La casa della sindhen

Capitolo 11 – Fuga a Parangtritis

«Wikan wengkoning samodra,
Kederan wus den ideri,
Kinemat kamot hing driya,
Rinegan segegem dadi,
Dumadya angratoni,
Nenggih Kangjeng Ratu Kidul,
Ndedel nggayuh nggegana,
Umara marak maripih,
Sor prabawa lan wong agung Ngeksiganda

I limiti conosciuti dell’oceano
Sono già stati tutti esplorati
Il suo fascino penetra nel cuore
Catturato, uno diviene
Di lei il dominio, la Regina del Sud
Vola in alto
E dunque viene in adorazione
Perdendo il prestigio
Il sovrano del regno di Mataram».

(Serat Wedatama, antico poema giavanese)

4 ottobre 2013

Yogyakarta

Ore 17.50

Dopo circa tre micragnose ore di sonno, apro gli occhi mezz’ora dopo di quando avrei dovuto. Più che una sveglia, se continuo a seguire gli spettacoli di wayang kulit, dovrò assoldare un agente che butta giù la mia porta simulando una retata ogni mattina.

Tempo dieci minuti – nei quali ho tempo di vestirmi alla meno peggio, gettare cose nella borsa di tela e infilarmi due biscotti in bocca – e ricevo una chiamata da Kardi che mi avvisa si essere già arrivato a Jalan Minggiran Baru (la via di casa mia). Corro fuori, chiudo la porta, riapro la porta, rificco a forza il cane della coinquilina dentro, richiudo la porta, la riapro, torno a prendere il casco che avevo dimenticato e mi presento all’appuntamento.

Il mio amico arriva sorridente sul suo motorino, indossando una giacca di pelle che mi fa venire caldo solo a guardare. Faranno quarantacinque e ho visto gente con guanti di lana, sciarpe, cappelli e felpe. Mi dico che avranno una diversa percezione del calore.

Kardi mi chiede perché abbia portato il mio casco, sembra scortese dirgli che è perché il suo non si chiude, dunque torno indietro l’ennesima volta, apro la porta, chiudo la porta, saluto il cane, rificco dentro il cane, metto la cera, tolgo la cera, e vado a rischiare la vita con un casco rotto per i colli indonesiani. Dice che ha intenzione di portarmi a vedere il mare a Parangtritis (si, è sempre lei, ma percorsa fino alla fine in direzione sud, tipo la Cristoforo Colombo).

Dopo innumerevoli chilometri, banani e risaie fino alla nausea, con sporadiche chiese cattoliche davanti alle quali devo mostrare stupore e reverenza, arriviamo alla Queen of the South, la spiaggia più famosa di Yogyakarta, totalmente deserta. Oggi è venerdì, le moschee divengono il cuore della vita sociale e tutto il resto passa in secondo piano.

Facciamo una specie di colazione in un gazebo di bambù, dove una signora ci porta il solito riso e pollo, continuando ad ammiccare pensando che siamo una giovane coppia di sposi (non ne posso più di incappare in possibili futuri mariti). Tento in tutti i modi di dare a intendere che non sia così ma non c’è verso, lei ammicca senza ritegno e ci offre pure un piatto di verdure extra.

Dato che tutto quel viaggio in motorino sotto il sole mi ha sfiancata, rimaniamo un po’ lì al fresco, tanto la signora è contenta. Parliamo un po’ di tutto, tra l’altro mi intrattengo in un lungo ed inutile monologo sulla mafia italiana (le cose che ci rendono famosi nel mondo). Gli insegno un po’ di latino e qualche coniugazione verbale italiana visto che ci tiene tanto ed in cambio lui mi dà informazioni sul wayang e su modi di vita giavanesi.

Finalmente andiamo in spiaggia ed è meno esotica di quanto mi aspettassi. Tuttavia mi piace l’idea che a pochi chilometri di oceano ci sia l’Australia, Mi piace ancora di più l’idea che quello sia l’oceano e noi siamo su un’isoletta nel mezzo di acque agitate e il nulla. L’Indonesia è la classica porzione di mappamondo a cui nessuno fa mai caso perché per tutti il mondo è compreso tra le Americhe e la Cina, con il Giappone da qualche parte in mezzo all’acqua (tratto da dati statistici raccolti personalmente).

Il bagno è fuori discussione, ci sono onde alte tre metri, anche se è talmente vasto che da lontano non sembra. Difatti, non faccio in tempo a mettere piede sul bagnasciuga, che ricevo secchiate d’acqua da ogni dove. Faccio giusto in tempo a salvare la Canon, ma per la mia gonna e le mie ballerine non c’è speranza.

Credo di aver fatto infuriare la temibile Regina del Sud, Ratu Roro Kidul. Secondo la leggenda, la regina che abita queste acque è stata la sposa del Sultano Agung, regnante del regno di Mataram, qualche secolo fa. La storia non finì bene e la regina tornò nel suo regno subacqueo dominato dal colore verde, il suo preferito. I giavanesi sconsigliano di indossare questo colore qualora ci si rechi alla spiaggia di Parangtritis, per evitare di fare infuriare la regina, col rischio di sollevare maremoti e venire risucchiati nelle profondità dell’oceano a farle compagnia.

Io ovviamente ignorando tutto ciò ho beatamente indossato un top a righe verdi. Risultato: torno fradicia e ustionata. Oltre al colore verde, anche la canottiera in motorino è da mettere decisamente sulla lista dei dilarang, vietato. E anche oggi non ne ho azzeccata una.

