«Nessuno può muoversi sul posto dove si trovava seduto o in piedi; il caldo di tante persone, di tanti lumi; il tanfo di tanti moccoli accesi e spenti di continuo, le grida di tanta gente, che urla tanto più furiosamente quanto meno è in condizione di muoversi finiscono col dare il capogiro anche allo spettatore più equilibrato. […] Tuttavia, poiché alla fin fine ognuno non vede l’ora di svignarsela e chi infila il primo vicolo che capita, e chi cerca un po’ d’aria e di refrigerio nella piazza più vicina, tutta questa massa di popolo si squaglia e si fonde dalle estremità al centro, e questa festa della licenza e della sfrenatezza universale, questi saturnali moderni finiscono in un abbrutimento generale».
(J. W. Goethe, Il Carnevale romano)
8 ottobre 2013
Ore 16.45
Yogyakarta
(Parte 2)
Dalla puntata precedente: “[…] torno felice a casa traversando la città deserta, mentre nel cielo spunta il sole. Meh rahina, come recita il mantra, è quasi l’alba”. Sono un po’ meno felice due ore dopo, quando devo svegliarmi per andare a lezione. Letteralmente: L’alba dei morti viventi.
Mi sbrigo più che posso e rischio anche un incidente significativo al semaforo, con il motorino che cade di peso sulla mia gamba per il manubrio sfuggitomi di mano. Per fortuna è rosso e lo rimane per molto, o almeno abbastanza per ritirarlo su e rimettere in moto.
Dopo tutto ciò arrivo comunque in ritardo, e arrivo comunque per prima. Devo imparare a prenderla con più calma, kudu sabar, come direbbero i giavanesi. Dopo un po’ che aspetto parcheggiata fuori dall’aula arriva uno dei miei compagnucci di classe e mi dice di entrare a provare con lui qualche sequenza di marionette sullo schermo. Quando arrivano anche gli altri ci mettiamo agli strumenti. Per ora mi cimento solo nel saron visto che qua suonano in modo molto più avanzato rispetto a come suonavamo all’ambasciata a Roma. Attendo le lezioni di tecnica di karawitan che forse inizierò la settimana prossima per passare a strumenti più complessi.
Dopo un po’ mi sveglio davvero. Noto facce nuove e mi ricordo che questo è il corso intermedio. Tremo. I ragazzi sanno già che fare davanti lo schermo, sanno cantare e recitare sequenze intere con tanto di segnali scanditi con l’apposito mazzuolo sul baule in legno per stabilire i cambi di battuta dei personaggi e gli attacchi musicali. Ergo, rimango inchiodata al saron tipo Rose all’iceberg mentre il Titanic affonda. Anche questo tuttavia mi richiede parecchio impegno dato che la melodia, seppur abbastanza lineare, ha un ritmo difficilissimo, che seguo a stento. Ma non c’è da preoccuparsi, uno dei maestri mi segue dal saron a fianco, mentre l’atro continua a riempirmi il taccuino di appunti tra uno stacco e l’altro.
A fine lezione il maestro Udreka mi lascia l’ennesimo contatto e mi invita a casa sua in settimana per lezioni private. Mi lascia anche il suo libro di testo, in giavanese, per fotocopiarlo. Mi farò aiutare da qualcuno a tradurlo, magari è la volta buona che imparo pure qualcosa. Dato che il ragazzo della ‘copisteria’ (vedi baracchino con fotocopiatrice sommersa di polvere e storia) mi dice di tornare alle 15.00 e sono solo le 13.00, ne approfitto per andare in cerca di una libreria che avevo visto locata in zona Bantul, in disperata missione: trova epiche indiane in inglese e dizionario inglese- giavanese.
La missione è più disperata del previsto. Il punto è: la libreria è sulla mappa, ma non la strada in cui essa è situata. Trova l’errore. Giri su giri in quel di Parangtritis dopo, mi stufo e mi fermo ad un chiosco a mangiare. La signora è visibilmente compiaciuta del fatto che mi rivolga a lei in bahasa indonesia ed elargisce sorrisi e consigli culinari… che non capisco. Ma lei non lo saprà mai. Sorridere e annuire, sempre.
