«Come l’acqua dei fiumi quando lotta all’estuario contro la forza del mare, il tempo nuovo e quello vecchio si scontrano, si mescolano».
(Haruki Murakami, After Dark)
5 ottobre 2013
Ore 13.24
Yogyakarta
Metto la sveglia alle 8.50, ho un appuntamento alle nove, ma nel salotto, in fin dei conti. Quando Baba O’ Riley squilla a tutto volume, la canticchio in mente come al solito non dandole più di tanto peso. Do per scontato ormai che un appuntamento alle 9.00 è un appuntamento alle 11.00 se tutto va bene e continuo a dormire indisturbata. Alle 8.58 Stefani bussa alla mia camera. Vivrà in Indonesia da due anni ma non è decisamente indonesiana.
Mi vesto di corsa come al solito (ormai è diventato uno sport, il fit&go, se riesci ad anche ad abbinare qualcosa passi direttamente alle semifinali), scordo il casco (anche questo ormai è consolidato) e la seguo. Mi porta al famoso caffè Via Via, che ho avuto modo di conoscere tramite consigli di viaggiatori su internet e appuntamenti nei suoi pressi, ma non ho mai sperimentato di persona. Si trova a Prawirotaman I, dunque ha la sua buona dose di ‘hollywoodiano’, ma è davvero piacevole.
Ordino un javanese coffee e dei pancakes alla banana. Lei prende del porridge alla banana e un succo alla papaya. Rimaniamo un po’ lì a parlare, dopo di che mi mostra una bacheca piena di affissioni di corsi da seguire: cucina indonesiana, batik, tour ciclistico delle risaie con tanto di dimostrazioni pratiche di semina, vari corsi di lingua, tour ai templi e miliardi di cose per stranieri interessati alla cultura e alle tradizioni locali ma senza troppo impegno. I prezzi sembrano ragionevoli, sempre ‘hollywoodiani’, ma ragionevoli. Lei è interessata al corso di artigianato dell’argento visto che studia moda, io al tour ciclistico campagnolo per nessun motivo preciso. Prenotiamo quello dell’argento per domani rimandando la bici alla settimana prossima. Avremo così occasione di vedere anche un altro quartiere tradizionale, Kota Gede, famoso per la lavorazione dell’argento, con le sue botteghe di artisti locali.
Yogya è veramente sorprendente, contiene ogni forma d’arte dalla musica alle arti visive all’artigianato ed è un ritrovo di artisti di ogni sorta. È meravigliosa sotto questo punto di vista. A proposito di quartieri tradizionali, mi dice che vorrebbe tanto andare a Kasongan, dove ha puntato un negozio di articoli handmade fatti con materiali riciclati dalle fabbriche indonesiane (sacchi di iuta del caffè, etc.). Appena nomina l’amato borgo mi si illuminano gli occhi ed eccitatissima mi propongo come guida.
Risultato: torniamo ai vecchi fasti, il ‘giro giro tondo’ nella giungla. Lei sembra entusiasta, non aveva mai visto quel paesaggio così ameno, abituata alla caotica zona centro-sud della città (il nord rimane ancora un mistero). Dunque, continuiamo a girare un po’ a vuoto ammirando ciò che la natura ci presenta, finché non ci fermiamo a chiedere indicazioni in una delle tante capanne sperdute. Cerco di dire più termini possibili in indonesiano per farmi capire e gli mostro la mappa sulla quale troneggiava il tugu pancasila, il monumento con i cinque punti della costituzione indonesiana che è stato teatro di smarrimenti passati.
Pensavo di aver imparato la lezione, ma evidentemente mi sbagliavo. Il navigatore mi dice di tornare sulla Jalan Kasongan. Questo ormai lo so fare (è il terzo sport nazionale). Recupero punteggio in affidabilità riuscendo a riportarci nel mondo civile senza troppi altri safari. Trovo persino la traversa giusta, intravedo il cartello menzionato dal volantino e parcheggiamo rincuorate, ma non lo rimaniamo per molto.
