Voci dal nord

Capitolo 12 – Folk House, sbornie e alluvioni

«“Un giorno” rispose Joe pieno di rabbia “la gente come me si solleverà e vi rovescerà, e sarà la fine della tirannia delle macchine omeostatiche. Torneranno i giorni dei valori, della compassione e del semplice calore umano, e quando questo accadrà qualcuno come me che ne ha passate di tutti i colori e che ha veramente bisogno di un buon caffè per tirarsi su e per andare avanti quando non si può fermare avrà il suo caffè caldo, che abbia un poscredito a disposizione oppure no”».

(Philip Dick, Ubik)

10 luglio 2013

Mattina

Pullman per Kokkola (da pronunciare con tanta tenerezza)

Dopo una corsa trafelata (trova la novità) siamo arrivate alla stazione del Taboil, nella quale è beatamente parcheggiato il nostro pullman.

Quaranta chilometri di tragitto a venti euro.

Un affare. 

La nottata è stata più scomoda della precedente (se non l’avessi vissuto non saprei immaginarlo), nonostante abbiamo deciso di spostare gli zainoni nel vano esterno della tenda e dunque avremmo dovuto avere più spazio.

Si vede che abbiamo sconvolto l’equilibrio dell’ecosistema.

Ci svegliamo alle otto e ci guardiamo intorno con una strana sensazione: il tetto della tenda sembra più basso (ancora di più del solito, quindi praticamente un tunnel). Tento di uscire fuori per verificare e, tirando la chiusura lampo con la grazia di un’orsa ferita, mi becco una bella doccia di acqua gelida tra capo e collo.

Se non altro abbiamo capito il problema: accumulo di acqua piovana durante la notte.

In pratica, abbiamo dormito in un catino.

Mentre aspetto fuori Fra che si cambia (dobbiamo fare i turni) e tenta espedienti igienici sempre più innovativi (“Mi sto lavano i piedi con Amuchina gel”), decido di farmi un giro nella pista del campo sportivo, tanto per asciugarmi un po’.

Parto convintissima con i miei leggins da notte, le All Star slacciate e la canottierina tipo Rocky Balboa, ma comincio a morire di freddo dopo i primi passi e demordo ingloriosamente.

Mi riaccuccio buona buona al sole.

Non facciamo neanche in tempo a goderci il caffè del Centro Sportivo perché dobbiamo correre a prendere il pullman. Per fortuna ci siamo riuscite e adesso ci godiamo questi costosi quaranta chilometri. Quarantaquattro, per la precisione, come i gatti. Comincio a canticchiare la canzone provocando espressioni accigliate tra i passeggeri e l’autista, mentre aggiorno il diario, come consueto.

Eravamo rimasti alla Folk Music House, ieri pomeriggio.

Abbandonata l’idea di un secondo giro a bordo del Titanic finnico, decidiamo di andare a cercare Sofia, l’etnomusicologa rumena, per farci aggiornare sugli sviluppi della ricerca in Lapponia e vedere se la vecchietta sami si è convinta a ricevere anche noi. Usciamo quindi dalla folkloristica casetta e, tempo pochi passi, ci imbattiamo in Anne Mari Kivimaki (la tipa dello spettacolo con gli accordeon al Sommelo) che, ci ricordavamo, era venuta a Kaustinen con lo stesso gruppo di Sofia. Ci facciamo dare il suo numero e gli mandiamo un SMS, attendendo il responso mentre sorseggiamo caffè al fast-food a sbafo (dato che, a quanto abbiamo capito, qui funziona che paghi la prima tazza e poi vai a riempirtelo da sola a volontà dalla caraffa).

Poche tazze dopo, Sofia risponde e torniamo al festival per incontrarla.

