«Nelle notti di festa, specialmente durante la stagione del monsone secco, a Giava il wayang kulit viene rappresentato in centinaia di città e villaggi. A seconda della zona e delle varianti dello spettacolo, si enfatizza un aspetto piuttosto che un altro di questa peculiare forma d’arte, senza però mutarne il valore fondamentale. Un dalang, cioè un burattinaio, mette in scena, con l’aiuto di sagome di pelle, una storia che è parte integrante del passato mitologico dell’isola. Alla fioca luce di una lampada, re assisi su troni d’oro incastonati di gioielli, donne di corte, generali, consiglieri intriganti, dèi e orchi gettano su un telo bianco ombre tremanti di vita».
(James Brandon, On thrones of gold)
8 ottobre 2013
Ore 16.45
Yogyakarta
(Parte 1)
Non ho scritto il diario per due giorni. Ho fatto di tutto, più vado avanti più non ho un minuto libero per fare ciò che vorrei e dovrei fare (tipo studiare).
Domenica pomeriggio io e Stefi siamo andate al corso di manifattura dell’argento precedentemente prenotato al ViaVia. Usciamo da casa mezz’oretta prima e ci avviamo, lei in testa come al solito, verso Kota Gede. Arriviamo in pochissimo tempo in quell’intrico di viette colme di botteghe che lavorano il raffinato metallo e, come dato per certo da ogni dato statistico ANSA, ci perdiamo.
Mi fermo a chiedere a dei signori seduti su dei gradini in mezzo alla via (che eravamo sicure fosse quella giusta) e ovviamente non intendono un’acca. Ho capito che più ti allontani dal centro di Yogya più le speranze di parlare inglese si allontanano. Glielo richiedo col migliore indonesiano che mi viene (maledicendomi per non aver studiato quanto avrei dovuto). Intuiscono il problema, ma non sanno come farmi capire la risposta.
Dopo le solite pantomime degne dei migliori corti di Charlie Chaplin, un gentile signore sale in sella al suo motorino e ci accompagna di persona. Qua non si perdono mai d’animo. Ringraziamo vivamente il nostro salvatore, constatiamo che senza di lui a quest’ora saremmo a Papua, ed entriamo in quella che non ha per niente l’aria di una fabbrica di gioielli. Si tratta di una casa comune, con tanto di aia esterna colma di volatili che scorrazzano liberamente, nel cui giardino vi è un capannone adibito a laboratorio. È qui che si tengono anche lezioni pratiche agli studenti.
Un carinissimo ragazzo indonesiano ci accoglie sorridente. Siamo liete di scoprire che è il maestro. A parte me e Stefani, partecipano al corso solo altre due signore, una da Philadelphia, volontaria a Surabaya dove insegna inglese ai bimbi indonesiani e l’altra bulgara, una sua amica credo semplice turista. Il maestro ci fa accomodare al banco di lavoro, sul quale troneggiano mille arnesi e pezzi d’argento da modellare, indicandoci un piattino nel quale ci sono modelli già pronti. Dobbiamo sceglierne uno e provare a riprodurne una copia simile. Quindi, non so perché, scelgo il più difficile. Già capisco l’andazzo.
È un anello magnifico i cui arzigogoli ricoprono la metà del dito. Indossato fa un figurone, il problema è farlo. Cominciano i guai. Il maestro mi dà un filo d’argento che devo tagliare 12cm, in base all’ampiezza del mio dito e alla lunghezza dei ghirigori. La seconda mossa è scaldare il metallo col fuoco per ammorbidirlo e poterlo lavorare meglio. Quando è sufficientemente caldo, posso cominciare ad attorcigliarlo per dar vita ai ghirigori.
Al primo tentativo mi vengono più che altro sono sgorbi, poi con il suo aiuto riesco a combinare qualcosa di decente. Proprio in quel momento scatta l’ora della preghiera. Mi abbandona momentaneamente per andare a svolgere una delle sue funzioni quotidiane ed io mi sento come se mi avessero lasciato per strada in una notte di tempesta senza cellulare e GPS. In quei cinque minuti riesco a superarmi, non solo non riesco a continuare il lavoro, ma rovino magistralmente quello già fatto. Mettendo l’originale a confronto, il mio sembra il riflesso distorto nella casa degli specchi del lunapark.
