Don’t push yourself

Capitolo 14 – La strada gialla

«Così, mentre ti aggiri per questi labirinti, non sai mai se insegui uno scopo o fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la sua preda».

 (Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili)

5 gennaio 2014

Kuwu, da qualche parte tra Ubud e la nostra destinazione, il tempio di Batukaru

Bengkel (chiosco riparazione motorini)

Qualche ora imprecisata della mattina

Eravamo partite benissimo.

Avevamo pianificato tutto con cartina alla mano durante la prima colazione (e ultima, dato che ci hanno presentato una omelette di peperoni e cipolle).

Grazie ad esperienze pluriennali nella risoluzione dei labirinti dell’enigmistica, ero riuscita a trovare una strada ideale, incrociando varie località di riferimento, usufruendo delle strade segnate in rosso sulla mappa, che secondo la legenda avrebbero dovuto essere quelle principali, più alcune piccole deviazioni e raccordi. L’importante era seguire sempre la direzione Nord-Ovest, per arrivare al tempio madre di Batukaru.

Dopo aver anche chiesto informazioni più dettagliate a ben due individui del personale della homestay, e aver atteso invano minuti di rimuginare senza via d’uscita, ci siamo anche fatte un’idea su cosa evitare: chiedere informazioni ai locali.

Lui vuole mandarci nella direzione opposta.

Lei ci dice che arriveremo a destinazione alle cinque del pomeriggio.

Come al solito, facciamo da noi. Imbocchiamo l’unica strada che esce da Ubud in direzione Nord-Ovest, innanzitutto. Non che ci fossero tante altre alternative. In meno di un minuto siamo a Campuhan, che la cartina segna come molti chilometri più distante.

Già capiamo in che mani siamo.

Passiamo Sangginan e Sayan dritte come fulmini, poi iniziano i problemi.

Dopo altre poche svolte dovremmo essere giunte a Semana ma siamo a qualcosa che finisce con ‘karta’. C’è evidentemente qualcosa che non va.

Diamo un’occhiata alla cartina e ci rendiamo conto di aver girato troppo presto. Siamo su una delle stradine gialle anziché su quella rossa.

Ci fermiamo a chiedere la direzione per Mengwi, una delle città di riferimento. Dopo una lunga serie di “Kiri-kanan-kiri-kanan” (“destra-sinistra-destra-sinistra”), chiedo spazientita: “Kiri o kanan?”. Il verdetto è: “Dopo il semaforo a destra”. C’è solo un problema, sulla strada non ci sono semafori.

Più tardi capiamo che il ‘semaforo’ non era altro che un altro mero bivio non segnalato da installazione alcuna.

Arriviamo non si sa come e perché ad Asem, come ci conferma la signora di un chiosco. Proseguiamo tentando di raccapezzare qualcuna delle località segnate sul foglietto.

Quando ormai è evidente che ciò non avverrà mai, facciamo quello che ci pare più opportuno: procedere per botte di fortuna, contando sul nostro più che fallace intuito femminile e collage di informazioni sommare collezionate da locali incrociati per la via.

Tra un tempio induista e l’altro, passando per interminabili risaie, villaggetti sperduti costellati di polli vaganti e donne con pile di beni alimentari impilate sulla testa inerpicate su salite che a stento regge il motorino, giungiamo da qualche parte che comunque non è Batukaru, ma se non altro è in quella direzione.

Imbocchiamo una strada che pare porti dritta dritta al loco desiato. Ci sentiamo in una botte di ferro. C’è il sole che veglia alto e tiepido su di noi, stiamo sfrecciando in sella al nostro potente Vario in una piacevole e calma mattinata balinese, finalmente certe della nostra meta.

Nessuno può fermarci.

Nessuno no, ma ‘qualcosa’ sì.

Il karma ci becca in flagrante, in agguato come gli autovelox sulle autostrade a scorrimento veloce, e comincia a tracciare delle X su tutti i nostri fattori positivi, con sorriso beffardo.

Comincia dal primo e fondamentale: il motorino.

