siamo finite, ha fatto tutto Lisa.

Due ragazzi in maglia e pantaloncini con logo della compagnia turistica ci spiegano il tragitto.
Io non ho bei ricordi in jeep (vedi Don’t Push Yourself), spero di farmene di nuovi e migliori.

Ci immettiamo nelle assopite, silenziose, quasi tantriche stradine attorno al tempio, tra modeste abitazioni e agglomerati di piccole attività commerciali per lo più a conduzione familiare. Tra i soliti volti noti (un warung, una pom bensin, un chiosco di fritti, un emporio che vende tutto e niente) spiccano alcune ‘specialità’: una signora fuori la sua abitazione che riempie, a lato strada, sacchi di torsoli di pannocchie; bimbi che si tuffano in un fiumiciattolo sotto ad un ponticello; bapak che ci sorridono da un pick-up; uno che va in motorino col caping gunung (il cappello di paglia conico usato dai contadini) invece del casco. Poi ci sono gruppi indefiniti di persone a lato strada che ci guardano confuse perché sotto la mascherina e gli occhiali da sole potremmo essere chiunque, non si capisce che siamo una cantante famosa e una straniera (la combo dell’anno), ma il dubbio comunque gli viene.

Noi comunque chiniamo il capo e buttiamo lì qualche: “Monggo!” come si conviene. Il guidatore quasi si commuove a vedermi fare tutti quegli inchini e moine: “Sudah lokal!” (“Sei già locale!”).

Poi ci sono i coltivatori di funghi, di tè, di caffè, tabacco, fiori, miele, zucchero e gula jawa (‘zucchero giavanese’, che non si è ancora capito se sia quello rosso, o marrone o entrambi, se viene dalla palma, dal cocco o dalla palma da cocco, manco Lisa che è giavanese lo ha capito). Comunque è buonissimo, sa di caramello. Ci fermiamo ad assaporarlo ad una casa di produzione locale, di base una capanna sperduta nel nulla. Ci danno dei tocchetti di zucchero marroncino da addentare prima di sorseggiare il tè. Io me ne faccio una scorpacciata, vanno giù meglio dei cioccolatini, mi ricordano le caramelle Mou che mia nonna mi comprava da piccola. Il processo è bello lungo, quattro ore a mescolare parti di fusti di palma (l’interno è quello da cui si ricava lo zucchero) per poi inserire il ricavato nei gusci di cocco e dargli la forma di tanti panetti a forma di mezzaluna. Non ci sono agenti chimici.

Vorrebbero che ne comprassimo un po’ ma non sapremmo come riportarcelo a Yogya in motorino. Tutti vorrebbero che comprassimo qualcosa, fa parte del compito del buon turista, specialmente durante il post-new-apocalypse-lock-normal-down, ma per ora passiamo oltre.

Seguono altre innumerevoli scene campestri. Bimbi che giocano nei vicoli con animali mentre i genitori e i nonni intrecciano, setacciano, segano, mescolano etc. – tutti fanno qualcosa e lo fanno senza mascherina. Qua il Covid non è mai arrivato. Qui è un altro mondo, un altro piccolo mondo antico traslato nello spazio-tempo.

Sembra una caratteristica della campagna, quella di preservare più tracce storiche rispetto alla città. Non tanto una storia materiale quanto umana. Qui c’è ancora la storia della Giava rurale e animista, profondamente calma, assorta, minuziosa, atemporale e in armonia con la natura. Non è una Giava religiosa, ma è profondamente spirituale. Ayem tentrem, ‘pacifica’, ‘serena’, ‘armoniosa’. La pace nel cuore e il vivere in armonia con tutto ciò che è intorno.

Qui ogni dono della natura è adeguatamente utilizzato per produrre beni di consumo alimentare e oggetti di uso quotidiano. Uomini e donne macinano interni di palme (non avrei detto che ci si potessero fare tante cose) per ottenere della farina con cui si producono i glass noodles, gli spaghettini trasparenti utilizzati nelle zuppe.

Una signora ci mostra orgogliosa le sue arnie in cui api laboriose producono del miele squisito all’aroma di fiori e frutta, persino di rambutan (una specie di lychee locale).

Finisce che prendo un alveare in mano, la signora ci teneva tanto.

