Don’t push yourself

Capitolo 12 – Transito a Makassar

«Ormai rimane solo la città, su questo pianeta di cui gli uomini hanno fatto il giro. Le nuove forme, tramite la loro stessa assenza di misura, di cui possiamo deplorare o ammirare quel che ci appare di volta in volta disumanità o grandezza, evocano il duplice orizzonte del nostro avvenire: l’utopia di un mondo unificato e di un universo da esplorare».

 (Marc Augé, Non Luoghi)

2 – 3 gennaio 2014

Aeroporto di Makassar

Ore 08.30

Saliamo a bordo del pullman notturno per Makassar.

Grazie ad un’incomprensibile botta di fortuna, ci accaparriamo i primi due posti dietro il guidatore. Procedo subito a reclinare il sedile e a prepararmi per lauti sonni.

Un tizio di passaggio mi invita a ritirarlo su.

Gli chiedo il perché, dato che il posto dietro è comunque vuoto.

Non risponde.

Glielo richiedo in ogni lingua possibile.

Niente, non proferisce parola, ride.

Lo mando a quel paese e rimango esattamente come sono, mi spostasse di peso, se la cosa lo diverte.

Quando tutti sono ai loro posti, l’autista si accinge a partire, non senza aver prima collegato il suo cellulare agli altoparlanti del bus, dando il via alla disco-trash indonesiana. Ed è subito bus-party. Ma il fatto che il cellulare sia utilizzato come autoradio, non impedisce al guidatore di utilizzarlo nelle sue funzioni primarie. Quando un’altra canzone si sovrappone a quella in play, lui pigia un tasto e risponde con tutta nonchalance, mentre il pullman è lanciato in tutta velocità nel buio pesto.

Non voglio guardare.

Quando pretende di girare in una stradina grossa la metà del pullman, contromano, cominciamo a preoccuparci.

Dopo mezz’ora persa ad intralciare il traffico e a scaricare clacson su altri autisti, riusciamo a passare oltre. Le baracche e i chioschi di babi bakso (orribili polpette di scarti di maiale) sfilano davanti ai nostri occhi. Il pullman procede a zig-zag, drammaticamente indeciso se stare sulla destra o sulla sinistra. Il contromano è comunque il lato più quotato.

Quando crediamo di aver quasi finito le tribolazioni e di poterci mettere comode nel nostro assopimento, ci fermiamo. Non capiamo cosa stia succedendo.

Dopo un po’ riparte, in un alone di mistero. La luce comincia una fastidiosa intermittenza, non si sa perché. Poi lo vediamo coi nostri occhi: una bimba sta giocando col quadro comandi.

Siamo in ottime mani.

Dopo pochi minuti si riferma, altra attesa mistica, poi telefona, la musica in pausa, altri giochini con le luci, e si riparte.

Alla quinta o sesta sosta del genere, la cosa comincia a diventare abbastanza insostenibile. Per un momento ci viene il dubbio che effettui delle fermate, ma non vediamo salire né scendere nessuno. Alla settima volta si supera, scende anche lui, lasciando il pullman in moto.

Dopo aver affumicato l’affumicabile, decide di risalire a bordo, sempre rispondendo al cellulare. Un altro tizio pensa bene di rimettere la musica da un altro cellulare, non sia mai rimanessimo senza groove.

La fermata successiva consiste nell’accompagnare la bimba e la mamma (forse la moglie e la figlia, a questo punto) davanti casa loro.

È diventato taxi come niente.

Quando sono le dieci di sera passate, tra un risveglio turbolento e l’altro a suon di pop indonesiano in un ripetere ossessivo di aku cinta kamu (‘I love you’, il 99% delle parole del 99% delle canzoni), crediamo che sia ora di spegnere. Lui non è evidentemente dello stesso avviso.

Gli chiediamo cortesemente se almeno può abbassare il volume. In caso non ci avesse fatto caso, gli ricordiamo che sta guidando un bus notturno che impiegherà otto ore per raggiungere un aeroporto, da cui la gente presumibilmente continuerà il viaggio, e che vorrebbe farlo riposata.

Continuiamo il tira e molla con l’autista per tutto il viaggio, otteniamo solo ingannevoli abbassamenti momentanei.