Mentre sono intenta a farmi trasportare dalla piacevole brezza sulla strada dritta e liscia, canticchiando allegramente con Fra dietro che si gode il paesaggio, il veicolo comincia ad andare fuori controllo e mi ritrovo a tentare di gestire brusche e improvvise sbandate.

Si è bucata la ruota posteriore, un classico.

Accosto subito onde evitare disastri e mi accorgo che siamo immerse nel nulla. Non che mi aspettassi un qualche cenno di pietà dalla malasorte.

Molliamo il glorioso bolide sull’erba, come un destriero ferito sul campo di battaglia e ci incamminiamo tra monti e risaie alla ricerca di un ‘meccanico’. Dopo appena cento metri incrociamo un baluardo di civiltà: una vecchina fa capolino da dietro un chiosco di articoli imprecisati. Ci informa che a circa altri duecento metri ci sia un REPARASI MOTOR.

Quattrocento metri dopo, approdiamo ad un ristorante. Chiediamo ad una graziosa ragazza locale all’entrata con un vassoio in mano. Non sa assolutamente di cosa stiamo parlando, ma in compenso ci invita ad entrare e bere qualcosa. Trattengo indicibili quantità di rabbia repressa e congedo sorridendo.

Il passo successivo è il tentativo malriuscito di cogliere l’attenzione di un autista di un pullman turistico che sta per risalire a bordo del suo mezzo. A nulla valgono richiami e gesti convulsi, ci liquida brevemente con un cenno sbrigativo e rimonta a bordo. Il karma arriverà anche da lui, non appena avrà finito di intrattenersi con noi.

Dunque, ci facciamo un giro tra alcune baracche abbandonate tra i campi, nella speranza di trovare qualche vita umana prodiga e consapevole di ciò che stia facendo. Quando ormai vediamo il nostro avvenire sgretolarsi miseramente come un foglio rinvenuto dalle ceneri di un camino, il destino ci manda lui: l’uomo del tempio. Di fronte ad un sito induista in manutenzione, abbiamo la fortuna di incappare in un omino e sua moglie, intenti ad ammucchiare dei mattoni su un o spiazzo polveroso. Capisce subito il problema e ci dice che ci sono ben due REPARASI MOTOR, uno più a nord e uno più a sud, ma bisogna camminare. Mi chiede dove sia il motorino. Gli dico che l’ho lasciato a qualche centinaio di metri giù per la strada. Non riesco a guidarlo in quello stato ed è troppo pesante da trascinare in salita. L’uomo prende subito in mano la situazione. O meglio: prende il suo motorino, prende me in sella e prende il via. Lasciamo Fra ad aspettare con uno dei ragazzi davanti al tempio e ci rechiamo al salvataggio del destriero.

Dato che il REPARASI al nord è troppo lontano, ci rechiamo a quello al sud. Un gentile omone in canottiera e shorts mimetici si avvia a recuperare il mio gioiellino, mentre l’uomo del tempio va a recuperare Fra.

Cinque minuti dopo, ci ritroviamo tutti insieme qui, ad attendere che il meccanico ripari la benedetta ruota. E in quanto a benedizioni, l’uomo del tempio se le merita tutte.

Durante l’attesa, m’intrattengo in chiacchiere con un uomo in mimetica. Tra una cosa e l’altra, tenta di accasarmi col figlio, della mia età, a quanto pare.

E anche il marito balinese ce l’abbiamo.

Ore 2.00 del mattino circa

Mc Donald’s H24, Kuta

Eccoci qua, ad onorare le vecchie consuetudini.

Direttamente da Mc Donald’s del mondo, rigorosamente di notte. Aspettiamo il nostro aereo delle 5.50 per Yogyakarta tra caffè neri a volontà, Mc Flurry ad indicibili gusti indonesiani e cattivi tentativi di sonno.

Ma eravamo rimaste da qualche parte tra le risaie di Ubud.

Ripartiamo dal REPARASI MOTOR piene di spirito rivalsa.

Puntiamo decise verso il nostro Batukaru. Ci informiamo bene sulla strada da prendere, che dovrebbe essere tutta dritta fino ad un villaggio che inizia con la P, per poi svoltare a destra.