Mentre osservo l’incredibile colore viola cangiante delle ali delle api, spero con tutto il cuore di non aver beccato quello con la regina. Assaggiamo un miele mai assaggiato prima d’ora e questo lo compriamo. Ora che ci sentiamo meglio per aver aiutato l’economia locale possiamo andarcene a cuor leggero. Loro sono tutti contenti.

Poi ad un certo punto finiamo a guadare un fiume in jeep a ridosso delle rapide. Ma questa è un’altra faccenda, peraltro documentata in toto con foto e video.

Viviamo minuti di pura adrenalina, rischio pure un tuffo in acqua durante una sterzata maldestra, con tutta la jeep a carico. Tutto ciò poco dopo la faccenda dell’ayem tentrem. Non fa una piega.

Comunque questi minuti di insensatezza a rischio tachicardia valgono tutta la giornata.

Ne usciamo zuppe e con qualche frustrazione in meno.

Poi, altro giro altra corsa. Passiamo attraverso colline di piantagioni sul sole calante. Donne in cappelli di paglia conici raccolgono melanzane. Una ne offre alla vicina di piantagione: “Mbak, mau terong?” (“Ne vuoi un po’?”).

Ci fermiamo a fare foto sul tettino della jeep mentre loro continuano indisturbate, per loro questo paesaggio deve essere diventato quasi noioso, come tutti i turisti che passano a fotografarlo, per noi sarà la punta di diamante dei nostri profili social per almeno le prossime due settimane e uno dei ricordi indelebili nelle nostre memorie di viaggiatrici.

Fanno scansare persino due poveracci in motorino che stavano lì a farsi i fatti loro, per concederci le nostre indimenticabili memorie coi monti alle spalle: “Ada penumpang” (“Ci sono clienti”).

A lato di una stradina che nient’altro è che una striscia di cemento serpeggiante tra due sterminate risaie, una donna vende zuppa fredda di gelatine (es dawet) con le due figliole a carico, mentre altri ragazzini giocano più in là in un campo da calcio improvvisato.

Noi continuiamo indisturbate il nostro set fotografico nel verde, con lo stupa più alto della torta Borobudur che fa capolino tra le frasche a qualche chilometro di distanza.

“Quella casa laggiù, (vedete?), appartiene ad una coreana, ex moglie di un locale. Ora è diventata una homestay, ma non ci sono più turisti, è tutto deserto”, dice sconsolato uno dei ragazzi che ci fa da guida. Anche questo paradiso, come tanti altri paradisi, non se la passa tanto bene se gli levi le frotte di usurpatori con reflex che lo rendono meno paradisiaco in tempi normali. Ci sentiamo, un po’ egoisticamente, fortunate, come ogni altro turista che si lamenta della presenza di turisti.

Il Covid, in qualche modo, è arrivato.

Mentre tentiamo l’impossibile mettendoci in piedi sul tettino della jeep in corsa per pochi minuti di gloria mediatica, dei ragazzi ci superano con bici e motorini senza mascherine né caschi, entrando nella competizione dell’incoscienza.

La luce è pazzesca, l’aria è fresca, i colori sono come dovrebbero essere, i sapori sono più intensi e saporiti. Tutto fa pensare che Borobudur non sia una delle vie per il Nirvana, ma il Nirvana stesso.

Tornate al bungalow mi butto di corsa nella doccia ed esco altrettanto di corsa pochi secondi dopo. Una cavalletta grossa quanto lo stipite mi guarda beffarda dallo stipite. Lo sapevo, i miei timori si sono avverati.

Chiamiamo uno degli inservienti che con tutta nonchalance la piglia a mani nude esclamando quasi teneramente: “Ohh walang” (“Ohh, una cavalletta”) e la getta fuori seminandola pericolosamente dal mio sguardo vigile.

Me la ritrovo poco dopo a bordo piscina. Non se ne esce.

Per ‘tranquillizzarmi’ mi dice che qui è pieno, siamo nel mezzo di una valle tappezzata di campi di riso e piantagioni. Non è che potevo aspettarmi altro.

Tento di farmene una ragione.

Ci facciamo una nuotata nell’acqua naturale della piscina, che affluisce direttamente da qualche sorgente sotterranea, mentre il sole cala definitivamente.

Andiamo a caccia di cena sfrecciando in motorino tra scure e fredde stradine, che sembrano il contrappasso del paesaggio giornaliero. Da lontano l’agglomerato di casette dei villaggi arroccate sui colli sembra un Presepe. O per lo meno io mi convinco che sia così.

