«Quando uno straniero si trasferisce in una città di cui non sa niente, si picca di acquisire una conoscenza esoterica delle sue crepe nascoste. È convinto di essere il solo a conoscere un certo baretto, o un antico mango sulle rive di un canale, subito dietro una lavanderia. Ma perché gli sembrano così importanti? E davvero pensa che nessun altro li abbia mai notati?».
(Lawrence Osborne, Bangkok)
6 ottobre 2013
Ore 14.18
Yogyakarta
casa, salotto zen
Oggi è tempo di grandi acquisti. Dopo una colazione a base di biscotti al cocco (che è proprio l’elemento portante della dieta assieme al pollo), il proprietario di casa mi propone di andare a fare un giro ad uno dei grandi mercati di Yogya, il Pasty, che è proprio vicino casa. In realtà mi dice che l’orario più propizio è dalle 4.00 alle 9.00 di mattina, per fare grandi affari. Non credo che avrò mai l’onore di ammirare le grandi occasioni.
Buttiamo come al solito il motorino nella solita catasta senza criterio che si fa chiamare ‘parcheggio’ e ci dirigiamo al reparto animali. Il mercato si divide in diversi padiglioni, ognuno vende generi diversi: c’è quello delle piante, quello del cibo (che a sua volta si divide in carne, pesce etc.) e via dicendo. Appena entriamo i miei occhi vengono catturati da mille meraviglie e rischio di farmi girare la testa per i tanti punti focali sui quali la mia mente deve soffermarsi, sotto un caldo torrido per giunta. C’è una folla immane, tra la quale sono l’unica straniera. Flussi di gente si ammassano attorno agli stand con mille gabbie di mille fattezze appese ovunque, piene di uccelli dai piumaggi coloratissimi, dal blu elettrico al verdino fluorescente al rosso, giallo, fino ai colori più insoliti, come dei pulcini verdi e viola colorati artificialmente.
Daniel mi spiega che esistono tanti modelli diversi di gabbie, ognuna per un tipo di uccello, da quelle piccole in bambù a quelle più grandi in legno o in metallo, fino a quelle più costose a forma di cupola, con mille disegni colorati e intarsi che riprendono le figure tradizionali (ne riconosco alcune del wayang) e sagome di uccelli e vegetazione esotica. I giavanesi vanno matti per gli uccelli, chiunque ne colleziona qualche specie, esponendola fuori le abitazioni in queste meravigliose gabbie colorate. Quasi ne vorrei comprare una, per la bellezza di 250.000 rupie, ma poi non saprei davvero che farmene.
Passiamo davanti al banco dei mangimi (banane per i vegetariani, grilli e vermi per i carnivori). Tra canarini, picchi, pappagalli, gufi e altre specie meravigliose e sconosciute, arriviamo al reparto serpenti. Mi avvicino alle sbarre della gabbia per scrutare meglio quello che credo sia un enorme tronco, sotto al quale probabilmente si nasconde il serpente.
Era il serpente.
Mi piglia un colpo: una cosa lunga metri e larga quanto un palo della luce si bea sotto il sole, mentre la degna compagna (un affare lungo altrettanto ma dai colori più chiari) si intorcina dalla parte opposta della gabbia. Una povera tartaruga sguazza nello stagno al centro, ignara del suo triste destino.
Dai serpenti passiamo alle iguana e poi ai miei amati tokkay. Gabbie colme di gechi dagli occhi allampanati riempiono i miei occhi di tenerezza. Li vorrei tutti attaccati al separé di bambù del mio bagno. Anche se poi il mercato me lo ritroverei ogni notte nelle orecchie.
Mentre rimugino beata intorno ai miei nuovi animali preferiti, Daniel se ne esce così: “Oh, I hope you like it, I put one in your bathroom”. Momenti di silenzio. Finalmente è svelato l’arcano, non è arrivato nella doccia da solo! Del resto, gliene sono grata: “Yes, I love it. I’m thinking to bring it with me when I’ll come back to Italy… if it will survive”.
At first I was afraid, I was petrified.
