PANDEMIC EDITION #2

Prambanan

«Le aste delle meridiane erano pietrificate e frantumate in ciottoli bianchi. Gli uccelli dell’aria ora volavano in antichi cieli di pietra e sabbia, sepolti, il loro canto muto per sempre. I fondali morti del mare erano percorsi da correnti di polvere che inondava la terra ogni volta che il vento recitava la sua antica storia di distruzione. Le città erano granai di silenzio, dove il tempo si conservava immutabile, laghi e fontane di placidità e di ricordi».

(Ray Bradbury, La bottiglia azzurra)

Yogyakarta, 5 luglio 2020

In una comune post-apocalittica domenica yogyanese, noi, come le migliori eroine verdiane, ci rechiamo al luogo di culto.

Non vo’ che al tempio, e che tempio.

Prambanan, anche detto Roro Jonggrang, è il più grande tempio induista indonesiano, il secondo più grande nell’intero sud-est asiatico. In realtà non è un unico tempio ma un intero complesso di templi – molti dei quali semi-distrutti da terremoti e altre catastrofi naturali e attualmente in corso di restauro o ricostruzione – che si estende a nord di Yogyakarta.

È raggiungibile dal centro cittadino imboccando la Jalan Solo, ovvero la lunga noiosissima trafficatissima strada statale che connette le due città di Yogyakarta e Surakarta (detta anche Solo, per l’appunto). È un tempio che risale al IX secolo ed è dedicato alla Trimurti (Brahma, Vishnu e Shiva) e che ora conserva la sua sola funzione di edificio storico, candi in indonesiano, non più quella sacra, pura, come invece ad esempio quelli balinesi, luoghi di culto ancora attivi.

Ci ho messo sette anni a capire la differenza tra candi e pura.

Prambanan è una delle mete turistiche più gettonate dell’isola di Giava, patrimonio UNESCO e meta di tante gitarelle fine-settimanali per chi vive a Yogyakarta e, come me, è in possesso di un Kitas, il permesso di soggiorno che ti rende i prezzi uguali a quelli dei locali. Niente harga bule, ‘prezzo per bianchi’, il che include anche giapponesi, messicani, africani, insomma un po’ come i ‘barbari’ dell’Impero Romano. Non importa da dove tu venga, vieni comunque da fuori, quindi, paghi.

La maggior parte dei turisti pensa che Yogyakarta abbia due grandi templi: Prambanan e Borobudur. In realtà ne ha solo uno: Prambanan, perché Borobudur tecnicamente fa parte del distretto di Magelang, a nord-est della Regione Speciale di Yogyakarta, mancato per pochissimi chilometri e un arco di benvenuto sulla Jalan Magelang. Ma non è neanche esatto dire che Yogyakarta abbia solo un tempio. Ne ha diversi, la maggior parte concentrati nel nord cittadino, tutti intorno al Roro Jonggrang, che rimane il più quotato, pagato, visitato, fotografato, sponsorizzato, e via dicendo, in tutte le salse. Portachiavi, accendini, posaceneri, segnalibri, fermacarte, apribottiglie, è tutto a forma di Prambanan. Anche le parti architettoniche di alcuni hotel e ristoranti sono a forma di Prambanan. I tre stupa della Trimurti sono un leitmotiv ricorrente della vita Yogyanese, un po’ come i tondeggianti stupa boroboduriani. Anche se Borobudur non è Yogyakarta. Ma fa comunque colore, tu metticelo, nel dubbio.

Noi vogliamo andare contro le mode. Reduci da mesi di pandemia, sentiamo il bisogno di nuove avventure. Ma soprattutto, sentiamo di dover mettere a frutto tutti i quaranta minuti di motorino da Sewon a Sleman. Perciò, la nostra prima meta è Plaosan, uno dei grandi templi semi-caduti in rovina, alle spalle del big boss, isolato, ingiustamente ignorato e degno di un briciolo di considerazione.

