«Mèh
rahina sêmu bang Hyang Aruna ,
kadi nétrané ogha rapuh ,
sabdané kukila ring kanigara ,
sakêtêr kêkidungan ningkung ,
lir wuwusing winipanca ,
papêtaking ayam wana ring pagagan ,
mêrak anguwuh ,
brêmara ngrabasa kusuma ring parahasyan arum
Verso l’alba velatamente arrossisce il sole
Sembra un occhio malato
Il suono di un uccello sull’albero kanigara
Come il richiamo di un innamorato
Sembra il suono di un flauto indiano
Il canto di un gallo selvatico
Il richiamo di un pavone
Rotti intercorsi di scarabei, fiori profumati in una camera da letto».
(Suluk Pathet Manyura Wantah,
poema giavanese che accompagna sezione conclusiva della narrazione nei teatri delle ombre, invocando l’alba)
3 ottobre 2013
Ore 15.42
Yogyakarta
Come al solito mi sveglio prestissimo per arrivare all’ISI alle 9.00 e il messaggio di Dona arriva puntuale come solo i messaggi di Dona riescono ad essere in questa porzione di mondo. Lei finirà lezione alle 10.00, dunque, è meglio che io venga più tardi. Ma prima non lo sapeva? Anche le lezioni le decidono all’ultimo minuto? Boh. Comunque mi scompongo più di tanto, ormai ho capito l’andazzo.
Arrivo ovviamente in anticipo e attendo fuori il suo studio collezionando sorrisi e saluti da ogni dove. Appena arriva mi porta al dipartimento di Pedalangan e mi fa finalmente parlare con i professori della classe di wayang kulit. Gli rispiego tutto l’affare della borsa, delle ricerche e della tesi, con l’aiuto di Dona che fa da tramite inglese/indonesiano (loro l’inglese lo parlano solo il minimo sindacale). Ottengo di poter seguire i corsi dal lunedì al giovedì anche se, non essendo corsi per Darmasiswa, mi dovrò adeguare ai metodi di insegnamento e alla lingua giavanese.
Dona mi consiglia di comprarmi un vocabolario. Vorrei tanto dirgli che dovrei comprarmi un interprete, ma segno tutto senza batter ciglio. Mi dicono che posso già assistere alla prima lezione, che sta avendo luogo nell’aula al piano terra. Entro e, come da copione, i pochi studenti si girano a guardarmi con occhi sbarrati come se qualcuno avesse dato fuoco ad Hanoman. Mi tolgo le scarpe lasciandole nel mucchio fuori la porta dell’aula e mi avvicino cauta sulla moquette tra i saron e i bonang, mettendomi buona buona ad ascoltare.
Non capisco nulla, non è che potessi aspettarmi altro. Un ragazzo mi dice che il professore sta parlando della metrica dei versi giavanesi (infatti non capivo perché contasse, i numeri per ora sono una delle mie poche certezze). Mi metto momentaneamente l’anima in pace. Nel frattempo studenti e professori tentano vari approcci. Uno dei professori si chiama Petrus, nome cristiano, mi fa notare, difatti lui è cattolico. Mi chiede quale sia la mia religione, dico che sono cattolica anche io, anche se come direbbero loro è la ‘religione da carta d’identità’. Qua il non avere religione non è proprio contemplato (Spoiler: ne uscirò fuori sette anni dopo allestendo altari ovunque io vada e osservando sette diverse religioni).
Poi c’è una svolta: si canta. Il professore scrive sulla lavagna una riga di notazione cifrata in slendro e comincia ad intonare nota per nota. Noi lo seguiamo, questo è semplice. Chiedo se la tecnica vocale si la stessa del canto occidentale, mi dice di sì. Non ne sono convinta, ma per ora non insisto. Finita la sezione di canto, si passa alla manualità. Ci schiaffa tutti davanti al kelir, lo schermo bianco su cui vengono proiettate le ombre delle marionette. Ci piazza in mano le coloratissime figure, e ci mostra come eseguire la prima sequenza:
- Kayon (albero della vita) che rotea
- Personaggio che non so chi sia ma sembra qualcuno di importante che passa salutando
- Folla di gente con lo stesso che marcia
- Sempre il tizio a cavallo
- Gente
- Di nuovo kayon che chiude piantato al centro
Faccio amicizia con una ragazza più giovane (sono tutti più piccoli di me) che mi mostra come impugnare le figure e come posizionarle. In classe ci sono tre kelir e davanti ad ognuno ci sono tre studenti che eseguono ciò che dice il professore. Quando i due prima di me finiscono esito un attimo, ma poi mi convincono. Gli altri cominciano a suonare vari strumenti del gamelan ed io comincio la sequenza gettando un occhio al ragazzo del kelir a fianco per evitare di fare cretinate. Me la cavo abbastanza bene, a parte pochi attimi di panico col tizio sul cavallo che andava incastrato in un certo modo ma le stecche di bambù mi scappavano ovunque. Il professore pare abbastanza soddisfatto.
