PANDEMIC EDITION #1

The Hyatt

«Vorrei solo scappare da questa assopente tranquillità degli alberghi per manager, che possono lavarsi qui con lo stesso sapone che a Toronto, per scorrazzare a piedi per questa grigia pianura di case. Vorrei liberarmi da questa corazza protettiva che rende tutto attorno a me facile e sorridente»

«[…] e gli alberghi di lusso, già costruiti qui in sovrannumero, sono ora più o meno deserti: assurde astronavi luccicanti atterrate come per sbaglio nello squallore di miseria e di buio negli slum tutt’attorno»

(Tiziano Terzani, In Asia)

Yogyakarta, 7 giugno 2020

Le aquile Garuda intagliate nel paralume dell’abat-jour proiettano sagome familiari sulle pareti color crema. Sono le marionette del teatro delle ombre, presenti in ogni dove e sotto ogni sembianza, a vegliare sul popolo giavanese sin da tempo immemore. Sembra di essere sulla location di un wayang kulit, ma siamo ben distanti da tutto ciò, distanti dal palco allestito con il tronco di un banano fresco e le offerte – il sesajen – dalla folla raccolta attorno ai musicisti e alle cantanti, illuminati da luci fioche nella frescura serale di qualche villaggio. Siamo distanti dal senso di comunità e partecipazione procurato dall’assistere ad una narrazione accompagnata da musiche e voci, dall’esperire un momento di intrattenimento e di rituale sociale al tempo stesso, siamo distanti da quel passato mitico che è il ‘vecchio normale’.

Siamo in quello che definiscono New Normal, questa linea di presente parallela che è un po’ passato un po’ futuro, rinchiusi in scatole di aria condizionata, ammutoliti da mascherine, isolati da ogni contatto umano con dei guanti di lattice, l’aroma dell’incenso del sesajen sostituito dall’odore di disinfettante che dobbiamo cospargere su ogni cosa, continuamente. Intorno a noi, qualche elemento familiare che ci ricorda quell’Old Normal così confortevole e caldo, pieno e colorato. Ma la realtà è che siamo in qualche punto asettico di un gap temporale creato da uno degli eventi storici che marcheranno questo nuovo millennio sui libri di storia negli anni a venire: il Covid19.

Il mondo è in piena pandemia, ma noi cerchiamo di fare finta che non sia così, che la vita continui, che si possa ancora viaggiare e intessere relazioni sociali. E lo facciamo qui, al The Hyatt, una delle catene di hotel più rinomate a Yogyakarta e nel mondo, in una serra tropicale di verdeggianti giardini e serpeggianti piscine con scivoli, sdraio, divanetti, ponticelli, tavolini e ogni comfort che si possa desiderare. Tranne il calore umano, quello non rientra tra le facilities.

Jaga jarak, questo il termine indonesiano che indica il ‘mantenere la distanza di sicurezza’ di 1-2 metri gli uni dagli altri. Niente abbracci, niente strette di mano (un duro colpo per l’etica giavanese), niente che indichi che siamo ancora esseri umani bisognosi d’affetto, compagnia e vicinanza con altri simili. Siamo robot perfettamente sanificati e organizzati, in pieno controllo della nostra igiene personale e della nostra porzioncina di spazio individuale. Ma siamo ancora capaci di goderci la vita, quel che ne rimane, o perlomeno, ci proviamo in tutti i modi.

Sembra sempre di essere in un teatro delle ombre, quando sei a Giava, anche se sei in un resort a cinque stelle. Ma chi può dire ormai quale sia la differenza? Se lo scivolo acquatico e la serie di vasche che costituisce la piscina parte dalla cima di una perfetta ricostruzione di un tempio Hindu-Buddhista. È solo una fedelissima moderna ricostruzione ma sembra un tempio a tutti gli effetti. I mattoni color antracite incastrati gli uni sugli altri, la scalinata, lo stupa in cima…

La vista sui campi da golf è inframezzata dagli alberi del bunga kambodia, i frangipani, come se ci fosse sempre qualcosa ad ostacolare l’estensione incontrollata del moderno, come a porre dei punti fermi nel frullatore temporale che occidentalizza e spersonalizza ogni cosa. Giava è un osso duro, non riesci a spazzar via il passato facilmente. Ci sono degli elementi che rimangono ancorati al suolo della Madre Terra, Ibu Pertiwi, saldamente e tenacemente, e prima o poi si riprendono ciò che è loro, anche modificato, modernizzato, sanificato, distanziato, omologato, e via dicendo.

