«“ma perché mi freno?” il pensiero mi ha colto come uno schiaffo in viso. Correvo con la testa e non con il cuore, la ragione e non il sentimento. Correvo come un adulto e non come un bambino. Come un uomo e non come i miei cani quando, felici, al parco si lanciano sfrenati fino a quando hanno fiato. Questo pensiero mi ha spaventato perché non seguivo l’istinto ma un ragionamento da comfort zone. Se mi trattengo e non mi sto divertendo in questa giornata tiepida e di sole, con il panorama che si apre sulla città più bella al mondo, “Che ci faccio qui?”».
(Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?)
10 luglio 2013
Ore 15.00
Porto di Kokkola
Spiaggia deserta
Bici buttate sul ciglio della strada
Sedute al tavolino di un bar nel centro di Kokkola (torneremo sulla nozione di ‘centro’ delle città finniche), facciamo i soliti piani che tutto prevedevano tranne quello che poi abbiamo effettivamente fatto.
Ovvero: come siamo finite qui.
In realtà, non avevamo neanche previsto di finire a Kokkola (il cui nome pare significhi ‘aquila di mare’) nella Finlandia sudoccidentale, a pizzo sul mare, ma questo è il male minore.
Ci troviamo parcheggiate all’ennesimo limite del mondo, chiedendoci cosa ci abbia spinte fin qui, su una spiaggetta deserta di fianco ad un porto altrettanto deserto, dal quale provengono solo sinistri rumori di macchinari, con l’inquietante acqua nera del mar Baltico di fronte, il vento che soffia forte e le bici gettate tra le sterpaglie sul ciglio della strada.
Tenterò di dare una spiegazione plausibile, malgrado tutto, a tutto ciò.
Finito di fare colazione (cioè di avvelenarci di caffè scadente) al famoso bar, ci avventuriamo per le vie del centro in cerca del marketplace, che avevamo individuato sulla guida.
Dopo indicazioni più o meno dubbie, lo troviamo.
Subito attratte dal chiosco dei dolci, ci fiondiamo al tagliere degli assaggi, provando di tutto. Facciamo anche conoscenza col garzone del banco che ci riempie di domande e ci fa anche uno sconto spropositato sugli acquisti.
La seconda tappa è l’Ufficio Turistico. Ci equipaggiamo di guida della città più tre cartine e usufruiamo della disponibilità della responsabile che ci spiega, con tanto di plastico davanti, le attrazioni del posto:
– Museo naturale gratuito
– Mercato (già dato)
– Caffè, bar e ristoranti (ne abbiamo abbastanza)
– Il lungomare sul golfo (circa una quindicina di chilometri di passeggiata)
Optiamo decisamente per il golfo.
Ma, non contente di una banale passeggiata, aggiungiamo la chicca del giorno, dando vita ad un’idea malsana che già da tempo aleggiava nelle nostre menti: il noleggio bici. Dunque, ficcati gli zaini nei cestini anteriori, ci lanciamo per il sentiero sul lungofiume, in direzione del mare.
Dopo inestimabili chilometri in più fatti alla cieca, trottando come mule senza capire dove stessimo andando, finiamo ad impantanarci in una strada fangosa che costeggia la superstrada (dalla quale tra l’altro eravamo appena uscite, aggiungerei per miracolo). Dobbiamo assolutamente tornare indietro. Dopo altre due tappe fuori programma tra cui un belvedere grigio e sassoso con un inutile monumento-telegrafo al centro e un porticciolo disabitato, saltiamo nell’ennesima rientranza del sentiero, che scopriremo sbucare sull’ennesima banchina sul mare semideserta.
Poi il fato, evidentemente in imbarazzo per noi, decide di concederci una tregua: un Ufficio Informazioni Turistiche si staglia all’improvviso davanti a noi, nel bel mezzo del niente più assoluto.
Come dire, un’oasi nel deserto, solo più freddo.
La gentile signorina allo sportello ci dà due opzioni possibili per proseguire il percorso (che abbiamo deviato di chilometri) raggiungendo uno straccio di meta decente (tanto per dare un senso alla giornata):
– ISOLA D’ELBA (avremmo dovuto cogliere l’amara premonizione) con suggestivo faro (ci torneremo).