Approdiamo al Warung Mendut, una pittoresca taverna a bordo fiume con tavoli a forma di becak (‘risciò’) a andhong (‘carrozze’) che offre specialità locali. Anche questo è semi-vuoto.

Ci rimpinziamo di zuppa di funghi, lontong bakar (tortine di riso arrostite), spiedini di carne mista con salsa piccante e un tè con mille spezie e tocchi di gula jawa. Non so io, ma le mie papille gustative non hanno definitivamente più reincarnazioni, è certo.

Lungo il tragitto di ritorno una cavalletta plana sul braccio di Lisa, tanto per ricordarmi comunque di non abbassare mai la guardia.

Se fossi stata io alla guida saremmo morte.

Ripassiamo davanti a quello che, ormai sono convinta, è un Presepe e andiamo a chiuderci nel bungalow ansiose di goderci quel letto che ci ha fatto gola sin da quando siamo arrivate.

Scanso un grillo dal copriletto e mi metto a sorseggiare del tè col miele appena comprato (non abbiamo mai smesso di mangiare è incredibile) pregando di non risvegliarmi mai nel mondo reale.

Alle 4.00 del mattino la sveglia smentisce ogni mia preghiera. Ci tiriamo giù violentemente come ci avessero strappate dal grembo materno e buttiamo cose nelle borse alla meno peggio. Abbiamo avuto la fantastica idea di voler vedere l’alba sulla valle del tempio.

Mi infilo nella doccia sperando di non ritrovarmi l’ennesima cavalletta in faccia, e sbrigo le mie faccende su un soundtrack di moschee (che non hanno mai smesso da ieri) e grilli hard-core.

Dormirei altre tre vite.

Fuori è ancora buio, solo il gazebo sulla piscina è illuminato da poetiche luci gialle come un’oasi nel deserto.

Indossiamo tutto quello che abbiamo di pesante, fa freddo.

Peschiamo un tè Sari Wangi e un caffè solubile Kapal Api dal cesto messo a disposizione dai gestori e ci riscaldiamo momentaneamente prima di sfidare il muro di gelo su due ruote.

Mentre Lisa dà il buongiorno ai fan su una nuova inquadratura io mi butto sull’amaca, anche se mi butterei per terra. Ma chi li ha inventati i tour all’alba? Perché?

Percorriamo strade totalmente alla cieca attraversando foreste a filo burroni e giungiamo all’imbocco del sito panoramico.

Chiuso per le misure di prevenzione anti-Covid.

Non demordiamo e continuiamo dritte, non ci sono barriere e, secondo l’esperienza presso altri siti turistici, in Indonesia, ‘chiuso per Covid’ significa essenzialmente che non troverai guardiani, chioschi e parcheggiatori. Il che scoraggia la maggior parte dei locali, ma non noi.

Come immaginavamo, il sito è aperto ma non c’è traccia di presenze umane alla biglietteria. Come al solito, quindi, ‘chiuso’ significa ‘gratis’.

Molliamo il motorino targato Yogya tra altri due motorini targati Magelang, lo inchiavistelliamo per sicurezza e ci lanciamo su per la salita buia armate di torce del cellulare.

Dico a Lisa che se ci dovesse fermare qualcuno possiamo giocarci l’arma delle turiste sceme. Io posso blaterare qualcosa in inglese e lei può fingersi di Sulawesi, come nei suoi spettacoli.

In realtà non ci ferma proprio nessuno, anzi, non c’è traccia di anima viva né di indicazioni di sorta.

Dopo minuti di affanni e brancolamenti nel buio arriviamo ad un punto morto. Secondo Google Maps siamo alla Gereja Ayam (la ‘Chiesa Pollo’, in realtà una costruzione a forma di colomba, ora adibita a museo). Quasi ci crederemmo, se non fosse che sappiamo che si trovi dalla parte opposta della vallata. Capiamo che dobbiamo spegnerlo e vedercela da noi.

Rinuncio ad un eroico lancio nella scarpata in avanscoperta e optiamo per momenti di brancolamento nel buio a caso, rigirandoci per capire dove siamo.

Quando comincia a rischiarare un minimo lo capiamo. Proprio alle nostre spalle ci sono dei gradini che conducono ad una terrazza panoramica. Una scritta gigante illustra: Puncak Setumbuh.

