Don’t push yourself

Capitolo 11 – Banchetto con sacrificio

«The prehistoric man was cursing us, praying to us, welcoming us—who could tell? We were cut off from the comprehension of our surroundings; we glided past like phantoms, wondering and secretly appalled, as sane men would be before an enthusiastic outbreak in a madhouse. We could not understand because we were too far and could not remember because we were travelling in the night of first ages, of those ages that are gone, leaving hardly a sign—and no memories».

 (Joseph Conrad, Heart of Darkness)

2 gennaio 2014

Rantepao, Tanah Toraja (Sulawesi)

Addio alla stanza (che suona più tragico di un addio alle armi)

Ore 17.00

Ore 7.30 del mattino. Fra: “Senti. Ci alziamo? Non ce la faccio più a dormire”.

Gli dico che potrebbe pentirsi di questa affermazione in futuro. Ma non ho più sonno nemmeno io.

Alle otto siamo pronte per la colazione. Fra chiede una macedonia: “Without pineapple”.
Per tutta risposta, il cameriere si sincera: “Only pineapple?”.

Perché non capiscono mai?

Alle 9.00 la nostra guida è fuori ad aspettarci. La prima tappa è la più ardua: reperire un biglietto di ritorno per Makassar, che parta non più tardi delle 8.00 del mattino del 3 gennaio.

Andiamo in agenzia a vedere se ci sono ancora bus disponibili. Non ci sono. Tornano tutti a lavoro dopo capodanno. Di macchine non ce ne sono, se ne vogliamo una privata rischiamo di pagare uno o due milioni di rupie a testa.

Alla fine, in preda alla disperazione, ripieghiamo sull’ultima chance: il notturno.

Mandiamo a monte le nostre ambizioni di un’ultima notte nel lusso e nel comfort e dell’ultima lauta colazione ammirando panorami incantati e prendiamo due biglietti per l’ennesimo tour infernale. Otto ore di puro divertimento, specificatamente: “Without Aircon”.

Figurarsi.

Alquanto abbattute, ci dirigiamo alla prima vera attività mattutina: trekking nella foresta fino ad un’altra caverna mortuaria con bare e ossa in bella vista e ritorno. Chiedo a Fra di uccidermi la prossima volta che mi viene in mente di mettermi delle Superga per fare un viaggio del genere.

Ci dirigiamo quindi ai megaliti. Ma poi ci ripensiamo: c’è una cerimonia funebre che sta per iniziare. Vogliamo vederla assolutamente.

Arriviamo sul sito e l’autista ci scarica ai piedi di una salita sulla quale si stanno avviando altre persone vestite a lutto. Camion colmi di persone in piedi sfilano uno dopo l’altro. Uno porta un maiale vivo, legato dietro al motorino. Questo merita il primo posto sul podio. È quasi peggio di quello con le bombole di gas legate tipo albero di natale sul motorino, pericolosamente davanti a noi nel traffico yogyanese.

La guida di un altro gruppo mi chiede se abbia qualcosa da indossare. No. Ho portato solo la macchinetta fotografica e la borsetta col teleobiettivo. Apre lo zaino, acchiappa un sarung nero e me lo schiaffa addosso. “It’s more polite. You know?”. No, se nessuno me lo dice prima.

Comincio la lunga agonia al termine del soffocamento, sotto gli strati dello spesso tessuto nero, colpito dalle stilettate del sole rovente.

Saliamo su per la salita e uno scorcio meraviglioso ci si para davanti.

Ore 19.00

Pullman per Makassar

Facciamo l’ingresso in uno spiazzo rettangolare circondato da coloratissime case-barca.

Sullo sfondo si staglia la Casa Comune con una lunga scala di bambù tramite la quale si accede alla balconata, dove verrà posto il morto. Sugli altri due lati dell’arena vi sono piattaforme recintate con stuoie di bambù: i tavoli per gli ospiti.

Le piattaforme sono numerate, ognuno occupa una postazione precisa in base al grado di importanza. Ci dicono di non passare davanti a quella più prossima alla casa comune. “Very important people”, potrebbero prenderla a male. Non ci pensiamo neanche a dar scandalo.

Ci tuffiamo in un set fotografico a tutto spiano.