– PORTO DI VATTELAPPESCA (un nome difficilissimo pieno di doppie vocali con la umlaut).
Pare che l’isola sia quella più vicina, oltre che quella più bella (a detta della signorina) quindi la decisione è facile. Ci avviamo sulla pista ciclabile lungo un incantevole sentiero tra le casette sul mare e la boscaglia, che collega la terraferma all’isoletta, e ci godiamo il panorama e la brezza marina… finché arriviamo, come da manuale, nel nulla.
Perse nel bosco, impossibilitate a proseguire su due ruote (N.B. invece di tornare indietro), leghiamo le bici ad un cartello di legno che recita parole incomprensibili, seguiamo la passerella di assi di legno che si snoda tra gli alberi e diamo il via ad una favola dei fratelli Grimm.
All’inizio non capiamo la necessità della passerella… poi si. Il bosco si dirada sempre di più divenendo una rada fanghiglia paludosa con sprazzi di sabbie mobili e desolazione.
Sembra di essere in un quadro di Dalì.
Ma poi perveniamo ad un bivio.
Dato che è inutile tentare di leggere, ci affidiamo ai simboli e procediamo nella direzione indicata da un disegnino stilizzato del faro. Continuiamo a camminare sulla passerella che diviene sempre più instabile e traballante come, del resto, il terreno sotto di essa. Rischiamo più volte di finire tra la sterpaglia melmosa sottostante.
Viviamo attimi di equilibrismo estremo.
Ad un tratto il paesaggio cambia radicalmente: il bosco scompare del tutto e spuntano degli alti giunchi bianco-verdastri con dei fiori viola scuro a forma di spiga che ondeggiano al vento. Davanti a noi s’intravede, in lontananza, una striscia di spiaggia deserta con qualche sasso, che si diparte in modo inquietante dalle schiere di vegetazione, serpeggiando verso l’orizzonte costituito soltanto da un cielo grigio cemento uniforme. Il vento soffia sempre più forte, quasi non udiamo le nostre voci.
Poi, d’un tratto, la passerella s’interrompe, il passaggio è bloccato dal filo spinato.
Alziamo le teste e ci accorgiamo che proprio davanti ai nostri occhi, semi-nascosto dalla sterpaglia, si staglia glorioso lui: il faro.
C’è solo un problema: non è un faro.
Trattasi di una banale torretta di avvistamento costruita su due piani, interamente in legno, con delle impervie scalette a vista palude e un cartello che avvisa:
BEWARE OF COWS
Ormai manca solo lo Stregatto.
Visto che siamo arrivate fin qui e questo è l’unico posto che offra un solido piano d’appoggio, decidiamo di salire in cima e consumare poeticamente il nostro pranzo, a tu per tu con la fine del mondo.
Diamo fondo al solito menu d’alta cucina, composto da yoghurt, pane raffermo e una pittoresca insalata di rape rosse e maionese color fuxia shocking. Il vento lassù è ancora più forte, sferzate gelide ci arrivano da ogni dove, è come se un uomo-ghiaccio invisibile continuasse a riempirci di schiaffi. Non riusciamo a parlare, a stento mangiamo e contempliamo il nulla grigio all’orizzonte.
Quando decidiamo di aver preso abbastanza mazzate, scendiamo soddisfatte. Ho paura che le mie ossa si sgretolino da un momento all’altro per quanto sono ghiacciate. Ora che anche l’ennesima prova di sopravvivenza è andata, continuiamo felici il nostro viaggio nella follia.
Ci sarebbe materiale per tre film.
Imbocchiamo la passerella a ritroso e giungiamo ad un bivio. Un altro, diverso da quelli precedenti.
Ma il fato ci viene ancora una volta in aiuto: su una delle due direzioni del paletto delle indicazioni è posato un teschietto di gomma, lasciato da chissà chi, forse come monito. Noi sicuramente lo intendiamo così e giriamo i tacchi da quel posto il più in fretta possibile.
Quando ci ricongiungiamo alle nostre amate bici montiamo in sella e cominciamo a pedalare via come non ci fosse un domani.
Dopo qualche chilometro siamo decisamente rincuorate, ma non ancora soddisfatte del tutto.