Dopo esserci introdotte di spontanea iniziativa in un giardino privato, notiamo che una signora ci viene incontro abbastanza interdetta. Dopo pochi scambi verbali (inaspettatamente in un comprensibilissimo inglese) scopriamo che quello non è il negozio, ma la fabbrica. Siamo state talmente efficienti da arrivare addirittura alla fonte. La signora tuttavia ci fa entrare e ci fa accomodare tra i mucchi di tessuti e di materiali da sartoria, mentre un’altra signora lavora allegramente davanti la sua macchinina da cucito.
Mentre la nostra ospite telefona al proprietario del negozio (che in realtà sarebbe chiuso), noi veniamo letteralmente risucchiate dal mucchio di articoli finiti in un angolo. Ci sono borse, cuscini, pezzi d’arredamento e di vestiario meravigliosi, fatti con tutti materiali di scarto tipo buste di caffè e tè, abiti batik smessi, bottoni in legno e via dicendo. Guardo la minuta signora seduta al tavolino e mi chiedo come riesca a fare tutto ciò con le sue abili mani e quell’aggeggio antico.
Finita la telefonata, la nostra ospite ci dice di seguirla, al che monta in sella al suo motorino e ci riporta all’inizio di Jalan Kasongan, prima del ponte (avevamo capito tutto insomma). Lì c’è il negozio ufficiale, che sta aprendo solo per noi. Dopo circa mezz’ora lì dentro, usciamo con gli occhi luccicanti e due graziose bustine di acquisti. Il mio primo vero shopping indonesiano (levando le scorte base di sopravvivenza).
Prima di tornare a casa facciamo una tappa all’Alfa Maret (una delle tre uniche catene di minimarket) per comprare qualcosa da bere. Preferisco il mio affezionato Superindo anche se tuttavia scopro cose quest’ultimo non vende, come le caramelle al mango.
Credo che tenterò di cucinare qualcosa e poi mi darò allo studio del Bahasa Indonesia, finalmente. Stasera andrò con Stefani e i suoi amici ad una performance musicale che inizia alle 19.00. Non so di che genere sia, in realtà non lo sa neanche lei ma come giustamente mi fa notare: “When there is music it’s always amazing”. Forse non ha sentito i tizi del karaoke qua fuori ieri sera.
Ore 00.30
Dopo un pomeriggio passato a tentare di studiare la lingua indonesiana, a trafficare con le foto e ad intrattenermi in sporadici tè/caffè/biscotti con Stefani e Daniel, io e la mia coinquilina ci prepariamo per andare allo spettacolo. Prima passiamo a prendere una sua amica, una ragazza indonesiana sposata con uno dei musicisti che prenderà parte al Konsert Drama Musikal (una versione tutta indonesiana del Musical) e che dunque ha i biglietti gratis.
Seguo Stefi che sfreccia lungo le strade di Yogya come un pony express e presto mi ritrovo al suo seguito in un intrico di stradine minuscole che costeggiano un fiumiciattolo, tra edifici coloratissimi e diroccati disposti uno adiacente (o dentro, o sopra…) l’altro. Le persone, che presumo siano gli abitanti delle rispettive case, siedono fuori sui gradini di pietra, in mezzo alla strada, tra panni stesi, giocattoli dei bimbi, piantine sfiancate dal clima e carretti ambulanti che si fermano talvolta per vendere dei fritti o del tè o altre pietanze ancora sconosciute.
Dopo innumerevoli curve, svolte e ponticelli, arriviamo a casa di Dandri. È una ragazza molto sveglia, parla bene inglese ed è molto ‘occidentale’ sia nei modi che nel vestire. Ha una moto magnifica parcheggiata nel giardinetto tra le colonne di cemento dipinte di un verdino iguana scrostato. Quasi stona con l’ambiente circostante.
Mentre ci mettiamo d’accordo circa come distribuirci sui mezzi di trasporto, i suoi genitori sbucano fuori dall’ingresso di casa e tentano di salutarci anche se non sanno affatto l’inglese. La mamma tiene in braccio il nipotino e lo culla cantandogli una nenia indonesiana. Sto per prendere il cellulare e registrarla (deformazione professionale) ma poi mi dico che forse non è il caso.