Nello spiazzo, i doni ai parenti, nonché future vittime sacrificali, sono in bella mostra: maiali legati a trespoli con un lungo palo in bambù che attraversa longitudinalmente il ventre, un altro lungo il dorso e stringhe in bambù che lo legano da una parte all’altra strizzandolo in una morsa invincibile. Quello più grosso (che pare valga circa otto milioni di rupie) è chiuso in una gabbia di bambù al centro dell’arena. Accanto vi è un cervo a pelo lungo con le corna mozze e un gallo in una gabbia sospesa tra due palme. Su una di esse, quattro paia corna di toro sono appese una sopra l’altra, ad essiccare al sole (quattro sacrifici della cerimonia d’apertura già avvenuta). Altre innumerevoli paia sono appese in una lunga colonna su una facciata di una delle case-barca.

Inizialmente rimaniamo immobili nel nostro angolino ad osservare e immortalare ogni singolo particolare. Ogni tanto arrivano altri camion a scaricare maiali grugnenti, degli uomini accorrono a scaricarli tirandoli dalle orecchie e buttandoli nel mucchio. Ci sono trespoli di poveri maiali disseminati ovunque.

Dopo un po’ ci riprendiamo dallo stordimento iniziale e scatta la curiosità. “Tell me where I cannot go” chiedo alla guida. Mi dice che basta non piazzarsi davanti la casa comune o nel mezzo dell’arena. Ce ne guardiamo bene. Costeggiamo i box ospiti finché non arriviamo a quello della famiglia del morto. Fra va a cercare un bagno e finisce nelle cucine. In una stanzetta di due metri quadri, una cinquantina di persone si cimentano nella preparazione delle vivande per gli ospiti. Io sto per tornare indietro quando la guida mi ferma. La famiglia ci ha invitato a sedere nella loro piattaforma. Accettiamo onorate e prendiamo posto sulle stuoie di bambù, davanti a tazze di tè e caffè caldo, ciotole di quel pan di spagna, cioccolato, formaggio, banane fritte e biscotti al gusto di formaggio e carota.

Mentre attendiamo che il corpo del defunto finisca di fare il giro del villaggio e venga portato alla casa comune, osserviamo gli altri preparativi e ascoltiamo le spiegazioni della guida. Nel frattempo, un’altra coppia di stranieri si aggiunge al quadretto, assieme ad una guida già incontrata ieri, che millanta di parlare italiano. Fra una cosa e l’altra, mi invita a passare le prossime vacanze a casa sua e mi chiede indirizzi email e Facebook. Dice che mi aiuterà a trovare marito a Tana Toraja.

Mi ci manca solo questo.

Come metti piede fuori dalla comfort zone cominciano a piovere mariti, è incredibile.

L’attesa è in pieno stile indonesiano: lunga e lenta. Intervallata solo da qualcuno che porta bevande, cibi e condimenti ‘particolari’, i cui odori pungenti ti scuotono dal torpore come una granata.

La famiglia del morto vuole foto con noi. Ci risiamo.

Ci mettiamo in posa mentre il via vai di maiali allo spiedo continua indisturbato sullo sfondo.

Dei bimbi scalzi giocano nel fango. Ma in generale ‘piedi scalzi’ e ‘fango’ sono i punti forti dell’evento.

Finalmente, dopo più di un’ora d’attesa, il camion col morto fa il suo ingresso nella location. Accorriamo tutti ad osservare gli uomini che caricano la colorata bara-barca sulle spalle e si avviano verso la scalinata della casa comune. Mentre, con uno sforzo immane, issano il feretro su per i pioli di bambù, altri uomini disposti in cerchio davanti la scala eseguono un canto a più voci e una danza semplicissima, che consiste nel ruotare leggermente e dondolare le mani strette le une nelle altre. Quando la bara-barca raggiunge l’estremità della scala e scivola nella balconata, grida di vittoria e battiti di approvazione esplodono tutt’intorno. Poi c’è il momento della vedova. La consunta vecchina arriva, issata su una portantina ricoperta di pezze colorate. La aiutano a salire sulla balconata assieme alla bara e tolgono la scala. Io e Fra ci guardiamo allarmate. Recuperate la povera signora!

Finita la cerimonia principale arriva ciò che temiamo di più: il banchetto.