Poi passiamo finalmente agli strumenti, qua non ho problemi. Mi posiziono davanti ad un saron, vicino la mia amichetta che mi mostra gentilmente la partitura, prendo il martelletto e comincio la sequenza che è semplicissima: 5632 3256 e via dicendo. Nel frattempo il maestro/dalang esegue la scena mentre uno studente riprende con l’Ipad. Ci farà poi rivedere il video e tenterà di passarmelo tramite bluetooth. Un altro degli studenti mi fa persino i complimenti per come suono, sono felicissima.
Finita la lezione, il maestro ci dà appuntamento a lunedì e mi chiede di scambiarci i contatti. Qua elargiscono numeri di telefono come volantini in un giorno di saldi. Mi fermo a parlare un po’ con i miei nuovi amichetti indonesiani in stralci di inglese con inserti di Bahasa Indonesia, dopo di che gli dico che vado a: “Makan” (mangiare).
Esco dal dipartimento e trovo uno dei tanti chioschetti ambulanti che vende una zuppa di noodles, verdure e bakso (polpette di pseudo-carne). Il signore la cucina lì per lì ed è pronta in un minuto. È un po’ il nostro equivalente del panino al bar. Bevo il solito tè al gelsomino e pago ottomila rupie, meno di cinquanta centesimi di euro. Non sapendo che fare, decido di farmi un giro nel campus. Becco la lezione di danza e mi pianto lì davanti estasiata come al solito.
Con mio rammarico, termina poco dopo. Decido di tornare indietro, quando vedo due dei miei nuovi amici seduti a fumare una sigaretta sotto un albero. Uno di loro mi fa cenno di avvicinarmi, vado a fargli compagnia. La mia attenzione è totalmente rapita da un libro sul wayang kulit che sta leggendo. Lo sfoglio un po’ e capisco subito che per me è incomprensibile, ma contando su un mio prossimo futuro da parlante indonesiana, gli chiedo: “Dari mana?” (dove l’hai preso?). Scopro così la biblioteca dell’ISI.
Mi invitano a seguire la lezione di wayang golek (marionette tridimensionali, originarie di Giava occidentale) che sarebbe per gli studenti del terzo semestre, ma tanto per me è tutto allo stesso livello. In realtà sono già distrutta dalle tre ore precedenti ma entro volentieri a fargli compagnia. Spengo la sigaretta e loro mi guardano straniti. Poi capisco perché: qua negli edifici pubblici si fuma tranquillamente e si cicca anche per terra senza remore. Mi adeguo un po’ restia, anche se preferirei un posacenere.
Trovo il professore fuori dall’aula, intento a fumare beatamente con i piedi nella cenere sparsa sulle piastrelle e mi intrattengo con lui e altri due ragazzi. Uno di loro mi invita stasera allo spettacolo di wayang kulit che si terrà all’ISI, dalle 21.00 alle 4.00. Non mi lamenterò mai più di Wagner. Il tempo dell’ennesimo scambio di numeri, e mi congedo.
Torno a casa, dove preparo litri di tè al gelsomino (ho decisamente problemi coi dosaggi), ne offro un po’ al padrone di casa e metto il resto in mille recipienti per farlo freddare. Poi mi riposo un po’ in attesa della lunga nottata che si prospetta.
Ore 5.00 del mattino
Sicuramente morirò a breve, ma morirò felice. Sono reduce da più di sette ore continuative di wayang kulit, il teatro delle ombre giavanese. All’inizio ero un po’ indecisa sul da farsi, soprattutto per il fatto che non sapevo l’indirizzo preciso. Il piano era sostanzialmente andare all’ISI e chiedere lì.
Era inaspettatamente semplice. A meno di cento metri dall’istituto vi è una stradina laterale che imboccata conduce dritta dritta al campo di calcio (o ‘soccer’ come dicono loro). Una volta giunta in loco lo scenario era inconfondibile: distesa di erba sulla quale troneggiavano chioschi ambulanti e motorini parcheggiati alla meno peggio, o meglio ‘buttati’ (perché il concetto di parcheggio presuppone una certa logica). E in fondo a tutto lui: un palco enorme con un’orchestra gamelan stagliata davanti all’ormai familiare kelir, con tutte le figure in pelle colorata disposte in fila ai lati e il kayon che troneggiava al centro.
Subito mi sono ricreduta e ho preso posto in prima fila tra le solite occhiate sbigottite, stavolta a maggior ragione. Neanche gli indonesiani stessi ormai reggono più il tradizionale e interminabile wayang kulit, solo i più anziani e pochi studiosi lo apprezzano ancora. I giovani preferiscono commistioni con generi occidentali e roba contemporanea. Tra l’altro, la lingua utilizzata in questi spettacoli è il giavanese, in vari livelli dall’antico al moderno, dunque neanche loro capiscono una parola di quel che si dice (come mi sento compresa).
