«[…] Entrarono
insieme nella città in rovina, camminando su un mosaico di lastre incrinate che
formavano un arazzo marmoreo di creature marziane, animali estinti da tempo che
apparivano e scomparivano ogni volta che un alito di vento sollevava la
polvere.
«Aspetta» mormorò Beck. Si portò le mani alla bocca e lanciò un grido: «Ehi.
Voi!».
«… voi!» rispose un’eco, e altre torri crollarono. Fontane e pilastri di
pietra si ripiegarono su sé stessi. Era sempre così in quelle città. A volte
edifici splendidi come sinfonie cadevano al suono di una parola. Era come
vedere una cantata di Bach disintegrarsi davanti ai propri occhi».
(R. Bradbury, La bottiglia azzurra)
1° gennaio 2014
Rantepao, Tanah Toraja (Sulawesi)
Stanza
Ore 9.20
La sveglia suona alle 8.00, dopo una delle notti più riposanti delle nostre vite.
Apriamo gli occhi sullo splendore della nostra stanza, pulite e ristorate.
Buon anno nuovo.
Stavolta davvero.
Scendiamo per la colazione, ma è tutto deserto. Ci sediamo ad un tavolino aspettando che arrivi qualcuno, beandoci della vista sulla piscina.
Poco dopo, un’orda di ragazzini locali ci assale con strette di mano, auguri di buon anno e domande a raffica in inglese. Ma tutto ruota sempre attorno a due quesiti: “What’s your name?” – “How are you?”.
Dopo la quarta ripetizione del mio nome, si fa vivo il tizio della hall.
Ordiniamo le colazioni e, nell’attesa, ripetiamo qualche altra volta il nostro nome, tanto per non perdere l’allenamento.
Congediamo quindi i pargoli con un educato giro di strette di mano.
Le colazioni sono fantastiche. C’è frutta meravigliosa, papaya, ananas e frutto della passione. Il caffè non è ultra dolce e le marmellate per i toast non sono un esperimento del CERN. C’è anche un delizioso uovo strapazzato e due brioches.
La prima colazione decente da quando siamo in viaggio.
Mentre siamo in procinto di spazzolare le ultime briciole, la guida richiesta alla reception la sera prima ci raggiunge al tavolo.
Dopo lunghe contrattazioni su pezzi di fogliacci strappati e una cartina, abbiamo il nostro accordo. Un milione di rupie a testa per due giorni di scarrozzamenti in lungo e in largo per la regione di Tanah Toraja, eventuali costi per entrare nei siti turistici e macchina inclusi.
Usciamo sentendoci due broker.
Recuperiamo subito gli zaini e montiamo in macchina.
Prima tappa: Londe e le sue famose ‘hanging graves’, tombe appese o meglio incastonate in una parete di roccia. Delle finestrelle in bambù costellano l’enorme masso che cade a strapiombo su una verde vallata e statue di defunti vestiti secondo l’usanza sporgono dai balconcini in pietra. Appartengono a famiglie di medio-alto rango, quelle che possono permettersi di sacrificare dai 12 ai 24 bufali d’acqua.
Sulla via del ritorno incappiamo in venditori di strumenti. Fra viene ipnotizzata da un lamellofono con cassa armonica in noce di cocco. Io perdo la testa per un suling (flauto in bambù). Dopo la dimostrazione di un vecchietto locale decido: lo voglio. Ma voglio proprio il suo, quello appena suonato.
Lo collaudo subito in macchina, per la gioia di Fra e dell’autista.
Fuori dal finestrino si scorgono innumerevoli agglomerati delle tipiche case dal tetto a barca dipinte in vari colori dal giallo al rosso all’arancio e decorate con motivi tradizionali come le corna del bufalo o i due galli che si fronteggiano. Per il resto è folta vegetazione e scorci di montagne e campi di riso. Galli e bufali sono lasciati liberi di girare ovunque tra il fango delle risaie e le strade polverose.
La seconda tappa prevede una visita alle tombe dei bambini.
Nel mezzo di una foresta, un enorme albero si staglia stanco e fiero, circondato da una staccionata in bambù. Finestrelle di bambù intrecciato lo tappezzano su un lato, per tutta la sua altezza. Lì risiedono le anime degli infanti del villaggio, in procinto di abbandonare il mondo terrestre per entrare (previo sacrificio di bufali, che è l’attività più quotata) nella sala d’attesa del paradiso terrestre. Sembra un iter abbastanza lungo.
Presto orecchio ad una guida indonesiana che è arrivata con un gruppo di persone. Secondo le credenze, le anime dei bambini sono legate alla terra tramite l’albero e da esse dipendono le condizioni dei raccolti. Se l’albero muore, anch’esse cessano di vivere. Questi piccoli tumuli sembrano essere anche un potente strumento magico: se una donna vuole rimanere incinta deve recarsi per tre notti consecutive presso questo sito. Una volta tornata a casa dopo la terza volta una nuova vita comincerà a nascere dentro di lei. Sempre secondo la guida, proprio a causa di questo potere, le lingue dei poveri defunti sono ambite dagli stregoni locali per i loro riti ed è per questo che spesso trafugano i corpi.