In qualsiasi hotel di lusso, in qualsiasi parte del mondo, potresti essere ovunque. Ma a Yogyakarta rimani comunque a Yogyakarta.

Non sono soltanto gli elementi architettonici e naturalistici a ricordartelo – come le statue delle divinità e i personaggi del teatro delle ombre appesi ad ogni angolo o gli stupa boroboduriani, i motivi batik che saturano la vista o il becak parcheggiato in giardino, la musica gamelan che risuona meccanica da qualche altoparlante o elementi di arredo coloniale, il cibo e le bevande, gli aromi degli olii e degli incensi – ma sono i piccoli dettagli umani. Piccoli cenni che, come quegli elementi di decoro, non riescono a levarsi di mezzo, troppo radicati nell’anima di questo popolo per sopperire a qualsiasi tentativo di de-umanizzazione e sanificazione. Piccoli dettagli che sembrano irrilevanti, spesso non colti, ma che fanno decisamente la differenza e ti ricordano che quel ‘vecchio passato’ c’è stato davvero e rimane sempre lì nel sottosuolo a garantire la non totale estinzione dell’umanesimo in tutte le sue manifestazioni, anche se ridotte all’osso.

Il cameriere che scoppia a ridere come un matto sotto le fibre di tessuto della mascherina che lo opprime, se gli dice matur nuwun, ‘grazie’, in giavanese alto. La signorina alla reception che ci chiede se abbiamo con noi le mascherine e – quando la guardiamo sgomenti (abbiamo passato tutto il giorno in piscina senza e ci siamo letteralmente solo noi) – ce le dà con un sorriso dispiaciuto, anch’esso coperto ma perfettamente identificabile nel suo sguardo e in quel chinare gentilmente il capo che qui rende ogni cosa più educata, anche gli insulti. Sorrisi e capo chino.

Non sarà un ingombrante lembo di tessuto incollato sulla faccia da mattina a sera a spazzare via anni di manierismi ereditati dalla cultura delle corti. Non sarà la distanza fisica a spazzare via la distanza emotiva. Quegli occhi scuri e profondi, colmi di timore di leggere nei nostri il disappunto, una connessione empatica che subito la mette in condizione di aggiungere: “Solo se jalan jalan, solo se andiamo a spasso”, come se ciò lo rendesse più sopportabile.

Come se fosse sopportabile farsi sparare termometri digitali in fronte ogni qualvolta entriamo in una sala comune. Se fosse sopportabile porgere le nostre mani ad ogni angolo per ricevere gocce gelatinose di disinfettante che copre gli aromi e gli odori dolci dei frangipani e delle lozioni speziate. Come se non fosse inquietante camminare per i lunghi e vuoti corridoi di una struttura imponente semi-deserta, di cui solo sette camere su duecento possono essere occupate per disposizioni governative. Se non altro, gli impiegati vengono comunque pagati, nonostante in Indonesia non esista il concetto di ‘cassa integrazione’.

È stato chiuso per tre mesi. Tre mesi di vuoti lugubri silenzi e strati di polvere sui cimeli pseudo-coloniali. Tre mesi di acque torbide e fogliame accumulato. Tre mesi di apocalisse e via, la superficie terrestre comincia a ripopolarsi, ancora claudicante.

Oggi c’eravamo noi e altre quattro famiglie. Abbiamo condiviso la stessa piscina tutto il pomeriggio. Senza distanze, senza mascherine. “C’è il cloro!”. Questo basta? O è solo una pretesa, una scusa, per chiudere un occhio, per assaporare per qualche ora quella libertà del ‘vecchio normale?’. Ma se entriamo nella sala ristorante, con le stesse quattro famiglie, qualche ora dopo, dobbiamo rispettare tutti i protocolli o far vedere, sorridendo sotto le nostre museruole igienizzate, che lo facciamo. Anche se poi non lo facciamo davvero, perché una volta seduti al tavolo ce le dobbiamo togliere, sempre sorridendo, per mangiare. Ecco un’altra giustificazione valida. Che cambia?

