Don’t push yourself

Capitolo 13 – Ubud, tra cielo e terra

Viaggi di ricerca in Indonesia

«Decorerebbero la nostra camera

Mobili rilucenti

Levigati dagli anni; e i fiori

Più rari, che mischiano i loro

Profumi ai sentori

Vaganti dell’ambra.

I ricchi soffitti,

gli specchi profondi

e lo splendore orientale, tutto

parlerebbe in segreto della nostra anima

la dolce sua lingua natìa.

Tutto, laggiù, è ordine e bellezza,

lusso, calma e voluttà».

 (Charles Baudelaire, L’invitation au voyage)

4 gennaio 2014

Ubud, Bali

Ore 23.00

Alle 17.58 prendiamo i nostri bagagli, ripassiamo per la quinta volta indisturbate per il banco arrivi tramite il corridoio uffici doganali, come fosse il salotto di casa nostra, e ci dirigiamo al banco check-in, che apre alle 18.00.

È ancora tutto deserto.

Ma ci mancherebbe altro.

Torniamo alla base.

Stesse sedie di metallo, stessi posti di qualche ora prima, posizione verticale anziché orizzontale, occhiaie di qualche canyon più profonde. Dovremmo mettere le due istantanee accostate e propinarlo al ‘trova le differenze’ dell’enigmistica.

Alle 18.30 il tabellone non riporta affatto il nostro volo.

Mi reco di nuovo al Gate.

È pieno di persone in fila ma gli addetti all’imbarco ancora non ci sono.

Chiedo a qualcuno tra quelli accodati se stanno aspettando il volo per Denpasar delle 20.25. Non lo sanno. Chiamate un sociologo.

Alle 18.45 riusciamo a vedere l’apertura del check-in. Il ragazzo al banco non sa bene cosa fare con i nostri passaporti. Dopo momenti di dubbi neri ci arriva e riusciamo a stampare i biglietti.

Andiamo all’imbarco e ci rimandano al banco check-in, mancava la tassa da quaranta euro. Pensavamo di averla scampata stavolta, invece quella se la ricordano sempre.

Rientriamo per l’ennesima volta al Gate e non sappiamo che fare, abbiamo già fatto tutto nelle quattro ore precedenti.

In realtà quasi tutto: c’era un centro SPA con trattamento di sei ore, lo scopriamo solo ora. Malediciamo tutto il maledicibile e ci abbrutiamo sui sedili del Gate 6, armate di caramelle gommose e flauto, in attesa della chiamata all’imbarco, che secondo il biglietto dovrebbe avvenire alle 19.45.

Alle 20.30 saliamo a bordo. Si gela.

Trascorro un’ora e mezza bardata sotto sciarpe e giacchetti, rannicchiata sul sedile come un riccio. Non c’è alcuna possibilità di chiudere o far abbassare l’aria condizionata da abbattitore industriale. Per fortuna il viaggio è breve.

Scendo in punta di piedi sulle stalagmiti.

Trovare un taxi è più facile di quanto sembri, 250.000 rupie e una trentina di minuti dopo siamo ad Ubud, il capoluogo cultuale balinese, nel centro dell’isola.

C’è solo un problema: è l’una di notte.

Comincia il toto-accommodation.

Dopo soli tre tentativi falliti, approdiamo al Green Hill.

Con 350.000 rupie a testa abbiamo un bungalow tutto per noi per due notti, colazione inclusa. Ci facciamo accompagnare su per la scaletta in pietra fino al suggestivo appartamentino, immerso nella natura rigogliosa di un giardino alla balinese. Apriamo la grande porta rossa in legno intarsiato con il volto di Barong che ci guarda dall’alto, promettendoci buoni auspici. Una spaziosa camera con mobilio e infissi in bambù e ampio candido letto a baldacchino al centro ci dà il benvenuto.

La nostra alcova.

Ispezioniamo il bagno, così, per deformazione professionale.

C’è acqua calda, un lavandino funzionante e carta igienica. Quasi compete con lo Sheraton.

Scopro che c’è persino un balconcino con un salottino in bambù con vista sul giardino.

Marchiamo subito il territorio con schiere di panni stesi, prima che ci ripensino. Che poi sono gli stessi panni ancora umidi da Tana Toraja. Non serviva fare Sub per osservare organismi acquatici nel loro habitat naturale.

La stanza è perfetta, c’è solo un piccolo problema: formiche, tante, e grosse.

Parte lo sterminio.