Siamo decise.

Forse troppo. Superiamo il villaggio ad occhi chiusi.

Per fortuna abbiamo il buon senso di controllare prima di continuare fino a Singaraja (sulla costa nord dell’isola). Torniamo indietro ed imbocchiamo la “strada gialla” (sempre secondo l’infallibile logica della cartina) che si rivela aspra e tortuosa.

Ad un certo, punto, tanto per non deludere l’audience, il tecnico degli effetti speciali preme il pulsante ‘diluvio’.

Per fortuna si rivela essere frutto di una passeggera nuvoletta fantozziana e riusciamo ad uscirne.

Il paesaggio è meraviglioso. Lungo la strada, la nostra attenzione viene attirata da mille cose. Tra le altre, un gruppo di uomini in abiti tradizionali affollati tra un caos di motorini fuori da un tempietto. Siamo tentate di andare a curiosare, ma ancora il buonsenso torna a farci rigare dritte.

Mi fermo a fare benzina ad uno dei chioschi abusivi. Un vecchietto macilento versa una bottiglia da vino piena di liquido giallastro nel serbatoio, per sole 7000 rupie. Tanto per essere sicure, chiediamo informazioni anche a lui sulla direzione per Batukaru e proseguiamo.

In tutto ciò si è fatto mezzogiorno. Sempre più crucciate del tempo che passa e la meta che ancora sembra lontana, abbiamo la pessima idea di fermarci a chiedere il tempo residuo (in minuti, ore o chilometri). Brevettiamo la tattica del sondaggio: chiediamo a più persone e poi confrontiamo i dati, facendo una media delle risposte che riceviamo. I pareri stavolta sembrano abbastanza unanimi: stando agli interlocutori, dovrebbe mancare un’ora di strada… in montagna, sempre più tortuosa. Conveniamo di continuare fin dove noi e il motorino ce la sentiamo. In tutto ciò dovremmo riconsegnare il motorino entro le 14.40 ed effettuare il check-in del volo per il mattino seguente. Scegliamo sempre le giornate migliori per le iniziative scellerate.

Continuiamo convinte per la nostra meta, cullate da curve, tornanti, pendii, dossi e salite e discese repentine. Poi arriviamo ad una specie di posto di blocco. Un signore con un giubbotto che ha l’aria di essere una divisa ci ferma: “Ticket”.

Noi: “Why?”.

Lui: “Rice terrace view”.

Noi: “But, we are going straight to Batukaru”.

Lui: “Yes, you pass the terrace view”.

Noi: “We don’t want to stop here, we are only passing by”.

Dopo un tira e molla infinito finalmente si convince.

Passiamo oltre.

In effetti, dopo la curva ci si apre dinnanzi uno spettacolo stupendo. Una vista a perdita d’occhio su un’immensa vallata di risaie a terrazza, in cui si aggirano omini con vanghe e cappelli di paglia conici. Palme e tempietti induisti completano i particolari del quadro mozzafiato. Ed in tutto ciò sembra che siamo salite tantissimo, non rendendocene conto, la vallata sembra profondissima. Ci godiamo il panorama alla chetichella, procedendo ad una velocità di 5km/h in media, in pratica siamo quasi ferme. Appena siamo abbastanza lontane dal check-point ci fermiamo per fare due foto di soppiatto e filiamo via come il vento prima che vengano a chiederci il conto.

Ad un certo punto l’idillio si interrompe ed inizia una tortuosa strada in salita. Ma più che altro è una distesa di sassi, ghiaia, pozzanghere e ‘reperti’ di asfalto a tozzi e bocconi.

È come portare un aratro.

Dopo 500 metri di agonia, incappiamo in un luogo semi-abitato. Una signora scarica materiali da un camioncino mentre dei polli starnazzano in un’aia. La importuniamo: “Quanto manca a Batukaru?”. “Un’ora”. Disse anche dell’altra gente, esattamente un’ora fa…

“La strada è tutta così?”.

“Si”.

Il nostro percorso finisce qui, è unanime.