Lungo il percorso incappiamo in Maari e una collega che stanno bevendo fiumi di birra in compagnia dei musicisti polacchi. Tentiamo di tirare dritto e fare finta di nulla, ma il clarinettista ci inchioda con un sonoro “Buongiorno!” (tipo alle dieci di sera), pretende un bacetto sulla guancia e ci invita ad unirci a loro. Mostriamo quindi i passaporti al gorilla della security per dimostrare che non abbiamo diciotto anni e ci aggiungiamo al convivio ordinando l’ennesima tazza di caffè.

Non dormiremo mai più.

Trascorriamo un’ora a parlare per lo più con il bassista, che è anche maestro di danza, è lui che aveva guidato i giochi danzanti quella sera in Russia. Parliamo dei vari festival musicali polacchi ed italiani, di scambi interculturali e argomenti affini. Gli altri si fanno beatamente i fatti loro, tranne il clarinettista che continua a lanciare sorrisi e buttare lì battute umoristiche di tanto in tanto. Dopo un po’ ce ne andiamo per assistere ad una performance di folk inglese e promettiamo che torneremo più tardi.

Arriviamo alla sala del concerto, anche qui c’è il pienone e riusciamo a risicarci gli ultimi due posti rimasti ad un lato. I musicisti sono due: uno suona l’arpa, poi c’è l’altro. 

…l’altro…

L’altro suona uno strumento simile ad una cornamusa ma senza insufflazione per bocca, suonato tramite un soffietto posizionato sotto il braccio. È molto affascinante, se non fosse che è stonato come una pecora merinos. Ci diciamo che forse è l’effetto voluto, dovuto anche alle caratteristiche acustiche dello strumento. Durante il secondo pezzo cambia strumento: un flauto dolce di metallo. Qui è dove capiamo che non dipende dagli strumenti, il tizio sarebbe capace di far stonare anche un diapason. L’ultimo pezzo sembra promettere bene, dato che prevede l’uso di un bodrum gaelico… ma fallisce miseramente anche con questo.

Usciamo sconvolte dalla sala e torniamo dai nostri amici ma forse è troppo tardi, troviamo solo Maari e compagnia bella. In effetti si è fatta l’una. Vorremo aspettarli ma l’idea di trascorrere del tempo con le comari ci distoglie da ogni buon proposito. Dunque, non avendo altro da fare, ci stanziamo davanti ad un falò, allestito in uno spiazzo al centro del festival, intorno al quale alcune persone bivaccano su panche di pietra.

Le alternative sarebbero state:

– Concerto di violino virtuoso

– Concerto pop-lounge-folk e pochi altri generi mischiati senza criterio

[Nel frattempo siamo arrivate all’amata Kokkola e ci siamo infilate in un bar. Un signore è appena entrato, si è intascato tranquillamente un cucchiaino ed è uscito].

In totale relax davanti al fuoco, dunque, ci accendiamo una sigaretta russa… e veniamo brutalmente fermate dal gorilla della security.

Non si può fumare davanti al falò.

Andiamo a posizionarci nell’area fumatori… a pochi metri dal falò, solo più al freddo.

Decidiamo che, a questo punto, è rimasta una sola cosa da fare: ripiegare al nostro accampamento con la coda tra le gambe. Ha anche iniziato a piovere.

Facciamo le solite sessioni di Tetris per cercare di entrare in tenda, lasciando fuori più cose possibili (che si disintegri tutto sotto la pioggia, non ce ne frega più niente).

Dopo le ennesime Olimpiadi di Beijing riusciamo a distenderci (N.B. eufemismo) godendoci il ticchettio delle gocce di pioggia sul sovratelo.

Dopo circa due minuti di pace (che è comunque più di quanto ci concediamo di solito) scatta la crisi: “Ho fame” (all’unisono). Ed è così che, contravvenendo a tutte le prescrizioni del perfetto scout (“Mi raccomando, non mangiamo in tenda altrimenti ci riempiamo di formiche”) attacchiamo le scorte di pane e yoghurt al rabarbaro.

Tanto comunque non ci sarebbe più posto neanche per un tarlo.