In un grigissimo e pigro primo pomeriggio, dopo un pranzo a base di soto surabaya (‘zuppa di pollo in stile Surabaya’) in un angusto bugigattolo oleoso buttato tra altri mucchi di chioschi anonimi sulla Parangtritis, che – non lo diresti mai – è il miglior rivenditore di zuppe della città, e dopo chilometri di buche e sterzate selvagge, parcheggiamo il motorino sotto una tettoia di bambù di quello che si suppone essere il parcheggio del tempio. Il vecchino macilento in sarong e giubbino catarifrangente viene prontamente ad esigere il pedaggio: dua ribu, duemila rupie. Onesto.

Camminiamo fino all’ingresso del tempio, vuoto, deserto, desolato, ma soprattutto… chiuso. Un po’ meno onesto. Ce ne accorgiamo, oltre che dalle solite rudimentali recinzioni in bambù, transenne di plastica e pochi altri materiali riciclati (un po’ come le barricate in stile Parigi 1800 che ogni villaggio accrocca con minacciosi messaggi contro il Covid19), dal palese cartellone a sfondo giallo e scritte blu e rosse che recita palesemente:

MOHON PERHATIAN
DALAM RANGKA PENCEGAHAN COVID19 DILARANG BERKUMPUL DI AREA SINI

#LEBIH BAIK DI RUMAH SAJA

ATTENZIONE

COME STABILITO DALLE MISURE DI PREVENZIONE DEL COVID19 È VIETATO CREARE ASSEMBRAMENTI IN QUESTO SITO

#MEGLIO STARE A CASA

Nel dubbio, ignoriamo l’hashtag ammonitorio e ci piazziamo davanti la guardiola dei sorveglianti. Lì tiro fuori uno dei miei numeri preferiti: la turista scema e inconsapevole. A volte funziona e ti lasciano passare.

Tuttavia, il sorvegliante non si fa buggerare (sarà che mi ha sentito parlare in indonesiano con la mia amica sin da quando siamo arrivate) e mi risponde tranquillamente, in indonesiano misto a giavanese, che il sito è chiuso e non sanno quando potranno riaprire. In compenso, possiamo visitare Roro Jonggrang, che ha aperto da ben tre giorni.

Tutti i nostri piani di rivalsa contro il sistema crollano miseramente e vanno ad accatastarsi sui mucchi di pietre sconnessi che circondano il perimetro del tempio. Me la sono cercata, ho voluto fare la turista scema e turista scema sia: destinazione Prambanan.

Dopo aver mancato due o tre ingressi (chiusi, sbarrati, vietati etc.) becchiamo quello principale. Molliamo il motorino per altre profumate tremila rupie, il che in tutto fanno cinquemila (comincia a diventare un investimento) e ci avviamo verso la biglietteria.

Qua ho il problema opposto: dimostrare che non sono la turista scema piombata da ‘biancolandia’ in piena pandemia, ma ho un permesso di soggiorno, vivo qui da sette anni e non esco dall’Indonesia da circa otto mesi, quando ancora: “Corona che?”.

Riesco a convincere più o meno rapidamente il primo sorvegliante, quindi, ripeto la stessa manfrina con altri tre o quattro, il Kitas sventolato come fossi un agente dell’FBI in missione speciale.

Riesco finalmente ad accedere al counter dei locali, anche perché quello per gli stranieri mi pare del tutto chiuso. Con venticinquemila rupie a testa, io e la mia amica abbiamo l’ingresso assicurato, ma solo nel parco e nel perimetro del tempio. L’ingresso agli stupa e ai livelli superiori è precluso per via delle misure di prevenzione.

Ci accontentiamo comunque, eravamo partite da una missione all’Indiana Jones, ma dopo due ore ancora qui a contrattare sul biglietto e a superare barriere e transenne ci siamo ridotte al punto che ci basterebbe vedere il sito anche su una dimostrazione Power Point.

Superati i primi gironi infernali – quelli destinati ai turisti – ci imbattiamo in quelli, ben più peggiori, dei potenziali untori. Una serie di controlli e sanificazioni ci fanno perdere altri minuti preziosi. Il primo termometro rileva la mia temperatura corporea prossima alla beatificazione: 34.5. Credo che qualcosa sia andato storto nel settaggio. Il secondo, del resto, segna 36.7, quasi a rischio di divieto d’ingresso, calcolando che oltre i 37.03 si è considerati potenziali positivi al Covid19. Anche se hai solo un’insolazione o un’intossicazione alimentare. È questa, del resto, la nuova emozionante psicosi del secolo.