Ci ripromettiamo di tornarci prima o poi, in vita nostra, e ripieghiamo su sentieri già battuti.

Il ritorno in discesa è un piacere.

Una dolce signora seduta sul sedile posteriore di un motorino porta una falce. Un senso di inquietudine si affaccia per indeterminati secondi.

Nove vite dopo, raggiungiamo di nuovo le terrazze, ma forse il Nirvana. Si pone evidentemente un problema: come ripassare davanti al check-point evitando di incappare in ovvie rivendicazioni/minacce? Un furgoncino bianco che ci segue in lontananza fa al nostro caso. Mi improvviso agente speciale in fuga. Rallento per farlo passare e quando è in procinto di superarci gli do strada dal lato della carreggiata sul quale è posto il gabbiotto, in modo da farci da copertura. Dopo la curva accelero e mi lascio alle spalle furgoncino, omino in divisa e probabili minuti persi in discussioni e tentativi di estorsione. Quasi manderei il curriculum alla CIA.

Tanto per sfregio, ci rifermiamo poco dopo a fare altre foto.

Sulla strada del ritorno, ci fermiamo a dare un’occhiata a quella che crediamo sia una ‘cerimonia’ (ergo, il gruppo di uomini raccolti tra i motorini fuori il tempietto). Dopo aver appurato che si trattava in realtà di un combattimento di galli balinesi seguito da una folla di soli uomini urlanti e concitati, rimontiamo in sella e filiamo dritto senza più indugi.

Finiamo su un’altra strada. Quando mi accorgo di essere obiettivamente contromano mi decido a tornare indietro.

Arriviamo ad un incrocio a quattro e i dubbi più neri si riaffacciano. Ci chiediamo in che direzione sia Ubud ma soprattutto perché si ostinino a non scrivere uno straccio di indicazione.

Chiediamo a degli uomini a lato della strada. Dicono che bisogna svoltare a destra e passare un certo arco in mattoni, ma ci sono indecisioni. “Boleh” (“Si può”), dice uno. “Tidak boleh” (“Non si può”), dice l’altro.

Uno: “Boleh”.

L’altro: “Tidak”.

Momenti di riflessione.

Insieme: “Boleh”.

Si può. Ci fidiamo.

Neanche a farlo apposta, sbuchiamo in faccia al Mengwi Temple, meta scartata in favore di Batukaru.

“Vuoi vederlo?”.

Tiriamo dritto.

Il karma ride da dietro un architrave.

Da qui in poi, una serie di indicazioni stradali sorte per volere di qualche divinità induista mossa a pietà, ci facilitano notevolmente le operazioni di svolta. E di svolte ce ne sono assai. Se non altro, molte di più di quante ne faccia apparire la linea rossa dritta tracciata sulla nostra cartina, disegnata probabilmente da Walt Disney.

Alle 16.30 facciamo il nostro ingresso trionfale a Ubud.

Dato che ormai siamo in ritardo di due ore per la consegna del motorino, ce ne freghiamo e andiamo dritte al centro. Tempo di un confortante caffè da Starbucks, un rigenerante massaggio balinese da 60.000 rupie e un rapido giro souvenir, torniamo alla base.

Recuperiamo i bagagli e chiediamo al tizio della reception di chiamarci un taxi. Ci propone di berci prima qualcosa. No, lo vogliamo subito. Lo chiama. Una Suzuki 4×4 grigio metallizzata arriva in un batter d’occhio davanti l’ingresso. Non sembra affatto un taxi, non ha né scritte né tassametro. Sarà un amico suo. L’importante è arrivare a Kuta ad un prezzo accettabile.

A tal proposito, combattiamo fino ai denti. È corsa al ribasso.

Otteniamo 525.000 rupie, ben 25.000 rupie in meno dell’andata, ci sentiamo comunque frodate, ma di meno.

L’autista imbocca una strada mai vista e molto poco pratica.

“Sarà quella gialla”. I commenti non lasciano pietà.

Si perde. Si riacchiappa. Poi si riperde.