È una questione di approccio, di far vedere che si rispetti una qualche sorta di regola anche se la verità è che nessuno ci capisce nulla. Non è tanto distante, in fondo, dai fondamenti dell’etica giavanese. Tutta quella serie di manierismi melensi intrisi di non-sense che permeano ogni cosa è così squisitamente Yogyanese. è solo più inquietante, più distopico. Sembra di essere in un romanzo di Philip Dick.

È come se su uno schermo del teatro delle ombre ci avessero piazzato una storia di fantascienza invece delle solite epiche battaglie tra regni rivali. Qui la battaglia è tra il vecchio e il nuovo normale. Non è neanche tanto più una lotta contro il virus che ha messo in ginocchio cinque continenti, quanto contro le sue dirette conseguenze, a cui tutti fanno fatica a cedere. È uno scontro di forze, questo sforzo di mantenere una disciplina estrema mandando in frantumi ogni disciplina, farlo sorridendo e di sfuggita, facendo finta di chiudere  un occhio quando la realtà è che nessuno li ha mai ancora aperti del tutto, e sotto sotto la paura che l’altro possa essere visibilmente indisposto, non sapendo se sia per la troppa cura nell’applicare i protocolli o per la scarsa perseveranza nel rispettare gli stessi. Il dubbio ed il sospetto dell’altro, la scarsa o la troppa fiducia verso le misure di sicurezza, sul chi e sul come le applichi, è questo che rende tutto ‘nuovo’ ed inconsueto.

Ma i giavanesi riescono ancora a mantenere l’apparenza, nonostante tutto questo groviglio di forze contrastanti sotto la superficie. Il problema di noi bule (‘bianchi’, ‘stranieri’ e tutti gli altri possibili significati di questo termine odioso) è che non sappiamo trattenere i sentimenti, troppo educati, sin da piccoli, ad affrontare tutto in prima persona, a porci in maniera frontale e ad essere onesti e trasparenti anche quando la verità è scomoda, a mettere al centro noi stessi e non rimuovere o reprimere nulla, a meno che non si voglia lasciare un capitale a qualche psicologo in età più matura. Loro degli psicologi non hanno bisogno, perché hanno la ‘tradizione’ a fargli da scudo protettivo. E quindi loro i sentimenti li reprimono e come e, anzi, fanno anche doppio sforzo, ci reprimono anche i nostri, anticipandoli, divinando ogni piega emotiva dalle rughe di quella piccola porzione di viso che ci rimane visibile. E questa è la più grande dimostrazione che non si può spazzare via la ‘giavanesità’ in un colpo solo, neanche in un hotel da miliardi di rupie, neanche con una pandemia. E questo è quello che rende piacevole il nostro weekend di evasione, il nostro primo timido approccio al concetto di villeggiatura dopo mesi di reclusione, il tastare la temperatura dell’acqua immergendo un piede e constatare che non è calda, ma neanche così fredda. La rassicurante prova che l’umanità e lo spirito di un popolo persistono anche se bene isolati da barriere di plastica e plexiglass, pronti ad essere rilasciati, in un futuro chissà dove di questo presente parallelo.

Fuori dalla mia enorme parete a vetri una magnifica luna piena illumina sagome di palme e grattacieli, puntellati di lucine e rese sinistre dagli stessi frangipani che di giorno poetizzano tutto. Sono loro che fanno il brutto e il cattivo tempo.

Adagiata sul primo letto vero in cui dormo da mesi, ripenso che vorrei farmi un bagno caldo nel primo bagno vero che vedo da mesi. La quarantena in una casa giavanese non rientra tra i consigli per gli acquisti della promo pandemia (vedi Karantina).

Penso che anche gli alberghi di lusso, ogni tanto, sono belli, fanno bene all’umore. Ti danno l’illusione di vivere, per un breve periodo che sembra sempre un’eternità, in un piccolo mondo perfetto e senza tempo, pulito, profumato, organizzato. Una boccata di placidità principesca prima di riscendere giù negli abissi di blatte, stuoie di bambù e secchiate d’acqua sporca. Ti danno l’impressione di poter regolare la tua vita alla temperatura perfetta, così come l’aria condizionata, e fare quelle rituali scorribande tipo intascare saponi, kit da bagno, tè, caffè, penne e ciabatte. Non che ti servano davvero o che li userai mai più, una volta tornato a casa, ma è bello pensare di portarsi appresso una parte di quel mondo incantato.