Dopo due o tre giri di lavate di mani (“Fai una giravolta, falla un’altra volta”) e una vera e propria rivoluzione di 360° sul mio asse all’interno di una cabina di plexiglass che ti inonda di disinfettante da ogni lato, superiamo i tornelli finali.

Otteniamo persino un fantastico bollino verde da attaccarci addosso tipo prodotti di origine controllata. Sarebbe stato più facile rapinare la banca centrale, ma siamo dentro.

Tanto per non perdere l’allenamento, ci raccomandano di non levarci la maschera per nessun motivo. Vorrei fargli notare che ci siamo solo noi, letteralmente. Ma mi faccio i fatti miei e poggio piede sulle ruvide lastre color antracite del sentiero principale, esattamente sulla scritta gialla che intima:

JAGA JARAK

KEEP SAFE DISTANCE

1 METER

Sono abbastanza sicura che le norme europee prevedano almeno 1,8-2,00 metri di distanza di sicurezza, ma direi che non ci vanno comunque leggeri.

“Miss, miss!”

Tutti i miei sogni di gloria post-apocalittica si infrangono all’eco di queste familiari parole.

“Where you from Miss?”

Mi giro verso l’unica altra presenza umana rilevata all’interno del complesso archeologico, un omino con t-shirt nera, cappello di paglia e Canon a tracolla. Dall’alto della mia frustrazione e desiderosa di sfoderare l’arma vincente, rispondo in giavanese alto: “Kulo saking Italia, sampun piteng taun neng Indonesia” (“Sono italiana ma sto in Indonesia da sette anni”).

Questi mi guarda dubbioso.

“Aku dari Sunda…” (“Io sono sundanese”) mi risponde in perfetto indonesiano standard. Ergo: viene da un’altra regione. Ergo: non ha capito nulla di quello che ho detto.

I miei sistemi di prevenzione sono più rigidi di quelli anti-Covid.

Se ne va sconsolato a fotografare paesaggi all’ombra di qualche rovina e lascia me e la mia amica nella nostra relativa pace. Se non conti gli uomini in divisa armati di minacciosi termometri elettronici settati male e hand-sanitizer, in agguato ad ogni angolo.

Più che un sito archeologico sembra un campo di concentramento. Le voci metalliche che fuoriescono dai megafoni recitano tutte la stessa litania:

Non rimuovere la maschera, mai

Rispetta la distanza, sempre

Lavati le mani, nel dubbio

Anche il ‘girovagare’ nel parco non è poi così libero: c’è un sentiero stabilito che ti guida dritto verso l’uscita nel modo più rapido e sicuro possibile.

Tanto per dire che ci sei stato, insomma.

Tanto per ricordarti che – nonostante sia meglio che tu #stiaacasa ma ovviamente non ci sei perché sei già impazzito a sufficienza durante i tre mesi scorsi ed è tanto che non se sei uscito con più psicosi di quante ne avessi in partenza – ti stai godendo il tuo soggiorno durante una situazione di crisi mondiale.

Ci sediamo su una romantica e insensata panchina di metallo dipinta di bianco infarcita di piante rampicanti e ghirigori, vista tempio. Nel passato pre-apocalittico, un grazioso punto fotografico per coppiette. In questo presente distopico, un angolo nascosto alla vista degli uomini in divisa per poter abbassare la maschera e rifiatare qualche minuto.

Un albero di frangipani (bunga kambodia) si presta come quinta ideale per il magnifico spettacolo che si apre all’orizzonte. Il tempio di Roro Jonggrang in tutto il suo splendore, vuoto, desolato e decadente, sgretolato da secoli di storia e di susseguirsi di governi, religioni, occupazioni coloniali, cambi climatici e chissà che altro che se solo potesse raccontare…

Prendo poeticamente in mano il rametto di frangipani nel tentativo di fare una foto rara, di quelle senza gente intorno, che sembra che ci sia solo tu, e adesso neanche sembra, è proprio così.

Vengo irrimediabilmente assalita da formiche, frotte di formiche, squadroni imperiali di formiche marciano lungo il mio avambraccio come le antiche truppe del regno di Majapahit. Ci manca solo il sottofondo musicale, come nei wayang.

