«In tempi antichi, la gente andava ad assistere agli spettacoli di wayang per essere parte di un rituale e per riflettere, per apprendere concetti di morale e religione. Ora i tempi sono cambiati. Gli individui sono troppo preoccupati per le questioni politiche ed economiche di ogni giorno e non vogliono più riflettere su altre problematiche. Vogliono solo svagarsi, liberare le loro menti e godersi un po’ di intrattenimento. Le nuove generazioni sono attratte da nuovi generi musicali e da nuove forme di spettacolo promosse dai media. Se il wayang vuole sopravvivere deve adattare la sua tradizione alla modernità. Può mantenere le sue caratteristiche basilari ma deve cambiare la sua funzione: non più un mistico rito ma una sorta di show-time».
(Pak Udreka, comunicazione personale)
9 ottobre 2013
Ore 18.00
Yogyakarta
Mi sveglio con calma dando per scontato che la lezione inizierà mezz’ora dopo l’orario ufficiale. Alle 9.11, mentre ho un biscotto al cocco in bocca, la tazza di caffè in una mano e il mio sandalo nell’altra (l’altro lo ha in bocca Bintang), mi arriva un messaggio del professor Udreka: “Sekerang saya sudah di kelas” (ergo: sono già in aula).
Allora lo fate apposta.
Dunque, tanto per cambiare, mi improvviso Valentino Rossi sulla Parangtritis e in dieci minuti sono lì. Entro e l’aula è deserta, ci siamo solo io e lui. Mi viene in mente che sia venuto in anticipo appositamente per me. Infatti apre il computer e comincia a farmi vedere foto e video delle varie performance e a descrivermi tutto ciò che gentilmente mi ha passato sulla pennetta USB. Nel frattempo arrivano altri tre o quattro studenti e gli altri due professori e la lezione ha inizio.
Oggi grazie al libro capisco qualcosa in più, posso seguire le scene tratte dal copione – anche se non posso ancora intendere i dialoghi – intervallate a canti e brani strumentali di cui il professore mi indica di volta in volta la notazione. Non è comunque facile stargli appresso, ma me la cavo meglio delle altre volte. Perlomeno so che sto facendo.
Dopo la lezione, Pak Udreka mi invita a bere un succo di mela alla cantina (kantin) del campus, assieme a Taqweem e altri studenti che fanno da interpreti tra indonesiano/giavanese e inglese. Rimaniamo lì a discorrere finché non ci viene fame, quindi ordiniamo un piatto di noodles (ormai ribattezzati: “Spageti” in mio onore).
Poi il professore deve abbandonarci, così come altri studenti che hanno altre lezioni da seguire, ed io rimango con Pak Aneng, un giovane maestro interessato in musica occidentale, col quale ho parecchio da discutere. Lui parla abbastanza bene inglese (o comunque meglio degli altri) e ha passato mesi in Portogallo ad insegnare gamelan con una missione cristiana, quindi talvolta inserisce termini quasi familiari nella conversazione. Rimaniamo due ore a parlare di musica e nascono proposte di collaborazione tra pianoforte e gamelan e inviti a partecipare a lezioni e prove di karawitan per incrementare la mia abilità tecnica (che rispetto alla loro attualmente è zero).
Torno a casa e, tra un bucato e una chiacchiera con Daniel, mi do allo studio e alle traduzioni. I testi sono in indonesiano se mi dice bene, in giavanese se mi dice male e in giavanese antico se proprio mi dice malissimo. Ho la testa che scoppia. Stasera Pak Udreka mi ha invitata a delle prove gamelan che si svolgeranno alle 20.00 non so dove, ma l’appuntamento è all’ISI, quindi suppongo di riuscire ad arrivare incolume.