Prima di scavare ulteriormente nel macabro, ci spostiamo presso un altro villaggio.
Quattro o cinque costruzioni col tetto a barca sorgono nel mezzo di una radura tra gli alberi. La più grande è la Casa Comune, utilizzata da più generazioni della grande famiglia del villaggio per varie cerimonie, soprattutto funerali. Le salme vengono disposte verso sud-est come simbolo della vita che continua dopo la morte. Una camera è per gli adulti, l’altra è per i bambini. Nella sala centrale c’è l’allocamento dove il morto imbalsamato verrà esposto, per un tempo che varia dalle due settimane a diversi anni, in attesa che la famiglia sia pronta per procedere alla funzione. Che comunque ruota sempre attorno ai bufali. Nel frattempo, il morto è trattato come un malato che non è definitivamente morto. Gli si lascia persino del cibo ogni giorno.
Le cerimonie sono eseguite per lo più durante i periodi estivi e le ricorrenze cristiane, di modo che i parenti da ogni parte dell’Indonesia possano prendervi parte.
Rimontiamo in macchina con tante nozioni circa la cultura locale, sempre più affascinate da questo posto. Ci dirigiamo verso il prossimo sito mentre suono il mio flauto indisturbata.
Ci fermiamo dopo un po’ in un altro villaggio di case-barca e iniziamo a camminare lungo un sentiero nel folto della natura. Dopo diversi pit-stop ad altri insediamenti di case-barca tra i sorrisi dei locali e polli indisciplinati, arriviamo alle tombe sospese dei reali e soprattutto alla caverna degli orrori. Bare a forma di barca in pietra sono appese sul soffitto, assieme a qualche statuetta e ossa. Ossa ovunque. Crani, femori e tante altre parti dello scheletro umano sono accatastate qua e là, come nei peggiori film d’avventura.
Entriamo con una certa riluttanza, attraversando a falcate il ponticello di pietra traballante su un ruscello (“Don’t push yourself”).
Visto che non c’era bastato, ci spariamo la scarpinata finale per vedere il panorama.
Dopo dieci minuti di arrampicata su rocce fangose nel fitto della giungla, riscendiamo rischiando una ad una le poche vite ancora a disposizione su ogni masso scivoloso, e torniamo a rintanarci nella macchina (“Don’t push yourself”, il sequel).
Decido di comprare una bottiglia della mia nuova droga, il pocari swet (una bevanda isotonica) per tirarmi su dopo la faticata sotto al caldo torrido e gonfio di umidità pre-monsone.
Vado ad un chioschetto a chiedere quanto costa. Non lo sanno.
Alla fine, dopo minuti di sguardi dubbiosi, decidono che è cinquemila rupie, che comunque è uno dei più onesti.
La guida ci informa che è tempo di pausa pranzo. Sono le 15.30.
Giriamo invano per un tempo indefinibile. È tutto chiuso. Del resto, è il primo dell’anno, saranno tutti a casa con le famiglie a mangiare.
Tutti, tranne due cretine in giro per foreste, tombe e villaggi sperduti, con un flauto in mano.
Alla fine la guida approda ad un ristorante, contro le nostre accorate proteste. Se non è almeno a rischio tifo, non lo vogliamo. Alla fine ci mettiamo l’anima in pace e ordiniamo due soto ayam e degli spiedini di bufalo locale. Mentre aspettiamo, osserviamo la meravigliosa vista dalla terrazza: in lontananza, dopo metri di erba verde costellata da polli, si staglia il coloratissimo sito delle cerimonie funerarie (che si spera vedremo domani). Un lavandino sbuca dalla parete laterale del ristorante, affacciato sul vuoto, come il Viandante su mare di nebbia di Friedrich.
Finalmente arriva la zuppa.
Una. Figuriamoci se capiva.
Ordiniamo l’altra, sperando non ci porti tutt’altro.
Continuo a rimirare quel lavandino, ‘solo et pensoso’ e quasi mi viene una botta di sehnsucht.
Quando ormai sono in procinto di addentare il bufalo nel prato di fronte, arriva la mia zuppa con gli spiedini. Dire che è deludente è poco: pezzettini di patate, carote, fagiolini e petto di pollo perfettamente squadrati, fluttuano scialbi su un brodo limpido. Non c’è traccia di interiora, aglio fritto, pelle croccante, sugna, erbe e cose inclassificabili. Ci sentiamo frodate.
Gli spiedini in compenso sono buoni, anche se hanno un certo retrogusto di selvatico.
Il conto è da pazzi.
Prendiamo di petto la guida e diciamo che pretendiamo un warung il giorno successivo.