Ora che il pericolo è scampato (N.B. invece che tornare a restituire le bici e andarci a prendere un tè caldo), decidiamo di dirigerci al porto.
Non tenterò di dare spiegazioni.
Ci avventuriamo per la pista ciclabile che costeggia l’ennesima superstrada e proseguiamo seguendo i cartelli stradali e le mappe reperite di tanto in tanto in punti di sosta.
Ci prende un coccolone quando leggiamo: PIETERSAARI 36 KM.
Ci sembra un po’ eccessivo, dato che ne abbiamo già fatti una ventina.
Proseguiamo ancora per un po’, finché non capiamo che la località del porto è molto più vicina, contrariamente da quanto detto dal genio dell’Ufficio Turistico.
Andiamo avanti, così, chiedendo informazioni a persone che non parlano assolutamente inglese, incappando più che altro in episodi di poco celata xenofobia. Decido di entrare in un supermercato (la nostra terra promessa) dicendomi che la commessa non può non darmi una mano.
Avevo torto.
Inizialmente sembra tranquilla, poi chiedo informazioni per il porto, in inglese, e subito comincia a delinearsi sul suo volto un sorrisetto beffardo e lo sguardo da chi sa come gestire la cosa. Dopo aver pronunciato le parole: “Just one moment” (sempre con sorriso fisso tipo Joker) comincia a sbrigare una serie di faccende inutili e passatempi totalmente secondari, facendo finta di essere indaffarata e lanciandomi ogni tanto occhiatine divertite. Premetto, non c’erano clienti in fila. Io resisto imperterrita, piantonata lì come la bilancia del reparto ortofrutta. Dopo un po’, per fortuna, entra una poliziotta che, notando la situazione, mi chiede gentilmente cosa mi serva e mi dà le tanto agognate indicazioni. Esco indirizzando un largo sorriso alla commessa, pieno di frasi non dette ma sicuramente arrivate a destinazione.
Pare che a solo un chilometro e mezzo davanti a noi vi sia il porto. Diamo le ultime pedalate in un misto di euforia e agonia e, finalmente, eccoci qui. Fra è stesa in rianimazione sulla sabbia, io siedo in riva al bagnasciuga con jeans e All Star praticamente da buttare, in pace con noi stesse e col mondo attorno.
Poi Fra torna momentaneamente in vita: “Ma se faccio pipì là dietro?”
Me: “Fai contenti tanti operai navali”.
Ci pensa.
Fra: “Senti a me scappa, vedessero quello che devono vedere, niente di più niente di meno”.
Ponderiamo sempre con oculatezza le nostre decisioni.
Ore 18.45
Stazione ferroviaria di Kokkola
In attesa del pullman di ritorno, pianifichiamo gli spostamenti di domani:
8:00 – Sveglia e doccia (o quello che ne fa le veci)
9:00 – Sistemazione di tenda e bagagli
10:00 – Sosta all’Ufficio Stampa per ricariche di tutti gli apparecchi elettronici e rifornimento bibite
11:00 – Saccheggio alla mensa per reperimento scorte
13:45 – 14:30 – Pullman Kaustinen-Kokkola
14:56 – 17:27 – Treno Kokkola-Oulu
20:30 – 23:30 – Pullman Oulu-Kuusamo
23:30 in poi – Dormire in tenda da qualche parte in attesa di iniziare il Sentiero dell’Orso (cioè il percorso di trekking nel Parco Nazionale di Oulanka)
[Nel frattempo ci spostiamo nel parcheggio pullman sul retro della stazione. Dopo aver dormito su una panchina fronte binari, esserci lavate il viso nel bagno di un bar con la schiuma del distributore automatico e aver rubato fazzoletti e zollette di zucchero un po’ ovunque, ci diamo al lavaggio dei denti con spazzolino, dentifricio e bottiglietta d’acqua, sulla panchina di fronte al parcheggio. Ci manca solo un cartone e un cane].Ma riprendiamo la narrazione delle disavventure pomeridiane.
Dopo la bella ma faticosa gita al porto, ci diamo ad un ancor più faticoso ritorno in città. Chilometri e chilometri di pedalata infinita, in salita e controvento. Arriviamo al centro della città stremate senza deviazioni strambe, ma manca ancora del tempo allo scadere dell’affitto delle bici.