Dunque montiamo in sella e andiamo a ritirare i biglietti al ‘botteghino’ (diciamo così). Il Drama Musikal si intitola Jahiliyah ed è una storia circa le lotte tra musulmani e non musulmani, una specie di Jesus Christ Superstar versione islamica. Non capiremo nulla, ma puntiamo tutto sulla musica.
Arriviamo al Taman Budaya di Yogya. letteralemente ‘Parco della Cultura’, che svolge le veci del nostrano Parco della Musica, ma in modo un po’ meno pomposo. Con mia grande sorpresa noto che si trova adiacente al Progo e al mercato tradizionale di Beringharjo. Ma io cosa guardo quando vado in giro?
Compriamo delle bibite prima di entrare. Faccio un’infima figura con la venditrice, poiché chiedo se il prezzo delle bibite che abbiamo preso io e Stefi è più alto rispetto a quello di Dandri solo perché siamo bule. Mi fa giustamente notare che sono marche diverse e ovviamente la nostra amica essendo locale conosce quella più economica. Dopo un po’ si diventa paranoici con questa storia degli harga bule (‘prezzi per bianchi’).
Che poi, in realtà ci sarebbe un cartello che vieta esplicitamente di introdurre bibite e cibo in sala, come del resto di non fare foto e di tenere spenti i cellulari, ma qua non si prendono mai in parola, è tutto un tidak apa apa (‘non fa niente’, una filosofia di vita). Neanche entriamo che sentiamo rumori molesti di flash e sgranocchiamenti, e le mie ipotesi sono piacevolmente confermate. Diamo un’occhiata ai biglietti e notiamo che non ci sono posti numerati. Con Stefi ci scambiamo uno sguardo d’intesa: “Let’s fight!”. Il mio regno per una poltrona.
In generale è un bello spettacolo, la musica sicuramente è degna di nota e consiste in una commistione di generi dal mondo che ‘transculturale’ è dire poco: dalla musica araba, all’ASEAN pop, all’eurocolta al metal. La tecnica attoriale non è che mi entusiasmi molto, è parecchio declamatoria e caricaturale, un po’ telenovela di serie B. Il personaggio che fa il narratore è particolarmente bravo, è quello che fa la parte del fool. È lui che racconta ed esprime giudizi circa la lotta tra le fazioni, ma che in realtà esprime punti di vista sulla politica e altri argomenti caldi. Il ballo è il punto più debole: una specie di zumba scoordinatissimo e poco carismatico. Anche sui costumi potevano lavorare un po’ di più. La scenografia invece è bella: un enorme cranio girevole al centro del palco dal quale fuoriesce il narratore e tutta l’azione che si svolge attorno.
Finito lo spettacolo ci rechiamo nel backstage a complimentarci con la band e a tentare di intercettare qualcuno degli attori. Io volevo parlare col narratore ma è scomparso nei camerini subito dopo gli applausi. Inutile dire che io e Stefi diveniamo più gettonate degli attori stessi. Dopo mille presentazioni, foto e profferte di spugnosi dolcetti multicolore, decidiamo di andare a cena. Poi ci rendiamo conto che è tutto chiuso, sono quasi le 23.00.
Dopo vari fallimenti la nostra amica prende in mano la situazione e ci porta in un ristorante Padang aperto 24 ore. Ho capito che il Padang a Yogyakarta è tipo ‘lo zozzone’ a Roma, che vende luridi panini con porchetta e salsiccia ad ogni ora in ogni angolo. Solo che qui hai carne in salsa rendang e cose frittissime e speziate. Prendiamo il solito misto di riso, pollo, verdure e tempe, es tèh (es sta per ‘ice’, ‘ghiaccio’) e confezioni di cracker di gamberi gettati sul tavolo alla rinfusa. Paghiamo solo la carne ed il tempe, tutto il resto è gratuito.
Torniamo a casa pianificando altre mille serate ed escursioni da fare insieme. Dandri si offre praticamente come nostra guida personale. Farsi un amico straniero e trascinarlo ovunque è uso comune a quanto ho capito. Il mio amico bule, prossimamente sui grandi schermi del Taman Budaya.