Mentre siamo intente a capire in che direzione dovremmo guardare per vedere il tempio, non ottenendo altro che accecamenti tra foschia e prime luci dell’alba, intravediamo altre persone venire verso di noi. Ben presto arrivano le presentazioni, è una famigliola in visita da Bandung, Giava occidentale. Il figlio avrà dieci anni ma ha già un canale YouTube ed è tutto intento a documentare la sua visita. Mi ritrovo lui da una parte con una fotocamera e Lisa con l’Osmo dall’altra. E il paesaggio lì snobbato in attesa che qualcuno se lo fili.

Io ci provo, ma degli alberi coprono la vista e il sole ancora non si decide a sorgere, nonostante siano le cinque e mezza passate.

Quando rischiara finalmente si comincia a ragionare.

La silhouette del Merapi incombe sulla pianura verdeggiante, schermata da nuvole color indaco. Una luce giallastra rischiara gradualmente ciò che è sotto i nostri piedi. Il minaccioso buco nero appare sempre più amichevole ed il baratro oscuro si tramuta in una valle ridente e soleggiata ad una velocità impressionante.

Il pungente freddo mattutino, il rumore dei grilli e i richiami delle moschee (non si sa chi è più tenace) lasciano spazio ad un concertato di cinguettii e canti di galli che si stratificano su diverse intonazioni (un po’ come i diversi adhan) ammantati dal calore dei primi raggi che accompagnano le prime attività mattutine dei villaggi in pieno risveglio. In mezzo a questo ritratto di vita, come un dettaglio su qualche Impressione del sole nascente, emerge la sagoma nera di Borobudur. Una maestosa torta su un enorme piatto verde rilucente.

Di fronte a noi si staglia la Gereja Ayam, stavolta quella vera. Checché ne dica Google Maps. Mentre le ultime foschie si levano dal suolo, e l’indistinta piana nebbiosa appare sempre più nitida e dettagliata, articolata nei diversi scorci abitativi, risaie, strade e boscaglie, un uccello ‘mette in moto’ e noi pianifichiamo altri prossimi punti panoramici da cui cogliere attimi di bellezza.

Ci evitiamo per fortuna tutti i set e scorci fotografici approntati dall’ente turistico locale (tutti questi siparietti pro-selfie che piacciono tanto agli indonesiani a me atterriscono abbastanza, rovinano tutta la naturalezza paesaggistica) e optiamo invece per un altrettanto imbarazzante saluto al sole.

Sono le sei del mattino e il sole comincia ora a salire verso l’orizzonte. Avremmo potuto dormire un’ora in più.

La piana ora quasi del tutto rischiarata si ammanta di una patina grigio-perlacea divenendo un’istantanea da vecchia cartolina. Nugoli di fumo bianco di alzano dai centri abitati. Per un momento penso ai camini, poi mi ricordo che in Indonesia non hanno camini. Ci teniamo il dubbio e continuiamo indisturbate il nostro Surya Namaskara, fatto di sequenze di cicliche posizioni di yoga, con tanto di cassa bluetooth che spara mantra indiani a tutto volume giù per la valle. Tanto per il discorso della deturpazione del paesaggio naturale. Ci sentiranno fino ad Ambarawa.

Alle sei e mezza siamo di nuovo giù per colli e campi, lungo il paesaggio lugubre di qualche ora fa che adesso appare magnifico. È incredibile come cambi dal giorno alla notte. Con la strada rischiarata sono visibili anche tutte le buche che ho evitato non so per quale mano divina. Mi rendo conto che sono passata letteralmente ad un centimetro da una frana di alcuni metri a lato carreggiata. Me ne dimentico in fretta rapita dalla veduta dei monti che si apre tra gli alti fusti di pannocchie (siamo circondati da cavallette, le percepisco, ce ne sarà un esercito).

Buttiamo lì qualche altro: “Monggo”, ad un gruppo di donne contadine a lato strada che si avviano alla loro giornata lavorativa.

Un cartellone rudimentale recita:

Di Rumah Aja

Corona Negatif, istri Positif

Stai a casa

Il Corona è negativo, la moglie è positiva

Non sono sicura di aver colto l’ironia, ma dovrebbe far ridere.

Rientriamo alla base sulla scia di una luce mattutina della bellezza al di fuori della nostra umana comprensione, con la convinzione che bisognerebbe alzarsi così presto più spesso. Kunyit prende il sole beata distesa sulle assi della veranda.

Tempo di cambiarci e usciamo conciate a festa di nuovo per i campi. È giunto il momento: non vo’ che al tempio.