Mi levo dall’albero in fretta e furia e continuo il percorso.

Come avessero letto nei miei pensieri, i custodi fanno partire musica gamelan dagli altoparlanti sparsi agli angoli del parco attorno al tempio. Un’esplosione di solenni battimenti metallici ci accompagna verso l’accesso agli stupa, come due regine.

L’incantesimo si spezza pochi passi dopo.

ALT!

LAVARSI LE MANI

INDOSSARE LE MASCHERINE

MANTENERE LA DISTANZA

La voce metallica del megafono ci fa trasalire.

Ci laviamo le mani ad un traballante lavandino malfunzionante, ci ficchiamo due frangipani in testa ed entriamo sfoggiando il nostro outfit tempio: due kebaya di cotone.

La guardia all’entrata ci chiede se siamo balinesi.

Passi per la mia amica che è indonesiana, ma io?

Sarà il fascino del kebaya e dei frangipani.

Cominciamo il nostro brevissimo percorso, che consiste nel circumnavigare il perimetro esterno del tempio tra mucchi di pietre e rovine. Abbiamo giusto il tempo di ammirare gli stupa un po’ più da vicino e farci le classiche foto in pose di yoga che se non le posti su Instagram è come se non ci fossi stato davvero. E fine.

C’è un altro gruppo di persone che attende che schiodiamo per intraprendere lo stesso giretto.

Troviamo un punto morto, sarà che è una brutta angolazione per le foto, poco prima dell’uscita e ci sediamo a goderci un po’ l’atmosfera.

La mia amica mi spiega la storia dei Candi Sewu, i ‘mille templi’, un altro complesso templare a poche centinaia di metri dal sito centrale, ora momentaneamente chiusi ma solitamente inclusi nella visita.

La storia, a farla facile, è più o meno questa:

Il principe Bandung Bandawasa si innamora della principessa Roro Jonggrang, e fin qui tutto bene… se non fosse che il caro principe è lo stesso che le ha conquistato il suo regno e ucciso suo padre. Il che non ti rende proprio il candidato ideale. Come fai a farti perdonare? Come ogni uomo (mi assumo la responsabilità dell’approccio sessista) fai una promessa che non potrai mantenere.

Lui la fa bella grossa: costruire mille templi. Quasi ce la fa: arriva a 999, ma qualcosa va storto (per una versione più approfondita e meno di parte consultate veri libri di storia e mitologia giavanese, tipo ‘A journey across Java’ di Ian Burnet, per dirne uno.

Se il problema persiste, consultare lo sciamano).

Insomma, come volevasi dimostrare, non è lui l’eccezione che conferma la regola, la promessa non viene esaudita. E lui che fa? Invece di prendere baracca e burattini e dire ‘vabè, scusate, errore mio, sarà per la prossima guerra sanguinaria’, si fa montare la rabbia per il fallimento dell’impresa e tramuta la cara principessa in pietra. La sua statua (in realtà la statua della dea hindu Durga, che è la versione di Roro Jonggrang secondo i giavanesi) è visitabile all’interno del tempio (fuori ore pasti e pandemie).

Dopo questa avvincente storia, e dopo aver improvvisato una improponibile versione a due voci di Udan Mas (‘pioggia dorata’) – il brano di gamelan classico che chiude le sessioni musicali – sedute sull’erba fresca, gli altoparlanti si ammutoliscono momentaneamente e noi ne approfittiamo per concludere il nostro percorso e avviarci verso l’uscita, come del resto i nerboruti sorveglianti con megafoni e termometri ci invitano a fare.

È bello vedere Prambanan così, anche se per poco e da lontano: intoccato, pulito, vuoto e silenzioso, lasciato alla sua antica pace senza schiamazzi, selfie-stick, “poto poto misterrr”, cartacce e guru dello yoga da social.

L’apocalisse a Prambanan gli ha fatto proprio bene.

L’aria è più pulita, l’erba più alta, il senso del sacro propriamente rispettato, come ogni luogo sacro (che sia candi o pura) dovrebbe essere.