Quando vediamo spuntare la familiare Kuta Beach davanti ai nostri occhi quasi salteremmo di gioia. Ci ritroviamo al centro commerciale a rimpinzarci all’Adventure Food (quando proprio non basta mai) e andiamo quindi a parcheggiarci da Mc Donald’s.

Ordino un Mc Flurry, in inglese. Mi propone i gusti classici: Nescafè, Smarties, fragola.

Poi glielo richiedo in Indonesiano e specifico che voglio quelli della pubblicità. Tira fuori i gusti nascosti.

Ottengo il mio gelato guarnito con crema di fagioli rossi e mi piazzo vicino a Fra e lo spettro del caffè nero che ormai veglia su di noi come uno Shinigami.

Dobbiamo attendere qualche ora prima di recarci all’aeroporto. Abbiamo preso il solito comodo volo alle cinque del mattino.

Fra va in perlustrazione e mi lascia con le mie memorie.

Torna dopo un’oretta: “Non c’è niente, è tutto chiuso”. Alla faccia della città della movida notturna. Mi consiglia però di andare alla spiaggia qui di fronte. Vado.

La spiaggia è semi-deserta. I cumuli di spazzatura fanno da romantica cornice a poche coppiette e qualche energumeno appostato in modo losco tra le palme.

Mi avvicino alla riva. Onde altissime si infrangono sonoramente sulla battigia.

La notte rende il tutto molto più suggestivo di quel che sembrerebbe di giorno: una spiaggia composta da montagne di rifiuti e mare mosso piena di gente poco raccomandabile e illusi fidanzatini ignari di dove siano finiti.

La magia viene rotta da un tizio che comincia a chiedermi insistentemente dove vado. Gli rispondo malissimo e me lo levo di torno, approfittando dell’occasione per schiodare a mia volta.

Faccio un salto al K-Market, trovo dei Mikado alla banana e un tizio addormentato sul muretto d’ingresso.

Torno da Fra con la coda tra le gambe.

Aeroporto di Denpasar

Ore 5.02 del mattino

Ancora qui, ad attendere.

Una cosa nuova.

Alle 3.30 chiamiamo un taxi, abbrutite dopo l’ennesima notte da leonesse al Mc Donald’s.

Riusciamo a portare la cifra dell’autista ad un livello dignitoso e ci dirigiamo all’aeroporto.

Dopo i soliti controlli poco accurati, andiamo al banco dell’Air Asia per un check-in ancor meno accurato. Dopo aver controllato il mio passaporto e la prenotazione, la hostess scrive i biglietti ‘a mano’. A Fra non viene chiesto proprio il passaporto, in compenso la hostess si scorda di ridarmi il mio.

E passiamo così.

L’efficienza è sempre il loro forte.

Ricambiamo il saluto degli addetti che fumano beatamente sul rullo dei bagagli, comodamente adagiati all’interno di tubi di metallo, e filiamo al Gate.

Sediamo esauste e assonnate, osservando i piatti fumanti di nasi goreng serviti a due tipi al chiosco dietro di noi. Un gatto passeggia indisturbato per il corridoio. Tutto regolare.

L’aereo parte alle 5.50, ma non ci è dato sapere l’orario d’imbarco.

D’altronde, sul biglietto manoscritto non compare.

“Si sarà dimenticata di scriverlo”.

“Almeno ha scritto i nomi”.

I nomi. Un dubbio atroce mi assale.

“Fra, ti prego guarda il mio nome”.

ILARAIA.

Mentre l’ansia di ulteriori guai pre-partenza mi attanaglia lo stomaco ferocemente, ripenso per un’ultima triste volta alla dolce infermiera, che in fondo aveva previsto tutto ciò e ci aveva candidamente avvertito col suo lungimirante monito:

“Don’t push yourself”.

Uscita dal paese delle meraviglie

DISCLAIMER:

Questo diario di viaggio è altamente sconsigliato ai minori di 18 reincarnazioni in vite avventurose

Alle persone che soffrono di disturbi cardiovascolari

Più in generale a tutti quelli in possesso di buonsenso e privi di ansiolitici a portata di mano.