Rimonto in sella e, forse rinvigorita dal cibo in corpo, metto tutto l’impegno possibile nel tentare di ingegnarmi da sola a capire dove si trovi questo luogo senza mappe o navigatori. La fatina buona dell’orientamento apprezza il mio sforzo e mi conduce in bocca alla libreria per vie traverse: attirandomi in una strada sulla quale troneggia l’insegna della cioccolateria Monggo. Sono talmente piacevolmente sorpresa che lascio stare persino la cioccolateria. Tuttavia faccio un buco nell’acqua. Più che una libreria è una specie di edicola al chiuso, ha perlopiù riviste e romanzi-spazzatura indonesiani. Sono attratta da una rivista di pop asiatico emergente, ma lascio stare sia per la lingua sia perché, conoscendomi, so di cosa potrei ritrovarmi pieno il lettore mp3.
Mentre torno all’ISI mi fermo per strada morente di sete in cerca di una bevanda fresca e mi ritrovo a sorseggiare latte di cocco da una noce fresca grossa quanto il mio casco. Ogni tanto mi scordo a quali latitudini mi trovo.
Arrivo all’ISI comunque mezz’oretta prima e decido di utilizzare il tempo per mettermi alla ricerca della biblioteca dell’istituto. Fallisco (tanto per provare il brivido di una nuova esperienza). Ottengo però una magnifica informazione errata da un custode che mi porta dritta, dritta alla Galleria d’Arte dell’università. Mi faccio un giro per i quattro piani di opere di artisti sconosciuti, alcune anche di un certo livello, finché non mi ritrovo all’ultimo piano deserto, tra travi pericolanti, mattonelle sconnesse, polvere e cadaveri di scarafaggi dei quali spero di non trovare i congiunti.
Corro a ritirare le fotocopie. Un libro intero mi costa solo l’equivalente di due euro, mi riprometto di riprodurmi l’intero reparto musicale e teatrale della biblioteca, quando la troverò. Tornando passo per il Superindo a comprare un po’ di cose futili e appaganti come cioccolata, frutta strana buttata nel cestino a casaccio, White Coffee, Oreo ai mille gusti mai visti (tipo gelato all’arancia), un’agenda di Doraemon per gli appunti e poco altro.
Metto piede in casa ancora più distrutta e cadente a pezzi, vogliosa solo di tanto sonno, una doccia e tempo per scrivere il mio diario e i miei appunti per la tesi, ma ovviamente è fuori discussione. Daniel freme per andare insieme a vedere la sfilata che si tiene in centro per il Carnevale, in occasione dell’anniversario della città. Era proprio quello di cui avevo bisogno.
E dunque via di nuovo a zonzo per la coloratissima e festante Yogya, tra caos di motorini, folla chiassosa, polvere, smog e costumi pittoreschi di gente proveniente da ogni isola della nazione. Un’esperienza degna di nota. Sabato ci sarà il gran finale sul palco nella piazza principale a Malioboro e si farà festa tutta la notte. Non vedo l’ora, ammesso che io ci arrivi a sabato.
Scampiamo al panico del ritorno che prevede ingorghi e accatastamenti stradali di ogni sorta – mentre gente con ogni cosa addosso in mano e caricata sui bicicli di ogni sorta attraversa allegramente da ogni dimensione di spazio esistente – e ci reimmettiamo sulla cara scorrevole Parangtritis.
Prima di fare ritorno alla magione, accompagno Daniel al Jogjatronic per comprare un tablet per la nipotina e trovo l’amore: un teleobiettivo Canon a soli due milioni di rupie (neanche duecento euro). Con gli occhi a cuore, il cuore in mano e le mani sugli occhi per la gioia salto letteralmente sulla commessa e gli dico che tornerò presto. Lei non so che abbia pensato ma vedendomi in quello stato di agitazione ha fatto una faccia contrita come per scusarsi.