Disinfestato anche l’ultimo angolo di pavimento, chiudiamo i battenti e la zanzariera e sprofondiamo in un letto vero. Perdiamo i sensi brutalmente ed irreversibilmente fino al mattino successivo.

Alle 8.00 del mattino siamo già in piedi, pronte per la colazione.

Qualche minuto dopo lo sono anche gli addetti alle cucine.

Ordiniamo l’unica colazione che contempli del dolce: quatto toast a testa, stra-fritti e incaprettati in strati di uova sbattute, spezie e burro, con contorno di macedonia di frutta esotica. Ancora una volta, la gastrite ci strizza l’occhio da dietro l’angolo.

Lasciamo gli intestini in custodia alla reception e partiamo per un giro perlustrativo della città.

Vorremmo tanto fare una tranquilla passeggiata distensiva nella città della pace interiore e del ritiro spirituale. Ma qualcosa ce lo impedisce. O meglio, una serie di cose.

Al terzo posto, la sfilza di mercatini e negozietti sulla via principale. È un fermarsi continuo ad ogni angolo, non c’è tregua. Una volta oltrepassato il limite della distanza di sicurezza coi venditori non si esce più dal vortice, ogni tre metri c’è qualcuno che ti accalappia urlando: “Ok, ok mister, 50! 40! 30!”, ancor prima ancora che uno abbia il tempo di capire cosa vogliono farti comprare, la verità è che non lo sanno neanche loro.

Al secondo posto nella Top 3 degli impedimenti ad una sana passeggiata di benessere ci sono i marciapiedi, o meglio, non ci sono. Agglomerati informi di cemento e mattonelle creano insidiosi saliscendi. È come se un pazzo fosse andato in giro per la città a dare picconate alla pavimentazione. È tutto divelto, blocchi sconnessi e tombini semi-aperti formano orribili trabocchetti per gli infradito. Si rischia l’osso del collo come poco poco si alzano gli occhi.

Il primo posto sul podio lo guadagnano i tassisti. Più o meno ogni cento metri c’è un omino appostato con un cartello in mano. La scritta TAXI nero su bianco ci compare davanti agli occhi ogni due minuti, accompagnata da relativo richiamo a loop. Sono molesti e decisi, non gli importa quale sia la risposta, l’importante è continuare a proporre corse ostinatamente senza riprendere fiato.

Arriviamo alla strada principale tra i mille ostacoli e ci mettiamo alla ricerca di un centro informazioni turistiche. Ne troviamo diversi.

Il primo ci propina una programmazione delle performance serali, non aggiornate alla stagione corrente. Perfetto.

Gli chiediamo informazioni sui tour fuori città. Dice che ce li potrebbe mostrare, se avesse la cartina. Ringraziamo e passiamo al successivo.

Questo gli orari ce li ha giusti, ma di cartina comunque non se ne parla.

Il terzo mi suggerisce direttamente di andare a comprare una cartina al bookshop a fianco.

Bando ai convenevoli.

Andiamo a comprarci la benedetta cartina con tanto di depliant allegati e ci organizziamo il tour da sole.

Dopo una breve visita al tempio, al palazzo reale e al mercato, non sappiamo più che fare.

Una signora ci ‘costringe’ a comprare dei rambutan (frutti dalla buccia pelosissima che dentro sono simili ai lychee) e un pezzo di nangka (jackfruit), che mangiamo strappando a mani nude sui gradini del palazzo.

Ed è lì che ci viene l’illuminazione, come il Buddha sotto il fico sacro: affittiamo il motorino e andiamo alla ricerca di templi perduti, modello Indiana Jones.

Puntiamo subito il primo obiettivo sulla cartina: il tempio della caverna dell’elefante.

Mentre siamo intente a salire in sella al motorino i tassisti continuano ad offrirci passaggi. Ci limitiamo a muti sguardi basiti.

Neanche a dirlo, comincia a piovere a dirotto.

Fortunatamente il tempio non è troppo lontano. Raggiungiamo il sito in poco tempo e veniamo assalite dalle guide. Ci facciamo largo e riusciamo ad entrare nella caverna da sole. Apprendo da un cartello che le donne in periodo mestruale non possono entrare.

Dopo un giro per il giardino e le vasche, crediamo sia tutto lì, poi scopriamo il retro. Scendiamo delle scalette che scompaiono inghiottite da fitta vegetazione e arriviamo ad un altarino tra quattro mura. Un vecchino ci ‘costringe’ a pregare. Alla quarta congiunzione di mani davanti al naso, alza una stuoia e ci mostra dei soldi. Gli facciamo cenno che non è aria. Nel dubbio, continua a farci pregare. Decidiamo di porre fine a questa farsa e usciamo alla chetichella con le mani giunte.