Spendiamo i nostri ultimi minuti di tour tra improvvisazioni di danza giavanese sul vialetto d’uscita (ora gli altoparlanti sparano musica per danza a tutto volume) e una breve visita al parco degli animali: cerbiatti, capre, pavoni e via dicendo. Non mi piace vedere gli animali in gabbia, dunque cerco di tagliare corto.

Esco da Prambanan quasi più soddisfatta di tutte le altre volte, quelle in cui ho sgomitato con nugoli di gente per sfruttare in lungo e in largo il sito, ogni singolo decoro, gli accessi agli stupa, la foga delle foto perfette che poi non se ne salva una perché hai sempre un giapponese dietro con un aggeggio elettronico o una signora con un buffo cappello che fa da foto-bomber. Più di tutte le altre volte in cui non mi sono fermata un attimo a godermi il silenzio e il suono del vento tra i le pietre, a riflettere sulle storie e le leggende e a dedicare qualche canto improvvisato alle annoiate divinità che abitano il posto.

Ho fatto cinque foto di numero, tutte perfette.

Graze Roro Jonggrang, grazie Brahma, Shiva e Vishnu, grazie Prambanan.

Dumogi Rahayu

Ma la nostra visita non finisce qui.

Pare che ci sia un altro tempio aperto, un altro sito che sfugge alle leggi del nostro tempo presente, che non tiene conto di pandemie e apocalissi. Del resto, è il tempio dedicato a Bathara Kala o Kala Makara, il demone del tempo (e/o della morte, anche qui, consultate esperti seri in materia per carità).

Il sito di Kalasan – che contrariamente a quanto si potrebbe pensare non prende il nome da Kala, ma proprio da Kalasan, che è la zona a nord di Yogyakarta in cui esso è situato – appare davvero ‘solo et pensoso’. Non solo non ci sono turisti, ma non ci sono neanche sorveglianti, parcheggiatori, misuratori di temperatura e sanificatori. In questo angolino nascosto di mondo il tempo si è fermato davvero.

Buttiamo il motorino a caso in un piazzale antistante al tempio come si conviene (finalmente un po’ di ‘autenticità’), e cominciamo a circumnavigare il perimetro. Entriamo letteralmente in casa degli abitanti del kampung (‘villaggio’) locale le cui verande si affacciano direttamente sul tempio. Un salto oltre la siepe e sei dentro. Bambini scalzi infastidiscono grossi gatti e giocano nel canale dalle acque stranamente limpide che scorre fuori le loro abitazioni, inconsapevoli di ciò che hanno di fronte. Rigogliose piante e fiori di ogni sorta incorniciano l’edificio, purtroppo in ricostruzione.

Nonostante le facce di Kala poste a protezione ai quattro angoli, contorniate di magistrali decorazioni intarsiate nella pietra e ogni sorta di bassorilievi – che anche se semi-cancellati bastano a testimoniare la grandezza passata – i numerosi terremoti, le erosioni dovute allo smog e tutto il resto, hanno minato gravemente l’aspetto del tempio. La sensazione rimane comunque quella di trovarsi in un luogo degno di rispetto, pieno di energia, anche se assopita e contenuta nelle impalcature.

Torno a casa con la convinzione di volermi tatuare la faccia di Kala-Makara.

Ai miei coinquilini giavanesi gli piglia un colpo. Nonostante, apparentemente, nell’iconografia indo-buddhista il simbolo del Kala-Makara abbia un significato positivo e sia stato posto per l’appunto sui lati del tempio per combattere lo scorrere del tempo, nella mitologia giavanese (soprattutto quella legata al teatro delle ombre) è qualcosa che proprio va evitato. Tanto che esistono specifici rituali esorcistici (ruwat o ruwatan) per scacciare l’indesiderata presenza di Kala che pare, tra l’altro, prediliga i figli unici, proprio come me.

Dopo altri accurati calcoli sulla mia data di nascita (che pare corrisponda a Jumat Pahing nel calendario giavanese) e altre poche considerazioni, mi consigliano vivamente di farmi vedere da uno sciamano. Ci risiamo (vedi Fantasmi da Semarang). Ma perché finisce sempre che alla fine di ogni villeggiatura mi devo far fare un esorcismo?