La libertà di lasciare gli asciugamani ovunque, usarli tutti, usare tutto, anche solo per un nonnulla, dare fondo a tutte le possibilità, sperimentare, testare le infinite allettanti prospettive di un indefinito mondo dalle infinite possibilità, e senza dover rimettere a posto. L’opera di qualche operatore silenzioso lo farà per te senza che tu neanche te ne accorga, di modo che sembri tutto tornato al suo posto automaticamente, come per incanto. Dopo mesi passati a scaldare l’acqua per lavarsi nella stessa teiera che usi per cucinare, tutto ciò sembra davvero venuto dal futuro. Tutto quello che vuoi è a portata di mano, basta una richiesta, devi solo scegliere. Siamo anni luce dalla disperazione del non potersi procurare neanche la marca di tè preferita perché presente solo in un negozio chiuso per quarantena, dal lontanissimo, rischiosissimo altro lato della città.

Tu, signore di un mondo conchiuso e illimitato al tempo stesso, inattaccabile, comodo e intarsiato, in cui senti il bisogno di tirarti a lucido anche solo per scendere a mangiare un boccone in una sala vuota, a fine giornata. Gli arredi impeccabili, i sapori elaborati, le luci regolabili secondo mille sfumature e combinazioni, anche quelle come il tuo umore, rispondenti ad ogni tua necessità emotiva.

Siamo ancora a Yogyakarta, eppure non ci siamo del tutto, e allo stesso tempo ci siamo più che mai. Siamo liberi di rinchiuderci in una prigione dorata e cucirci la realtà secondo i nostri filtri, a portata di telecomando. Il ‘nuovo normale’ è un mondo costruito dal nulla secondo i nostri canoni e possibilità, secondo la nostra volontà, permette di selezionare e portarci dal passato solo lo stretto necessario, in una nuova versione 2.0, incontaminata, sicura. Forse, per questo, non c’è modo migliore di inaugurarlo che in un posto come questo.

Yogyakarta, 8 giugno 2020

La cosa bella degli hotel giavanesi è che hai il ‘pacchetto fantasmi’ già incluso. Non importa quanto moderno, costoso o lussuoso sia l’hotel. Ci sarà sempre qualche luogo mistico nei paraggi – una casa abbandonata, un ex edificio coloniale, un sito storico – a fornire materiale di prim’ordine per incubi e superstizioni.

Basti guardare persino qui, al The Hyatt, uno dei più lussuosi hotel della città da un milione di rupie a notte, quasi uno stipendio di un lavoratore medio. Persino qui non mancano gong che suonano da soli, strani suoni di campanellini e risate femminili nel cuore della notte.

“È un edificio antico”. “È chiuso da tanto”. “È deserto”. Le ragioni più ‘logiche’ che subito balzano alla mente mentre sei lì a discuterne al tavolo della colazione. Sei sul bordo di una piscina grande quanto un parco acquatico, mangiando cibo ‘continentale’, bevendo il tuo ‘americano’, eppure non puoi fare a meno di fare constatazioni sugli elementi soprannaturali che si celano dietro ai capitelli intarsiati delle 200 stanze con vasca da bagno e luci automatiche.

Ma questi pochi spunti di riflessione forniscono solo un pretesto per la conversazione generale. E via con le lunghe digressioni, racconti, ricordi. Fantasmi da Semarang (vedi Fantasmi da Semarang), spiriti di ex soldati giapponesi a Sumatra, presenze varie in quel di Lamongan, apparizioni di Roro Kidul, la regina del sud, in pensioncine desolate sul lungomare di Parangtritis, casi di possessioni ed esorcismi musulmani in camere in affitto per studenti nel cuore cittadino di Yogyakarta. Viene fuori di tutto.

Tutto ruota intorno al soprannaturale, agli spiriti, unici esseri ancora sopravvissuti ad ogni ‘nuovo presente’, costantemente in visita da un ‘vecchio passato’. In questo caso, paradossalmente, la loro presenza è estremamente confortante, una prova ‘tangibile’ per quanto impalpabile, che nulla è stato distrutto totalmente, che non si deve necessariamente ricominciare da zero, ma si può riprendere benissimo da dove si era lasciato, rispolverando gli scheletri negli armadi, sanificati e antisettici, pronti per una nuova fase della storia dell’umanità.