Tuttavia, conoscendo più o meno i cicli sui quali si basano le storie, o comunque le trame delle storie principali, e seguendo il carattere delle scene, accompagnato dalla musica del gamelan, si riesce a seguire abbastanza bene. I lunghi dialoghi delle scene di corte sono forse le parti più noiose, i personaggi rimangono per lo più fermi in statici tableau vivant, mentre il dalang recita sfilze di parole incomprensibili. Per quanto possa esser bravo a modulare la voce a seconda dei personaggi, talvolta anche con effetti evidentemente comici, comunque più si va verso la fine più si collezionano sbadigli e sedie vuote.
Le parti in cui interviene la musica e il canto femminile invece sembrano quelle più apprezzate. Le scene più movimentate, come quelle comiche o le scene di lotta, che prevedono acrobazie e salti mortali che dimostrano la maestria del marionettista, sono capaci di tenere incollati gli occhi allo schermo per minuti.
In realtà, quando sono arrivata c’era ancora una performance di musica karawitan di un gruppo di donne islamiche in apertura all’evento, quindi ne ho approfittato per mangiare qualcosa. Dopo occhiate circospette in giro per il prato, ho puntato una vecchietta che arrostiva spiedini in una salsa di noccioline (saté) e ne ho presi un po’, scambiando anche due (ma proprio due) parole in indonesiano. Tipo: “Sono una studentessa, vengo dall’Italia e risiedo sulla Jalan Paragtritis”.
Prima lezione, esercitazione pratica. Più che altro, mi aveva chiesto in che hotel risiedessi nelle vicinanze e mi sono un po’ stizzita, perché non voglio passare per la turista vacanziera annoiata che viene a ficcanasare dietro l’angolo.
Appena iniziata la performance comincio a fare foto e video a rotta di collo. Ho dimenticato il cavalletto, quindi non posso riprendere tutto continuativamente a meno che non voglia slogarmi le articolazioni di entrambe le braccia. E comunque non ho batterie e memoria sufficienti a coprire sette ore. Dopo un po’ mi manda un messaggio Taqweem, il ragazzo che mi aveva invitata qui e mi dice di raggiungerlo al campus. Io gli rispondo che in realtà già sono in prima fila, può raggiungermi lui lì. Non l’ho più visto.
Mentre finalmente trovo pace su una sedia durante una delle lunghe narrazioni, si avvicina una ragazza indonesiana con una Canon come la mia, vestita all’occidentale. È insieme a due ragazzi, anch’essi con apparecchiature da ripresa abbastanza professionali, che si danno da fare per immortalare la performance da ogni lato, mentre un altro riprende frontalmente con una telecamera fissa. La tipa si fa un po’ i fatti miei e tempo due minuti siamo migliori amiche. Parla benissimo l’inglese ed è informatissima sul wayang, due punti che vanno decisamente a suo favore. Il terzo lo guadagna offrendomi sigarette e tè caldo al gelsomino.
Mi siedo vicino a lei alla troupe. Mi chiede se ho davvero intenzione di seguire tutta la performance dalle 21.00 fino alle 4.00 del mattino e mi guarda con ammirazione mista a stupore quando gli dico sì con pieno entusiasmo. In effetti, facendo un paragone stupido, se un indonesiano mi dicesse che vuole spararsi tutto L’anello del Nibelungo in una notte, due complimenti glieli farei.
Iniziamo finalmente questo trip, tra foto, video, tè, caffè, sigarette e domande che gli butto là ogni tanto. Della serie: “Perchè ci sono una tromba e una grancassa nell’orchestra gamelan?”. E anche: “Perchè c’è una marionetta del wayang golek tra quelle del wayang kulit?”. Molti wayang dopo scoprirò che questi strumenti occidentali sono divenuti più che usuali anche nel wayang classico e la scena finale in cui compare la marionetta del golek è invece caratteristica dei wayang più tradizionali. Un gran bel miscuglio.
Arriviamo vive alle 4.30… noi, il dalang, i musicisti e altri tre vecchietti addormentati. La mia nuova amica mi lascia tutti i suoi contatti (ho aggiunto più numeri alla rubrica qui dopo una settimana, che a Roma dopo cinque anni di liceo e quattro di università) e mi scrive le altre date degli spettacoli, cioè tutte le sere da qui al 10 ottobre, in vari luoghi nell’area Yogyakarta. Ovviamente non posso vederle tutte, mi toccherà fare un’accurata selezione. Mi dice anche che esiste una versione dell’epica Mahabaratha in inglese e mi farà sapere dove trovarla, almeno avrò un po’ più chiare le storie narrate.
Corro al motorino ansiosa di andare a dormire, anche se ancora saltellante di gioia, e sfreccio per le strade deserte della città, morendo nel gelo notturno. Giustamente, una si fa nove vaccini di malattie rare e imbarazzanti, per poi prendersi un banale colpo di freddo da motorino. E ora mi rimangono poche ore di sonno, alle 10.00 ho un appuntamento con Kardi, il dottorando dell’ISI che mi ha promesso un giro turistico a spasso per la città. Devo prima trasferire sul computer tutti i video e le foto e ricaricare tutte le batterie, prosciugate fino all’ultimo elettrone.
E ho di nuovo fame, mi è rivenuta voglia di saté.