Riesco a mettere piede a casa, finalmente, ma di riposo non se ne parla. Daniel, visibilmente affascinato dalla mia attività di ricerca e più che partecipativo, mi tiene tutta la serata nel giardino con YouTube a portata di mano a parlarmi ore delle varie tradizioni musicali yogyanesi, dal wayang all’hip-hop, alla danza, ai milletrecento generi suonati col gamelan, che a quanto pare si adatta davvero a tutto dal jazz, all’ambient da resort balinesi, alla dance, alle colonne sonore dei film occidentali e via dicendo. Mi spiega vari significati politici e sociali dei vari generi nascenti, legati alla storia della città e al suo statuto speciale di regione indipendente dal resto dell’isola.
Yogya è una città particolare, coacervo di artisti e melting pot di culture e religioni provenienti da ogni parte della nazione ma anche da influssi indiani, cinesi, arabi, olandesi e australiani. Al tempo stesso però è il cuore pulsante della cultura giavanese, quella che conserva le tradizioni più antiche (tra le quali il wayang) e le tiene vive innestandole a nuove, sempre più vive e fiorenti. Lui, come gli altri abitanti, si sente molto legato alla città e difende la sua particolarità e le sue tradizioni contro il governo indonesiano che tenta un’omologazione sotto l’ombra di Giacarta. I yogyanesi sono molto legati al loro sultano, al suo palazzo, alle sue guardie variopinte e a tutto ciò che rende questa città la più importante dell’isola e forse dell’arcipelago (per loro è letteralmente il ‘centro dell’universo’).
Tutti questi discorsi impegnativi mi danno la mazzata finale. Vado a letto prestissimo (le undici, che per me praticamente è ancora pomeriggio) e spengo finalmente le luci su un sipario aperto due giorni di fila non-stop.
Ore 23.00
Stamattina mi sveglio più riposata, anche se per esserlo del tutto dovrei dormire altri tre giorni. Neanche il jet lag era riuscito a ridurmi in questo stato.
Come da routine, credo sia tardissimo, mi uccido per arrivare i soliti due minuti prima dell’orario canonico… e aspetto. Ma oggi aspetto più del solito e non capisco perché. Poi una mia compagna di classe mi dice che oggi la lezione è sospesa perché c’è un contest di sindhen dunque saranno tutti lì, professori compresi. Mi dice però che se voglio posso partecipare ad un corso che sta per tenersi nell’altra aula, è sempre wayang ma in stile Surakarta. Nel dubbio, partecipo.
Mi metto buona, buona al mio solito saron, mentre il professore mi scrive la notazione del pezzo da eseguire sul quadernetto e guardo gli studenti che a turno eseguono le scene sullo schermo. Dopo un po’ viene a farci visita uno studente Darmasiswa e trovo qualcuno con cui discorrere liberamente in inglese tra un brano e l’altro (dopo un po’ il giavanese stanca). Andiamo a prenderci un caffè dopo la lezione e tra una cosa e l’altra gli chiedo se sa qualcosa circa l’esistenza di una biblioteca. Lo sa, mi ci porta. Mi si apre un mondo.
Trovo l’intera enciclopedia del wayang kulit, in sei meravigliosi e colorati volumi… in indonesiano. Non è che si può avere tutto dalla vita. Ordino le copie del primo volume, prefissandomi di fotocopiarli tutti e darmi ad un’opera di traduzione mai vista nella storia delle traduzioni servili. Trovo anche dei libri in inglese e comincio la lettura. La finisco subito: la biblioteca chiude alle 14.30 (decisamente mi sento come alla Sapienza). Torno a casa con questioni irrisolte e tuttavia lieta di avere del materiale disponibile da utilizzare, anche se solo dalle 9.00 alle 14.30.
Il pomeriggio trascorre tranquillamente, finalmente posso sbrigare le mie cose e concedermi una cena da Milas con Stefi e l’altro coinquilino. Finalmente ho occasione di conoscerlo. Teddy, indo-americano, super tecnologico e molto silenzioso ed educato (tanto che non avevo neanche capito che viveva in casa con noi), ha vissuto sette anni in Germania e fa l’ingegnere. La famiglia si allarga.