Ore 1.32
Sto cascando dal sonno, ma sono ancora in grado di produrre un resoconto decente. Arrivo come stabilito puntualissima alle 20.00 davanti al dipartimento di Pedalangan e di Pak Udreka non c’è traccia. Aspetto un po’ tra i soliti mille messaggi e chiamate in giavanese (perché usare l’indonesiano quando si può usare il giavanese?) e domande in inglese che non trovano risposta. Poi rinuncio, e mi dico che prima o poi arriverà e mi geolocalizzerà in qualche modo.
Mentre sono ormeggiata nel parcheggio deserto in balìa di strane nenie monotone (in tutti i sensi, una serie di ribattuti snervanti in qualche semitono calato di eroina, più che calante) mi vedo arrivare incontro Taqweem: “What are you doing here?”, esclama lui sorpreso. Io sono altrettanto sorpresa e gli rigiro la domanda. Lui lì ci abita, mi dice. Credo si riferisca agli alloggi per studenti del campus. Gli spiego che sto aspettando il professore per andare con lui alle prove del gamelan. Lui, carinissimo come al solito, mi tiene compagnia e mi aiuta a decifrare i criptici messaggi che continuano ad arrivare e a scrivergli risposte accettabili in giavanese.
Grazie a Taqweem capiamo finalmente, io e Mr. Udreka, che ci stiamo aspettando a vicenda circa da mezz’ora, dai due lati opposti dell’edificio. Meraviglioso. Lascio casco e motorino in custodia al mio amichetto e monto sulla Toyota sette posti del professore. Dopo chilometri di Parangtritis, facciamo una serie di svolte che non ricorderò mai e arriviamo alla sua prima casa, dove dovrò andare domani pomeriggio per una lezione privata. Proseguiamo per altrettante vie buie, strette e ricche di vegetazione per arrivare alla sua seconda casa. Non ho ancora conosciuto nessun altro con due case qui. Comincio a rivalutare l’idea di impararmi il giavanese, continuare gli studi qui e diventare dalang.
Il tragitto è allietato da musica pop indonesiana contemporanea che promana melensa e vergognosamente diatonica dallo stereo, e un nuovo gioco: azzecca il giavanese passando per l’indonesiano standard e traducilo in inglese. Arriviamo finalmente alla famigerata dimora e sono ad attenderci i musicisti della troupe personale di Pak Udreka. Inutile parlare del solito ingresso da aliena sulla terra, con tanto di fraintendimenti geografici (vedi: “Hey… California!”- ritenta.).
Ci leviamo le scarpe ed entriamo nella grande costruzione di legno e bambù adibita a ‘sala prove’ (è fantastico usare ogni volta i termini occidentali per descrivere realtà del tutto diverse). Mentre ascolto con ammirazione il brano in esecuzione faccio amicizia con la migliore amica nonché alunna di Pak Udreka. Si tratta di Utami, una ragazza musulmana che studia canto sindhen, parla inglese al contrario di tutti gli altri e non fa altro che riempirmi di complimenti dall’inizio alla fine della serata e non fa altro che toccarmi e mi riempie di attenzioni e premure.
Proprio quando è il momento di mettere alla prova le mie doti di gamelanista dilettante, neanche ho il tempo di cominciare il rituale di ritrosia e imbarazzo che c’è un cambio di programma: si va a vedere una performance di wayang kulit. Ecco. Ci voleva proprio.
Montiamo tutti e sette nella spaziosa Toyota e ci inerpichiamo sulla prima montagna che ho il piacere di solcare da quando sono qui. Siamo nel distretto sud-orientale di Yogyakarta (Gunungkidul) fuori città a quanto sembra, non so esattamente in che zona. So solo che dal finestrino vedo buio, banani , dirupi con lucine lontanissime sottostanti, curve prive di guardrail e pezzi di stradine sterrate con buche e radici giganti. Qualche capanna solitaria fa capolino dalla vegetazione sporadicamente illuminata da un timido lume. Individui seminudi con coperte addosso sono pianatati ai lati della via.