Quando finalmente riusciamo a chiudere occhio nonostante tutto, ci rifermiamo.

“Makan”. Si mangia, a notte fonda.

Mi affaccio a scrutare il buio pesto in cui un baracchino spunta oppresso dalle tenebre e chissà cos’altro lì fuori. Non intendo scendere per nessun motivo. I passeggeri si avviano a tentoni facendosi luce con il cellulare. L’autista riscende, lasciando in moto. Figuriamoci.

Dopo un po’ la puzza di smog diventa insostenibile. Fra: “Forse sarà anche per quello davanti”. Alzo lo sguardo, un altro pullman parcheggiato di fronte a noi, privo di autista, butta gas a tutto spiano.

Decido di far finta che sia tutto un brutto sogno e torno a dormire.

Alle 4.00 del mattino siamo all’aeroporto di Makassar.

Facciamo il nostro ingresso trionfale tra gente buttata un po’ ovunque e nient’altro.

Corriamo al banco della Air Asia a supplicare di cambiarci il volo. Niente da fare, in mattinata è tutto pieno. Facciamo quel che avremmo dovuto fare sin dall’inizio del viaggio: ci rassegniamo.

Entriamo trascinando le nostre membra nell’aeroporto e, accasciate su delle sedie di metallo, tentiamo di recuperare almeno tre orette di sonno alla meno peggio. È comunque più riposante del pullman. Dunque, desiderose di non girare il sequel di The Terminal, ci rechiamo a prendere un caffè e pianificare il da farsi fino alle otto di stasera.

Il cameriere non capisce affatto che vogliamo due caffè, ma questo non ci sconcerta più.

Qualche ora dopo

Aeroporto di Makassar

Lasciamo i bagagli alle cassette di sicurezza aperti “34 hours”, a detta della custode.

Dopo aver chiesto la tariffa ad un taxi più che esoso, ripieghiamo a malincuore sul trasporto pubblico DAMRI. Stavolta ci prendiamo la premura di spiegargli bene e più volte dove dobbiamo andare, con cartina alla mano. Stanche di avventure selvagge, vorremmo chiedere asilo politico al Makassar Mall, vivamente consigliato dalla Lonely Planet.

Il conducente pare aver capito e ci dice di scendere ad una certa Jalan Kartini, per poi fare 200 metri a piedi (400 per la Lonely Planet).

Montiamo su e cerchiamo un posto. Ce n’è giusto uno, ce lo facciamo bastare.

Ad ogni fermata ci premuniamo di chiedere l’esatta posizione e la distanza che ancora ci separa da Jalan Kartini. Inutile dire che arrivano risposte di ogni genere: “vicino”, “lontano”, “qui”, “lì”, “tra un’ora”, “adesso”.

Tombola.

Facciamo da sole, senz’altro.

Ci mettiamo ad osservare i nomi di ogni strada e a confrontarli con la cartina. Non ci ritroviamo affatto. Per fortuna l’autista, in un moto di pietà e lucidità, apre le porte tutto d’un botto e ci informa: “Makassar Mall”. Siamo commosse.

Seguendo le informazioni racimolate, proseguiamo per quei 200/400 metri credendo che prima o poi spunti un enorme palazzo con insegne giganti e reclame di marchi più o meno conosciuti.

Contro ogni aspettativa, ci ritroviamo invece nel bel mezzo del mercato di Makassar.

Con i piedi immersi in fango ed immondizia, cominciamo convulse contorsioni di busto e rotazione di occhi a 360°, nel tentativo di orientarci tra mucchi di ananas e batik appesi.

Il prossimo scopo delle nostre vite diviene immediatamente cercare l’uscita del mercato e l’entrata del centro commerciale, ancor meglio qualora le due cose siano coincidenti.

Chiediamo ad una venditrice che ci informa, convintissima: “È questo”.

Non è possibile.

Cominciamo a percepire i nostri sogni di gloria sgretolarsi sotto i nostri piedi, sotto gli strati di melma e rifiuti organici, siamo come due dispersi nel deserto che si vedono negare la loro oasi verdeggiante. Cominciamo a fare retro front in preda all’abbattimento più nero, quando all’improvviso, un cartello arrugginito sospeso a mezz’aria tra dolore e noia informa: CARREFOUR MASUK. L’entrata! Alziamo lo sguardo verso l’edificio a pochi metri dopo il mercato e corriamo a rintanarci dentro come rifugiati politici.