Sul tronco di un albero scorgiamo due cartelli in legno a forma di freccia, che puntano verso il fitto della giungla, con su delle scritte rosse che indicano: PURA (‘TEMPIO’). Ci sentiamo come Alice nel paese delle meraviglie, attratte e spaesate allo stesso tempo. E come Alice, non possiamo fare a meno di ficcare il naso in situazioni su cui il buon senso metterebbe una sirena rossa lampeggiante. In un batter d’occhio ci ritroviamo nel folto della vegetazione, in una deviazione del sentiero principale, tra fango fino alle caviglie, liane pendenti, rocce appuntite e strapiombi. E via: “Don’t push yourself”.

È che proprio non possiamo farne a meno.

In tutto ciò continua a piovere a dirotto. Io ho indosso delle Superga, dei pantaloni larghi di cotone fino comprati su un banchetto a Lombok, una canottierina e un’ingombrante mantella da pioggia.

Un film di Paolo Villaggio.

Dopo un’oretta di avventure nella giungla, raggiungiamo nient’altro che un fiume in piena, con rapide. Vecchie conoscenze.

Il sentiero continuerebbe, in giorni migliori, su quelle che ora sono rocce fangose a precipizio. Il nostro percorso termina decisamente qui.

Torniamo indietro nel pieno del divertimento. Ne usciamo fuori con fango ovunque, vestiti laceri e acqua fino alla nostra rappresentazione iperuranica.

Così conciate, decidiamo di continuare comunque il tour dei templi e dirigerci verso Tampaksiring, al nord di Ubud.

Imbocchiamo la strada sbagliata e ce la facciamo dritta finché non rinsaviamo e decidiamo di chiedere dove accidenti siamo. Come al solito, diversi pareri ci piovono addosso: “Nord-sud-destra-sinistra”. Nel dubbio, continuiamo ad andare dritte. Finiamo senza volerlo in un posto bellissimo con veduta mozzafiato su terrazze di riso che si estendono su un’intera vallata. Ci fermiamo a scattare qualche foto e ripartiamo. Visto che ci ha detto bene una volta, forziamo la sorte e andiamo ancora dritto. Troppo dritto. Finiamo in un villaggio desolato su un’altura, tra tempietti e capanne. Chiediamo ai locali di turno: dobbiamo tornare indietro, su questo il verdetto è unanime. Ma il problema è nella quantità di chilometri da percorrere. Il primo dice sette, il secondo dice quattro, il terzo dice dieci. Il quarto non lo sa (severo ma onesto) e dice di girare al terzo incrocio a sinistra, dopo un ‘mercato’.

Alla fine era la seconda a sinistra, erano molti meno chilometri e non c’era nessun mercato.

Quando arriviamo non ci pare vero. Il tempio è uno spettacolo magnifico, valeva quasi tutte le tribolazioni per arrivarci. Ci fanno indossare un drappo rosso prima di entrare.

Il sito è deserto, ci siamo solo noi. Si tratta di un grande comprensorio con giardini labirintici e vasche di acqua purificante.

Dopo un breve giro per i giardini ci dirigiamo alle piscine. Pare sia vietato entrare e attingere all’acqua se non per motivi rituali.

Continuiamo a passeggiare ed osservare incuriosite cercando di prestare più rispetto possibile. Alla quarta vasca torniamo indietro con la coda tra le gambe e il rispetto nel taschino: ci sono uomini nudi che si lavano.

Ripieghiamo sul tempietto acquatico a rinfrancarci la vista e lo spirito. Dopo altri giretti tra i vari giardinetti e complessi di statue, corredati di foto dettagliate, scorgiamo una scritta su un fogliaccio attaccato all’entrata di un arco: ‘MANDI 1000 RP.’ (BAGNO 1000 RUPIE). Sembrano a tutti gli effetti vasche aperte al pubblico. Entriamo.

Si rivelano essere piscine a cielo aperto, uomini a destra, donne a sinistra, separate da alte mura, con acqua limpida e sassi sul fondo. Da una fila di fontane a forma di Barong sul muro di fondo sgorga dell’acqua pulitissima e altrettanto fredda. Una donna mi invita ad entrare. Lei sta uscendo con la sua bimba, avvolta in un asciugamano. Mi rendo subito conto che non ci siamo portate nulla di utile per un eventuale bagno. Non ho neanche dei vestiti di ricambio, ho solo quelli che ho addosso, umidi e fangosi…

In due minuti sono a mollo nell’acqua limpida, completamente nuda.