Finito il safari, approdiamo ad una casetta in cima a delle rocce, nel mezzo della foresta e del nulla. Il clangore degli ottoni percossi si sente già dalla macchina, ma quando scendiamo vedo uno spettacolo magnifico, che non ha prezzo. Un piccolo gruppo di persone siede intorno ad un allestimento per una performance di teatro delle ombre, sotto un pendopo dal pavimento ricoperto da tappeti finissimi di bambù. Su di esso si staglia fiera un’orchestra gamelan consumatissima priva di rebab, ma con siter e suling, e il glorioso kelir con le figure del Ramayana pronto per l’uso. Intorno pietre, sassi, banani a non finire con tanto di frutti maturi traboccanti da ogni lato, e buio.
Tutti hanno abiti giavanesi addosso, eccetto noi. Mentre ammiro i vestiti delle sindhen, la mia amica mi dice che devo assolutamente provarne uno e farmi fare delle foto (non immagino neanche quante ne farò in futuro). Ci sediamo praticamente ‘dentro’ l’orchestra e comincio a fare foto all’impazzata col cellulare (volevo uccidermi per non aver portato la Canon). Continuo a ricambiare mille sorrisi, sguardi curiosi e sussurri colmi di: “Bule” (bianca). Se non altro siamo già un passo avanti dai ‘California’.
Sono praticamente dietro ad un saron, vicino al suonatore, e ho modo di filmare tutte le melodie battute nota per nota, con tanto di partitura cifrata sulle sue ginocchia. Dopo un po’ passano col solito tè caldo e con una bustina contenente degli snack. Non ho cenato, ma sono troppo presa dal riprendere ogni cosa possibile per darmi al cibo. Dopo il sesto: “Makan” (mangia!), cedo. La bustina contiene un dolce al cocco oleosissimo ma saporito, una mini banana e un involtino di riso con qualcosa dentro che sa vagamente di salsa di soia dolce, ma poi va a capire. Comunque mangio tutto, con evidente soddisfazione dei signori vicino a me.
Dopo circa due orette Pak Udreka mi fa cenno di andare. Mi alzo a malincuore. Creo il panico per rinfilarmi le scarpe (capisco perché indossano sempre sandali e infradito, se in ogni posto in cui entri è un ‘leva e metti’ continuo stai fresco) e saluto tutti con larghi sorrisi prima di rimontare in macchina. Sul tragitto del ritorno ci fermiamo nel solito nulla con contorno di nulla immerso nel nulla, in una casina in legno che pare essere una tavola calda. Lo è.
Dentro ci sono i tappeti di bambù e dei tavolinetti bassi con relativo cestino posate e teca dei cracker frittissimi sopra. Ordinano anche per me nonostante gli dico che non abbia fame, dunque, mangio di nuovo. “Dimagrirai in Indonesia”, dicevano. Il piatto che arriva è enorme ed è un misto di pasta gommosa tipo gnocchi ma trasparenti e lunghi, verdure di ogni tipo, pollo, uovo e quintali di piccante. Ho la bocca che va a fuoco. Per fortuna c’è il tè… bollente. Ma poi ne esco viva.
Torniamo a casa del maestro che scarica gli altri e poi mi riaccompagna al campus dove Taqweem mi rende il mio mezzo di locomozione con relativo copricapo. Poi scatta la gag-time. Giunta all’ingresso principale dell’ISI, convinta di girare indisturbata per la via del ritorno, mi trovo tutto sbarrato. Vado nel panico. Chiedo a dei tizi fermi lì e loro mi fanno cenno di usare l’uscita dall’altro lato del campus. Mi metto a supplicarli: “Oh no please, I will get lost, I need Jalan Parangtritis, please”.
Finisce con quattro poveri malcapitati che si incollano il motorino per farlo scavalcare dall’altra parte. Che dire, in quanto a performance, non abbiamo di che lamentarci.