Dopo quattro piani di replica di mercato al coperto, arriviamo al quarto ed ultimo e troviamo l’Olimpo. Il supermercato.

Acchiappiamo il primo carrello sgangherato che troviamo e facciamo l’ingresso trionfale nella civiltà del consumo. Ci dirigiamo subito al banco alimentare per tentare di rimediare una sorta di pranzo. Abbiamo bisogno di cibo ufficialmente riconosciuto dagli standard delle nostre papille gustative, continuiamo a campare di crackers da due giorni.

Ordiniamo un cap cay di verdure e un piatto di verdure al curry con riso. Freddi.

Iniziamo male. Ma poi finiamo peggio: la macedonia di frutta, con maionese. Un must indonesiano.

Ci sentiamo profondamente insultate.

Tempo di rimpinguare le nostre immancabili scorte alimentari tra i banchi del supermercato e riusciamo all’aria aperta. Dato che di tempo ne abbiamo ancora da vendere, decidiamo di andare al porto a vedere il Furt Rotterdam, sempre su consiglio della Lonely Planet. Ci andiamo in becak.

Ci mancava solo quello in effetti.

Appena il dolce vecchino imbocca la strada principale contromano, schivando motorini, taxi e pullman per il rotto della cuffia, la mia mente comincia a rivangare echi lontani e l’immagine della cara infermiera del Surabaya Hospital ancora una volta si fa largo tra i miei pensieri, come un vecchio fantasma coloniale: “Don’t push yourself”.

In qualche modo arriviamo al porto in cui, eccetto cumuli di spazzatura e baracche, non c’è poi un gran che da osservare.

Risparmio i commenti sul Fort Rotterdam.

Alla fine battiamo bandiera bianca su un parchetto pubblico. Io mi metto a suonare il mio flauto, smettendo ogni tanto solo per fumare delle Djarum. Fra rimugina sul nostro imminente futuro come un saggio in cerca di illuminazione. Ma la pacchia dura poco, il da fare ce lo trovano subito: parte il set fotografico coi teenagers locali, appena usciti dalla scuola di fronte. Due gruppi di bimbette velate e qualche ragazzetto sfrontato che torna anche per il bis, ci costringono a levare le tende di gran carriera (“sbrigate prima che ce ripensano”).

Torniamo quindi a piedi alla fermata del bus. Una signora passa sfoggiando la sua borsa con su stampato ‘I love Makassar’. Vorrei strappargliela di prepotenza e gettargliela in uno dei cumuli di immondizia del porto.

Stavolta che abbiamo tempo da perdere a volontà, troviamo l’autobus in un batter d’occhio, già pronto a partire. È velocissimo.

Alle 14.30 siamo di nuovo davanti al maledetto aeroporto.

Non sapendo stare con le mani in mano, andiamo a recuperare i bagagli dalla luggage-room.

Tempo di arrivare al tabellone degli imbarchi e ci accorgiamo che è stata una pessima idea: il check-in apre alle 18.00.

Riportiamo indietro i bagagli.

A questo punto parte l’unica attività rimasta: il tour dell’aeroporto.

Ci mettiamo a curiosare in due librerie e qualche negozio di articoli locali, niente di che. Quindi, ci troviamo costrette a ripiegare sul nostro più fido alleato: il cibo.

Ordiniamo due zuppe di soto makassar (zuppa di bovino secondo ricetta locale) e ci sediamo tra indonesiani curiosi. Una famiglia musulmana composta da mamma, papà e figlio si siede a fianco a noi. La mamma mi offre noccioline caramellate e attacca bottone. Per lo meno ci trovano un diversivo per un po’ di tempo.

Dopo un po’, ancora una volta, sentiamo l’irrefrenabile bisogno di sbilanciare l’allineamento del nostro asse astrale, che finalmente aveva trovato un minimo di pace, e decidiamo che dobbiamo assolutamente andare in cerca di WiFi.

Ci infiliamo in un esoso Starbucks convinte di aver trovato la Mecca.

Siamo ancora qua, senza WiFi.