Non potevo perdermi questo bagno per nulla al mondo.

Fra rimane a lanciarmi occhiate di biasimo e compatimento da bordo vasca, coi piedi a mollo.

Dieci minuti dopo sono fuori a battere i denti, ancora più bagnata di prima, ma sicuramente più purificata.

Rimontiamo in sella al motorino e ci avviamo affrontando buio e pioggia. Ci fermiamo solo per entrare in un lugubre chiosco di cibo Padang lungo la strada.

Approdiamo in città giusto in tempo per assistere alla performance di wayang kulit ad un certo Kertha Hotel, sulla Monkey Forest Street. Dopo aver imboccato la strada suddetta contromano (inconsapevolmente, a mia discolpa) e aver rischiato la vita, capisco come funziona la viabilità di Ubud. Una città turistica e caotica, che fa conto su due sole strade principali a senso unico, unite ad un dedalo di vicoletti labirintici e impraticabili. Il piano regolatore sarà stato evidentemente approvato da uno dei gibboni della Monkey Forest.

Dopo tre o quattro vasche della Hanoman Street verso sud per poi riprendere la Monkey Forest Street nel verso giusto e mancare l’indirizzo dell’hotel senza possibilità di tornare indietro (non senza il contributo delle solite informazioni senza criterio) troviamo questo benedetto posto. Entriamo pagando 100.000 profumate rupie (è la prima volta in mesi di ricerca che pago per una performance di wayang) ricavando solo delusione e risentimento.

In una minuscola saletta immersa nel buio, si staglia uno schermo sul quale fanno la loro comparsa le marionette. Dal retro di esso proviene la voce del marionettista e la musica del gender wayang, col tipico interlocking dei quattro strumenti.

Fin qui tutto bene.

Quando il dialogo inizia già cominciano i problemi: è in inglese, orribilmente, in inglese. Il pubblico, composto da quattro turisti seduti sulle panche di fronte lo schermo, ride a crepapelle alle battute su Ronaldigno, i nasi dei balinesi e le lune di miele dei turisti nell’isola.

Questo non è il wayang che conosco.

Sento il bisogno di andare dietro lo schermo.

Il dalang è vero e pure bravo. Le marionette sono quelle vere, in pelle, illuminate dalla luce di una lampada ad olio, come vuole la tradizione. I musicisti, seduti dietro i loro gender a torso nudo con copricapo balinese, non danno i resti a nessuno. È la storia che non va, la lingua e i dialoghi.

Dopo meno di un’ora è tutto finito, non so se considerarlo un sollievo o un ulteriore insulto, soprattutto per quel prezzo. Il wayang tradizionale va avanti fino alle cinque del mattino.

Quando accendono le luci rimango ad attendere il marionettista, in fibrillazione. Voglio dirgliene quattro. Non appena pronuncia una parola in inglese e mi propina il ghigno turistico lo blocco.

Si parla in indonesiano e subito la conversazione cambia registro. Gli dico che sto studiando all’ISI di Yogyakarta e faccio ricerca sul wayang kulit giavanese. Lui è dalang, danzatore, musicista e insegna ad alcuni studenti nella sua casa a Bali. Tuttavia, il turismo gli permette di campare e portare soldi a casa. Bali, decisamente, Bali. Andiamo avanti a discorrere un altro po’ e mi rincuoro un minimo. È consapevole di ciò che fa o non fa, per lo meno.

Soddisfatta dopo la bella chiacchierata, torno con Fra al nostro nido per rilassarci e svolgere le solite faccende domestiche: sterminio formiche, pianificazione attività turistiche, degustazione di tè al gelsomino e sfruttamento del bene immobile più prezioso, il letto.

Il mercato delle offerte
Offerte mattutine
La nostra alcova
Terrazzino con vista
Offerte, offerte e offerte ovunque
Il mercato di Ubud
La venditrice di frutta
Il taglio del jackfruit
Fiori per le offerte
Barong e i suoi templi
Holy water
Tampaksiring
Le vasche di Tampaksiring
Statue e viali
Le risaie
Ricefield terrace
Tempo di raccolta
Una giornata di pioggia nella giungla
Il nostro percorso finisce qui
Wayang kulit