Ci accomodiamo di nuovo sulle stuoie nella piattaforma, vicino agli altri due stranieri, ai familiari e alla guida. Poco dopo, cominciano ad arrivare le portate. Prima di tutto, due ciotole d’acqua, per lavarci le mani. Tutti assieme, nella stessa ciotola. Fra mi passa l’Amuchina sottobanco.

Quindi arriva la portata principale: carne di maiale cotta alla brace in canne di bambù. Una delizia di Toraja. Non che avessi dubbi sul fatto che avremmo mangiato del maiale.

Una signora arriva con uno scolapasta pieno di riso (perché non usare una ciotola?) e con dei rettangolini di cartone: i piatti. Un altro signore arriva con un vassoio colmo di pezzi di maiale fumanti e li riversa su uno dei cartoncini aperti in mezzo alla stuoia. Apriamo i nostri rettangolini di cartone osservando attentamente le manovre degli altri. Prendiamo due cucchiaiate di riso. Il signore a fianco a me ‘decide’ che devo averne un’altra e me la mette di sua iniziativa. Ci affrettiamo quindi a caparci parti identificabili di animale dal cartone centrale, prima che tutti gli altri ci si fiondino a piene mani. Non proviamo neanche a chiedere delle posate. Finito di impiastricciarci per bene, evitiamo la scodella d’acqua piena di residui di mani altrui e rispolveriamo l’amuchina furtivamente.

Dopo altro tè, biscotti e cose che sembrano frappe, la guida ci informa circa la seguente attività: sacrificio del bufalo mediante sgozzamento.

In tempo per la digestione.

Portano il grande animale al centro dello spiazzo e lo assicurano con una fune ad un paletto piantato nel terreno. Un vecchietto seminudo impugna un coltellaccio dalla lama spessa e affilata. Sangue purpureo inizia a sgorgare a fiotti; l’animale sembra ancora in sé, continua a ruminare come nulla fosse. Dopo un po’ le zampe cominciano a cedere. Cade a terra in una pozza di sangue vivido. L’agonia dura pochi minuti, finalmente si accascia e rimane lì supino tra il fango, mota e sangue mentre il pubblico osserva eccitato. Alcuni filmano, altri cominciano a dar segni di euforia, i bambini cominciano ad avvicinarsi e giocherellare sul ‘luogo del delitto’. Uno dà dei colpetti sulla carcassa dell’animale per sincerarsi che sia morto.

Finito lo spettacolo sanguinario, ha inizio un’altra processione. Altri ospiti fanno il loro ingresso nello spiazzo dalla cima della piccola salitella (dalla quale eravamo arrivate anche noi) e, disposti in fila a coppie, compiono un giro completo dell’arena, per poi entrare in una casa che si trova sul lato opposto di quella del defunto. In testa al corteo vi è un uomo coperto da un drappo rosso che impugna una lancia con uno strano frutto infilzato sulla cima. Poi vengono i suonatori: due flautisti con i loro suling di bambù e una voce femminile che intona melodie monodiche in scala semi-diatonica. Dietro di loro donne e bambine con lunghi abiti tradizionali di cotone nero ricoperti di perline colorate, per lo più giallo, verde e arancio, pendenti dal copricapo e dalle spalle, talvolta anche sui fianchi. In coda ospiti e gente comune accodatasi.

Finito il giro, un altro corteo esegue la terza processione, in senso opposto. In testa vi è sempre l’uomo con la lancia, seguito da donne con ceste di cibo e bollitori di tè. Chiudono la fila gli uomini cantori (gli stessi che avevano danzato la mattina).

Nel mentre, alcuni uomini sono intenti ad affettare il bufalo accuratamente, crogiolandosi in un bagno di sangue fresco, intestini ed escrementi, posizionando poi i pezzi tagliati e selezionati su una stuoia di bambù, che poi altri uomini vengono a prendere per gettare nella brace. Inutile aggiungere che anche per questi ultimi è un continuo zampettare allegramente in fango, sangue, escrezioni e interiora. Ancor più inutile dire che non è contemplata nessuna forma di pulizia delle parti selezionate per il pasto.

I NAS farebbero festa.

Dopo questa sagra dell’igiene, pensiamo sia tutto finito, invece no, il peggio è appena iniziato.

Parte il toto-maiale.