Sfiliamo davanti ai baracchini in via d’apertura con gonne, kebaya e scialli alla balinese (chissà perché se vai ad un tempio ti senti comunque in dovere di vestirti alla balinese). Un omino macilento arranca verso di noi a torso nudo, arso dal sole, zappa in spalla e caping gunung in testa, su una scarpata.

Non so chi guarda più stupito chi.

L’esperienza al tempio potevamo anche risparmiarcela. Paghiamo 50.000 rupie (il prezzo normale per i locali, i con il mio fido permesso di soggiorno alla mano) per scoprire con disappunto, solo una volta entrate, che il tempio è visitabile solamente da fuori, a meno che non si voglia pagare una guida, per avere accesso solo al primo livello. Ovviamente ciò implica un costo aggiuntivo di 100.000 rupie e una fila immane con tanto di norme sulla distanza di sicurezza rispettate alla meno peggio e con molta confusione.

Inutile parlare di tutta la trafila di sanificazioni e misurazioni di temperatura (che risultano sempre misteriosamente tra i 34 e i 35 gradi, prossime alla beatificazione), di percorsi guidati, altoparlanti, sorveglianti ancora più confusi dei visitatori, e via dicendo.

Alla fine riusciamo – oltre che quasi ad accapigliarci con un gruppo di tizie che ci passa davanti dopo un quarto d’ora di fila sotto il sole cocente – a fare una breve toccata e fuga al primo livello, con la guida che ci spiega qualcosa circa le scene dei bassorilievi, me che gli spiego qualcosa sull’iconografia degli animali a protezione del tempio, assaggio del frutto maja (pron. ‘mojo’) che secondo la guida ha dato il nome all’impero Majapahit (‘maja amaro’), foto tattiche e via. Tana libera tutti.

Una cosa interessante però ce la dice. Qui a Borobudur, nonostante la storia e la tradizione di questo posto, non ci sono più tanti buddhisti. Ormai sono tutti musulmani. La cosa bella, però, è che pensano e si comportano come buddhisti e si prendono un sacco cura di questo luogo, nonostante per loro adesso sabbia un mero valore di candi. Si può dire che, in qualche modo, questo luogo qualcosa l’abbia preservata: il sincretismo religioso, più giavanese di qualsiasi culto in sé per sé.

Ci mettiamo più tempo a rifarci tutta la scarpinata fino al parcheggio che a visitare quel poco che resta visitabile della grande torta a strati tantrici in tempo di pandemia.

Un gatto mi tampina fino all’uscita senza darmi tregua, provo ad accollarlo ad altri passanti ma niente, ce l’ha proprio con me. Chissà quale reincarnazione è e di chi.

Quando arriva il momento di fare armi e bagagli è come realizzare, mentre stai facendo un sogno bellissimo, che il sogno sta per svanire e la sveglia è lì lì per suonare, quasi percepisci il primo squillo approssimarsi.

Ci concediamo un ultimo pasto allo stesso warung della sera precedente, rimpinzandoci con altri litri di zuppe e carichi di cibi speziati, ci facciamo un sonnellino buttate sulle panche del gazebo vista fiume e ci immettiamo nel tripudio di traffico della Jalan Magelang nel primo pomeriggio.

Ci fermiamo solo per una sosta caffè ad un Indomaret, accanto ad un raccapricciante rivenditore di ‘articoli per uomo’ indicante rimedi miracolosi per qualsiasi disfunzione sessuale e via di nuovo sotto l’arco di confine tra Yogya e Magelang, stavolta nella direzione opposta, riscendendo i livelli tantrici fino al pian terreno, fino alla vita presente, nel Samsara del ringroad con tutti i camion a carico.

Di Borobudur rimane un’istantanea nella memoria, una cartolina sbiadita come la visione mattutina della piana albeggiante color grigio e indaco.

L’aria è più fresca a Borobudur.
I colori sono più vividi. Il verde è più verde, il celeste incredibilmente celeste.
L’aria, a Borobudur, è profumata.

Avventuriere #1
Avventuriere #2
Avventuriere #3
Guado in jeep #1
Guado in jeep #2
Guado in jeep #3
Libertà
Vogue Indonesia #1
Vogue Indonesia #2
Gula Jawa
L’alveare
Janur Bungalow

Il Vlog della mia amica Lisa (è in Indonesiano, ma tanto per avere un’idea):