Ci mettiamo dunque a girovagare per la città, senza meta e senza senso, per forza di inerzia e disperazione, tanto ormai non sentiamo più nessun muscolo.
La città è molto carina, se non fosse desolata. Siamo alle solite. Eppure ci sono molte attività commerciali, librerie, una bella piazza del mercato… tutto chiuso, senza un’anima in giro. C’è anche un fiume di un intenso color nocciola (“Guarda, sembra Nutella”) che attraversa il centro, sormontato di piccoli ponticelli di legno a distanze regolari.
Insomma, alla fine, finiamo al supermercato.
Fra è decisa a sperimentare il riciclaggio delle bottiglie: inserisce la bottiglietta vuota della Fanta nell’apposito macchinario, ritira la ricevuta e ottiene un buono di venti centesimi… che non usa. Io rimango mezz’ora a sbavare al reparto abbigliamento (indossiamo le stesse cose ridotte in modo osceno da giorni). Alla fine compro dell’acqua. Fra osa comprare altre tortine alle carote, io dopo la faccenda della Russia (quel pranzo a base di muffa e tifo sul pullman) non voglio neanche guardarle.
Riconsegniamo le bici e ci dirigiamo alla stazione, salutando la nostra Kokkola e le sue indimenticabili insegne commerciali (KOKKOLINNA, KOKKODENT, e via dicendo). Ci aspetta l’ultima serata di festival a Kaustinen.
Ore 23.35
Kappelin Grill
Kaustinen
Mi viene in mente la canzone di Noa che recita: “Here we are again, after everything that happened…”.
Siamo due stracci. Morte, disintegrate, allucinate.
Ma, nonostante ciò, siamo ancora in carreggiata.
Tornate a Kaustinen non abbiamo perso tempo e, dopo aver pagato l’ultima notte di campeggio ed esserci date una rassettata per salvare il salvabile, ci siamo ributtate nella mischia.
Il festival diventa di giorno in giorno più popolare e, soprattutto, più popolato.
Il pubblico affluisce sempre più numeroso e anche i gruppi musicali ospiti sono sempre più conosciuti. Non stiamo più seguendo il programma, andiamo semplicemente dove ci porta l’orecchio e l’istinto… e funziona! È così che abbiamo scoperto gli Orffit: un trio di pazzi che suona, oltre a chitarre, trombe e percussioni, oggetti di ogni tipo come racchette, tavolette da mare, slittini di plastica e armoniche giocattolo, unite a canti popolari e siparietti comici (ovviamente tutto rigorosamente in finlandese). All’inizio non gli avevamo dato due lire, poi invece ci hanno coinvolte tanto che mi sono ritrovata a cantare come fossi al concerto della mia band preferita.
Uscite dalla Folk House siamo attirate da un’insolita caciara dalle parti dell’arena: è rave.
Un gruppo folk-rock armato di organetto, tromba, piano, chitarre e voce, crea il delirio sul palco, mentre fiumane di folla impazzita ballano ininterrottamente con foga. Intravediamo anche Sofia, abbarbicata su casse e custodie degli strumenti al lato del palco, intenta a riprendere tutto. Per qualche strano motivo scatta l’istinto di rivalsa e ci ricordiamo che anche noi.
In fondo, siamo la stampa.
Finisce così: me che reggo fra arrampicata sul lato opposto, con la Canon in bilico.
Poi, non so per quale malsana idea, decidiamo di tornare ad affidarci al programma e individuiamo un gruppo old-style folk al Cafè Mondo… un po’ troppo old…
Ripieghiamo sulla pausa-cena, qui al solito posto, in attesa che inizi il turno successivo di spettacoli. Dobbiamo assolutamente recuperare le forze, siamo sull’orlo del collasso. Abbiamo risicato miseri minuti di sonno su panchine e sedili del pullman, pagato tra l’altro con supplemento di tre euro sul biglietto perché era la corsa ‘express’ a detta dell’autista… Ci ha messo cinquanta minuti, invece di quaranta. Abbiamo deciso che, tutto sommato, questo festival ci piace. Temiamo solo per il surriscaldamento progressivo dell’atmosfera e ci chiediamo cosa potrà accadere nel week-end.
Ma, a quel punto, noi saremo già tra i boschi.