Una voce dall’altoparlante comincia ad annunciare la lunga serie di ‘offerte funebri’ in forma suina e grugnente che ogni ospite ha portato per i membri della famiglia. Ad ogni maiale annunciato, entra in gioco l’’esperto’, che valuta il pregio dell’animale e gli scrive sul dorso nome del donatore e del beneficiario, prima che la bestia sia scortata sul retro dell’arena, al reparto macelleria e barbecue. La guida ci spiega che lo stesso avviene ai matrimoni. La lista di nozze direttamente in macelleria.

Dopo l’estenuante parata di Miss Braciola 2014, cominciano a sbaraccare i vari gazebo e baldacchini. Alcuni uomini si inerpicano a smontare i festoni: lunghi tubi di bambù adornati con piume colorate fissate con spago. Altri uomini terminano indisturbati il lavoro di macelleria, tagliuzzando forsennatamente la mole immonda di carne bovina e suina, mentre uno zoccolo o una parte non bene identificata volano qua e là nel mucchio degli scarti. È abbastanza raccapricciante.

Qualcuno ha il buon cuore di costruire una scala di bambù (un’altra) per recuperare la povera vedova dalla piccionaia.

Alle 16.00 passate siamo pronte per andare, abbiamo visto, sentito, odorato e gustato abbastanza.

Ma la guida non è della stessa idea. Pensa sia assolutamente necessario che noi lo seguiamo nel backstage della macelleria a cielo aperto. Quando si dice che non c’è mai fine al peggio.

Dietro il semicerchio di case che circonda l’arena, un grande prato si affaccia su un paesaggio meraviglioso. Quello che avviene al di sopra lo è un po’ meno: una mattanza di maiali accoppati che gli uomini sono intenti a squartare, pulire alla bell’e meglio con dei coltellacci luridi e cuocere con fiamme ossidriche. Visto che ormai non possiamo comunque migliorare la situazione, la peggioriamo. Comincia lo slalom tra il massacro. Passo filo filo ad un tizio intento ad arrotolare un intestino. Quando la guida sembra finalmente soddisfatta, possiamo finalmente tornare alla macchina. E noi che avevamo paura che fosse troppo ‘turistico’.

Rinunciamo al tour dei megaliti, accontentandoci di vederli dal finestrino, per evitare di perdere il pullman. Dopo l’ultimo tour in macchina gentilmente offerto dall’autista, torniamo in albergo. Con nostro stupore e sconcerto, notiamo che sulla lavagnetta fuori l’ingresso, sotto nome e indirizzo dell’hotel, compare la scritta: ‘Ms Prancesca Muller’. Ci affrettiamo ad andare a chiedere indietro i soldi della notte che non possiamo passare qui per cause di forza maggiore. Parlano col ‘boss’, ma pare che non ci sia nulla da fare, visto che abbiamo pagato con la carta. Chiedo di parlarci di persona, anche in indonesiano se necessario. Vado quindi ad importunare il titolare nel suo ufficio. Ci vuole un po’, ma riesco a convincerlo. Vuole la copia del ticket del bus e dell’aereo e una dichiarazione valida da apporre sulla ricevuta e il nostro milioncino di rupie torna in tasca sano e salvo.

Tempo di una doccia e dell’impacchettamento bagagli, dobbiamo dire addio alla nostra reggia, ma soprattutto al sonno. Ci sediamo nella hall, attendendo la guida e l’amico che ci portino in motorino fino alla stazione dei pullman, ascoltando musica kecapi suling sundanese dagli altoparlanti – perché negli alberghi e nella Spa dell’intera Indonesia c’è sempre e solo musica sundanese? – e osservando i magnifici dipinti con vedute di Tana Toraja che tappezzano le pareti.

Il pullman è già lì, contorniato da fiumi di gente che attende seduta un po’ ovunque, tra il viavai del mercato. Fra va a procacciare della frutta mentre io mi intrattengo con una signora conosciuta a caso che pretende di parlare inglese. Dato che ci sto gli chiedo informazioni sul percorso:

“Have you ever done this trip before?”

“Yes”

“How is it?”

“Oh, so bad… you will enjoy”.

Ci avrà preso per due masochiste.

Alla luce dei fatti, come darle torto.

Maiali in corsa
I “doni” esposti nell’arena
Il trasporto della bara
La vedova
Donne di Toraja
La processione
Le donne della processione
Prossima lista di nozze
I suonatori
Il capo processione
Before…
…after
I festoni
Ciò che resta delle offerte
Maiale alla fiamma ossidrica