L’oceano indiano
Il regno della Regina del Sud

Tempo di una doccia immemore, esco per fare commissioni: pulsa, benzina e spesa al Superindo. Come sto imparando bene. Prima mi fermo a pranzo in un chiosco a caso su Jalan Mangkuyudan. Prendo le solite quattro cose: riso bianco che mi uscirà anche dalle orecchie, tempe, tofu misto a delle bacche rosse di chissà quale pianta (una vesione vegana dell’onnipresente pollo) e una specie di omelette cotta a vapore in una foglia di banano. Ed io che dopo l’uovo ‘sodo-fritto’ pensavo di aver visto tutto. In realtà la vera specialità è l’uovo ‘all’occhio di bue bollito’.

Ovviamente prendo anche l’immancabile tè melathi. Dico tutto in indonesiano, peccato per la tizia alla cassa che rovina tutto con un poco poetico: “Deng you”. Sarebbe stata una conversazione perfetta.

Al Superindo ritrovo il ‘mostro fucsia’ che avevo già visto al Progo. Inutile dire che lo compro. Scopro così che si tratta di un semplice dragon fruit. Faccio incetta di frutta e verdura mai vista andando totalmente a senso e di altri beni primari come il famoso olio ‘in busta’. Sono tentata dal prendere quello di cocco (trovo più cose a base di cocco di quante credessi) ma poi la luce della mia fede ritrovata evidentemente mi ferma. Mi dico che quello di palma è più che sufficiente per sentirmi male.

Torno a casa e mi do alle mie ricerche. Faccio una specie di relazione sullo spettacolo di ieri sera/notte, mi riguardo un po’ i video (quelli delle quattro di mattina hanno decisamente una pendenza singolare) e mi stilo una lista di altri spettacoli che si terranno nei prossimi giorni, basandomi su quello che la mia nuova amica Idho mi ha scritto su un foglietto con la matita per gli occhi. Non posso biasimarla, dopo tutte quelle ore io avrei potuto scrivere con qualsiasi cosa, anche coi fondi di tè.

Quindi mi fiondo nel nostro bel giardino zen, nel quale siede come al solito il padrone di casa al suo tavolinetto (che farà poi tutto il giorno lì non lo so, va bene che è zen, però…) e gli chiedo informazioni per raggiungere quei posti in cui si tengono i wayang. Ce n’è uno anche stasera, pare, ma mi consiglia di riposarmi e di non seguire gli spettacoli tutti i giorni e di far passare almeno due giorni tra uno spettacolo e l’altro. Afferma di conoscere tanta gente che prende il ritmo e finisce per sconvolgere il suo organismo psicofisico.

Daniel è un tipo singolare, ci tiene all’ordine e all’equilibrio della casa e delle persone che vi risiedono. Non riesce proprio a farsi andare giù cose come i caschi lasciati sui motorini e le ciabatte dentro casa. Sono riuscita a trovare un compromesso facendogli vedere coi suoi occhi che il paio che stavo per indossare era intonso, ancora col cartellino di H&M, non riesco ancora ad andare scalza ovunque.

Tutto sommato sembra una brava persona e mi aiuta ogni qualvolta ne abbia bisogno (dunque ogni qualvolta faccia qualsiasi cosa). Mi fa vedere un sito apposito dove c’è una sorta di calendario degli spettacoli di wayang kulit a Yogya e mi consiglia quelli nei quali si esibiscono i migliori dalang, ma soprattutto quelli facilmente raggiungibili. Quello di stasera avrebbe luogo nel nord, a cinquanta chilometri da qui, dunque mi ha sconsigliato di andare a suicidarmi col motorino o di essere spennata da un tassista e di andare a quello del 6 ottobre, che si svolgerà qua vicino. Mi ci accompagnerà di persona, se voglio.

Stasera credo che andrò in trance autoindotta, più o meno. Devo sopperire a ore e ore di sonno perdute, ad un raffreddore e ad un’insolazione. Vedrai, dicevano, in Indonesia ti rilasserai da morire. Mi sa che ho preso in parola solo il ‘morire’. Tra l’altro la vedo dura, stasera grande seratona di hard rock indonesiano in quel di Minggiran Baru. Arrivano cose tremende da qua fuori, sembrano le sigle dei cartoni animati giapponesi di quando ero piccola.

Dopo cena

Da qua fuori arriva di tutto. Ho udito un brano dei Green Day cantato così male che più che Holiday era un Day-hospital. Il tizio che cantava ha preso stonature che non riuscirebbe a prendere neanche uno che fa la parodia ad uno stonato.

La mia coinquilina tedesca mi ha invitata a colazione con lei domani mattina praticamente all’alba, senza margine di ritardo, venendo incontro ad ogni stereotipo. Io invece ho deluso ogni sua aspettativa dell’ Italiana che sa cucinare, proponendo un’improponibile improvvisazione dello chef: noodle di soia con soia in salsa di soia (100% soia); melanzane semicrude (100% gomma arabica) e frittata spugnosa. Forse è per quello che mi ha cortesemente invitata fuori a colazione, era un modo carino per dire: ti prego non cucinare mai più.

Nel frattempo, Taqweem mi manda un messaggio per invitarmi ad una performance di wayang stasera. Un’altra! Le mie occhiaie ringraziano commosse ma sono costretta ad un: “Maybe next time. See you soon”. Piovono performance da ogni dove, ed io che mi preoccupavo di non trovarne a sufficienza. Andrò in overdose di wayang kulit.