Dopo una decina di minuti il maestro torna dalle sue preghiere, ed esaudisce anche le mie. Ottengo dunque dei ghirigori accettabili e comincio a martellarli per appiattirli. Questo mi viene bene, come giustamente mi fa notare il maestro, è come se stessi suonando il saron. Una delle poche volte in cui il background musicale ti torna utile, in generale nella vita.
Passo dunque alla piegatura, provandomelo prima sul dito, dopo di che una bella levigatura con la carta vetrata, un altro passaggio nel fuoco, nell’acido e nel fissante e una ripulitura finale strofinandoci un frutto che produce una schiuma tipo sapone. Inaspettatamente viene bellissimo. Non è proprio come l’originale ma si può indossare senz’altro.
Finito il corso io e Stefi ci intratteniamo a parlare con il maestro, che ci invita alle escursioni in bici fuori città che fa coi suoi amici nei week-end. Tutto perché gli ho chiesto se la magnifica bici parcheggiata in giardino fosse sua e gli ho detto che la apprezzavo molto in quanto ex ciclista agonistica. Sono decisamente le persone più amichevoli che conosca.
Dopo un pomeriggio di fatiche da fabbri ferrai, ci regaliamo una cena da Milas. Prendiamo di tutto: latte allo zenzero, qualcosa che terminava con goreng (‘fritto’, nel dubbio) fatto con patate, tofu e altre verdure speziate, il solito nasi della casa colmo di frutta, verdura e spezie e banana fritta (la gloriosa pisang goreng, che abbiamo ingloriosamente provato a replicare a casa).
Tornata a casa vorrei solo svenire dal sonno, oltre che scrivere, sentire i miei amici su Skype e magari fare uno straccio di bucato visto che sarebbe anche ora. Non faccio nulla di tutto ciò. Neanche metto piede nel salotto, che mi accoglie Daniel col casco già indossato, pronto per la nottata di wayang che ci attende. Me ne ero totalmente dimenticata.
Mi cambio velocemente, prendo la Canon e usciamo in fretta e furia perché, tra l’altro, è tardi. Dopo un tragitto che a me sembra lunghissimo, arriviamo nel solito campo sperduto tra risaie e banani, al lato del quale c’è uno spiazzo ricoperto da una tettoia, colmo di sedie metalliche in un verde acqua scrostato e folla arroccata ovunque. La performance è già iniziata.
Prima di trovare posto mi fiondo a una bancarella (cioè un telo per terra) che vende CD delle performance del dalang che si esibisce quella sera. Daniel mi aiuta a capire quali sono quelli che potrebbero essermi utili e a contrattare col venditore. Esco trionfante con quattro CD, due con storie del ciclo Ramayana, due del Mahabaratha.
Ci sediamo in una delle ultime file, dato che è davvero strapieno, ma già ho capito come vanno le cose a questi spettacoli, dunque confido nella fuga generale verso più o meno l’una, dopo il primo interludio. Nel frattempo arrivano pietanze calde da ogni dove: il caffè gentilmente offerto dagli organizzatori, l’immancabile tè al gelsomino e una cosa buonissima che mi offre Daniel, consistente in un brodo caldo dolce con dentro pezzi di zenzero e frutti dai colori sgargianti, con una pallina di pasta di soia dolce su fondo. Il ronde jahe, un altro must yogyanese.
La performance mi coinvolge parecchio, anche se quella dell’altra volta mi era sembrata più ‘carica’ e riesco a seguire il tutto pur non capendo assolutamente ciò che dicono, senza colpi di noia o di sonno, al contrario di molti degli astanti.
E come volevasi dimostrare, tempo due- tre orette il parterre comincia a desertificarsi. Scaliamo in quarta fila, dalla quale posso fare foto comodamente seduta senza passare avanti a tutti per infilarmi sotto il palco o inerpicarmi dietro gli altoparlanti. Anche se in realtà non hanno nessun problema a lasciarmelo fare anzi, sono contentissimi e mi invogliano a proseguire il mio reportage. Posso fare tutto, potrei mettermi in braccio al dalang.
Dopo poco tempo passato in quarta fila a schivare le poche teste davanti per fare video presentabili, accade l’imprevedibile. Un signore vestito in abiti tipici giavanesi seduto in prima fila su comode poltrone in legno, mi fa cenno di andare a sedere a fianco a lui. Con estremo imbarazzo, mi alzo e dico a Daniel di seguirmi. Mi ritrovo in faccia al palco, circondata da tipi in completi giavanesi con tanto di pugnali tradizionali (keris) dietro la schiena, gomito a gomito col capo villaggio.