Dopo altri giri vari tra scoiattoli volanti, conigli assurdi, mustelidi di ogni tipo e gatti pelosissimi, cerchiamo nel reparto cani una compagna di giochi per la nostra cagnolina Bintang, ma senza successo, sono tutti di taglie troppo grandi per lei.
Dopo tutto questo peregrinare tra i polli a Daniel viene un certo languorino, dunque ci fermiamo ad un chioschetto. In realtà io sono solo assetata come una reduce dai lavori forzati a causa dell’afa tremenda (sotto la quale continuo a vedere gente con felpe e giacche). Dunque prendo il solito tè ‘es’, cioè tè bollente con tocchi di ghiaccio galleggianti. Il classico tè freddo. Lui prende una cosa di cui non mi ricordo il nome nonostante me l’abbia ripetuto più volte, che consiste in una zuppa di noodles, soia, verdure, pollo… insomma tutto il repertorio di ingredienti che trovi di solito ai chioschi, con salsa di soia dolce e salsa piccante.
Ci leviamo quindi gli infradito e ci sediamo, nonostante le mie reticenze, su un telo cerato disteso per terra sotto degli alberi, colmo di fiorellini appiccicosi caduti dai medesimi, sul quale altri visitatori e allegre famigliole consumano i loro pasti beneficiando dell’ombra.
Finito di mangiare prendiamo dei pacchetti di noccioline che erano a disposizione dei consumatori e ci dirigiamo verso il reparto piante tra mille alberi e fiori ‘esotici’ (tra cui delle stelle natalizie). Trascorriamo un’altra mezz’oretta contrattando su vari prezzi nell’intento di trovare qualcosa di interessante per il nostro giardino zen. Daniel tratta me e Stefi come fossimo la sua famiglia, cucina per noi spesso, ci porta in giro a vedere cose interessanti e ci fa provare cibi tipici su cui sarebbe difficile fiondarci da sole. È stata una fortuna trovare un’abitazione con un padrone di casa tanto disponibile, almeno ho l’opportunità di approcciarmi alla cultura locale senza fare troppi buchi nell’acqua.
Negli stand vedo cose magnifiche. Ad un tratto i miei occhi si posano su delle piantine appese con dei fiori color porpora scuro che sembrano tante farfalle posatesi sopra i gambi: “Butterflies”, esclamo in preda allo stupore. Il negoziante mi guarda stupito e dice a Daniel che non aveva mai pensato di chiamarli in quel modo. Ho dato un nome ad una pianta, sono commossa. Il mio nome passerà ai posteri nella storia della botanica indonesiana, altro che Russel Wallace e The Malay Archipelago!
Ce ne andiamo da lì caricando sul motorino degli ortaggi per il nostro orto personale e un abete. Non vorrei sottolinearlo ma si, l’abete era caricato con noi sul motorino. Daniel è del tutto intenzionato a trascorrere un Natale cattolico in piena regola con la sua famigliola. Ora abbiamo anche l’albero di Natale, che tra il Buddha nella vasca esterna e la moschea dietro il muro di cinta fa un figurone. Avevo letto di sincretismo religioso, ma non a questi livelli. È tilt totale.
Una volta tornati al nido Daniel si dà alle piantagioni mentre io e Stefi assaggiamo strani frutti colti dal giardino, chiacchierando allegramente sui divanetti di bambù in veranda. Sembriamo usciti da un’opera di Diderot. Peccato solo per il sapore di quei frutti, un misto tra una pera acerba e detersivo per piatti agli agrumi. Scopro anche con piacere che nel salotto ci sono un sacco di libri in inglese interessanti di letteratura di viaggio e saggi sul buddhismo e sulla cultura orientale. Oltre all’intera bibliografia di Paulo Coelho, senza apparente motivo logico.
Mi metto a leggere qualcosa finché il mio stomaco non reclama cibo. Non mi va di uscire, dunque sfrutto le scorte immani fatte al Superindo, ritirando fuori un’altra delle mie grottesche specialità: spaghetti di soia viola (vedi Voci dal Nord) con verza, melanzane e soia. Mi rifaccio con una papaya promettendo a me stessa un corso di cucina indonesiana al più presto.
Mentre mi faccio la doccia scopro che lo shampoo che ho comprato è anticaduta. Anzi che non ho comprato l’anti-tarme.