Herman (mi rivela esser questo il suo nome, contrariamente ad ogni aspettativa) è un uomo gioviale e sorridente, che parla bene inglese ed è molto felice di intrattenersi con me in conversazioni di ogni tipo e spiegarmi tutto ciò che voglio sapere sul wayang. Ha qualcosa come settecento persone al suo servizio. Inoltre, è lui che finanzia gli spettacoli nel suo villaggio ed è esso stesso un artista. Mi sento un po’ a disagio, tuttavia mi faccio coraggio e comincio a parlarci liberamente, gli chiedo tutto ciò che colpisce la mia attenzione e curiosità e mi guardo bene dal rifiutare ogni offerta di cibi, sigarette e bevande che i suoi assistenti continuano a propinarmi ogni cinque minuti.
Dopo praticamente un corso base sul wayang kulit, cominciamo a discorrere di cose più generiche e lì mi invento la mia ennesima personalità. Mi calo nella parte della brava ragazza italiana anni ‘50 in procinto di maritarsi, che ama la famiglia, è cattolica fino all’ultima doppia punta ed è una grande estimatrice e conoscitrice delle politiche agrarie delle regioni italiane. Herman continua a farmi domande circa le piantagioni e gli allevamenti e le fattorie alle quali io rispondo mostrando la massima competenza dall’alto del nulla. Born and raised in Rome, since 1989. Sembrava brutto dirgli che non ne so quasi niente perché vivo in una caotica metropoli, non seguo una religione ufficiale e piuttosto che maritarmi vado davvero a zappare i campi a vita natural durante.
Dopo innumerevoli banane, noccioline fresche, frutta di cui ignoro genere e provenienza, bibite calde e sigarette aromatizzate, quando penso che il mio stomaco stia per esplodere, Herman dice a me e Daniel di seguirlo nel backstage. Abbiamo l’onore di condividere con lui il pasto rituale delle tre del mattino. Voglio morire. Ci togliamo le scarpe, ci sediamo sul tappeto ricamato e cominciamo a riempirci i piatti di riso, tempe, pollo, verdure e uova. Tutto estremamente delizioso, e tutto troppo ‘estremamente’. Prossima mossa: brunch col sultano (nota bene: ho scritto questo appunto ironico sul diario prima di poter sapere che il 10 marzo del 2020, il giorno del mio trentunesimo compleanno, sarei finita effettivamente a pranzo col sultano e la famiglia reale).
Ritorniamo dunque ai nostri posti in poltronissima, gonfi come noci di cocco mature e assistiamo alla parte finale dello spettacolo. Durante le scene comiche, tutti guardano nella nostra direzione e ridono. Anche Herman ride più di tutti a crepapelle mentre io mi faccio due domande. Avranno risposta solo più tardi, quando Daniel mi spiegherà che il personaggio di Petruk è colui che il dalang utilizza per esprimere critiche estemporanee sulla società durante queste scene di comicità improvvisata (che servono a spezzare un po’ a noia dell’ormai noto e lungo ciclo di narrazioni mitiche). Il dalang prende spunto dai personaggi autorevoli che prendono parte agli spettacoli, dunque in questo caso il bersaglio delle sue frecciatine è Herman… e me. Mi spiega che le battute vertono sulle manie di spendere di noi occidentali e fa allusioni sulla possibilità che Herman mi venda l’intera orchestra gamelan e che la porti a casa come souvenir. Sagace. Purtroppo non sa che lo farei davvero, il problema è che poi dovrei comprarmi anche una nave per portarmela via (nota bene: nel 2015 manderò un cargo di strumenti musicali a Roma, che tutt’ora affollano il mio salotto).
Finito lo spettacolo con un taccuino pieno di appunti, una scheda di memoria piena di foto e video, uno stomaco pieno di tutto, un’agenda piena di recapiti, contatti e inviti e soprattutto un portafoglio pieno di rupie intatte (visto che in tutto ciò non ho speso una lira) torno felice a casa traversando la città deserta, mentre nel cielo spunta il sole.
Meh rahina, come recita il mantra, è quasi l’alba.