Nonostante la pioggia battente che ha cominciato a venir giù, continuiamo l’ultima parte di tour: un villaggio di antiche case-barca in bambù con tetti ricoperti di vegetazione. È uno spettacolo. Avevo sognato di venire qui sin dalla prima immagine apparsa su Google cercando Tana Toraja.
La guida ci spiega il significato del tetto a barca: gli antenati che giunsero a Sulawesi dall’ Indocina approdarono con delle barche che poi trasformarono in abitazioni. La tradizione si è poi perpetrata, anche se oggi le costruiscono più ‘moderne’, col tetto in lamiera anziché in bambù.
Ci facciamo trascinare nell’ennesima scalata. Sotto la pioggia per giunta.
Poi è tempo di rincasare. Chiediamo all’autista di portarci al centro di Rantepao. Visto che è ancora pomeriggio vorremmo approfittarne per una visita alla città. Sembra perplesso. Capiamo perché. A parte pochi banchi di souvenir e un mercato alimentare su cui non vorrei soffermarmi, la città non offre niente di niente. Chiediamo come possiamo tornare all’albergo, che è 4 Km fuori città. Ci viene suggerito: “Motorbike”. Chiediamo come, dove. È presto detto. Il dito indice della guida punta una specie di becak a motore fuori dal finestrino. Cioè, un motorino brutalmente troncato ed attaccato con fili volanti e meccaniche a vista ad una carrozzella a tre ruote, dotata di plastica parapioggia e pedana per i piedi. Quando sei convinto di aver provato i mezzi più assurdi, ce n’è sempre uno più improbabile che ti attende.
Poi però la guida ci ripensa. In una botta di ospitalità all’indonesiana, ci invita ad un ‘party’ a casa sua con parenti e amici. Accettiamo senza pensarci due volte. Figuriamoci se ce ne perdiamo una. Ci ridiamo appuntamento un’ora dopo davanti allo stesso punto (un ticket-office chiuso) e ci diamo all’esplorazione di questo gioiellino di mercato. Tempo di qualche vasca tra cimeli e paccottiglia, ci buttiamo tra gli orrori da ‘non’ gustare (mai e poi mai), tra i quali spiccano: varietà di pesce essiccato dall’odore mefitico, biscotti al durian che si uniscono alla sinfonia olfattiva, dolcetti a forma di feci (la specialità locale) e vegetali infangati a bordo strada.
Ci ripresentiamo quindi al luogo dell’appuntamento, dove la guida ci aspetta sorridente in sella al suo motorino. Uno. Tremiamo all’idea di una corsa a tre.
Invece no, ci carica una per una. Vado io per prima.
“Come back in fifteen minutes” dice a Fra partendo per l’ignoto. Dopo pochi minuti e dopo un’inerpicata su una salita montana all’80% di ripidità, poco fuori dal centro cittadino, mi scarica e mi dice di attendere. Lo guardo scendere per la stradina scivolosa, mentre rimango imbambolata come uno stoccafisso nella mia incerata da pioggia con le buste di souvenir in mano e il flauto che spunta tipo lancia Mahori da dietro le mie spalle.
Sull’altro lato della stradina, dei ragazzi locali seduti su sedili di plastica sotto un capanno, mi fanno cenno di avvicinarmi. Vado a sedermi tra loro. Tra una domanda e l’altra mi offrono un bicchiere di birra Bintang. Ne hanno casse intere nell’interno del capanno. Rifiuto cortesemente, augurandomi dal profondo del mio cuore che non sia questo il “party” in questione. Rimango altri interminabili minuti ad attendere Fra, osservando la pioggia battente sui colli di Sulawesi. Un enorme bufalo pascola beato a lato di una via, legato ad un cappio.
Finalmente, vedo arrivare il motorino con i due, e lo vedo tirar dritto su per un’altra salita ancor peggio della prima. È quasi rock climbing, in motorino.
Non capisco. Poco dopo il tizio scende a piedi e mi dice di seguirlo. Non so se sentirmi più salva o risentita. Ad ogni modo, mi inerpico sotto la pioggia, buttando un occhio qua e là. Avverto un allevamento di maiali nelle vicinanze. Seguendo l’inconfondibile fetore nonché il fracasso dei grugniti, me lo ritrovo alla mia destra. Una signora gli dà da mangiare immersa nel fango. Tiro dritto. A differenza di Giava, dove sono per il 90% musulmani, qui il maiale è il piatto forte, dato che sono in maggioranza cristiani.
Arrivo in cima ansimante e seguo la guida fino all’ingresso del suo salotto. Mi levo le scarpe e trovo Fra comodamente seduta sul divano. Mi accomodo a mia volta. Ci arrivano subito due tazze di caffè caldo e un piatto con una specie di pan di spagna. Mentre facciamo merenda, ragazzini di ogni età cominciano a fare capolino da dietro stipiti e tendine. Sono tutti figli suoi. La più piccola comincia un gioco divertentissimo: pesca “succhi d’acqua” da un cartone e li distribuisce in giro, ma soprattutto a noi. Nel giro di pochi minuti ci ritroviamo tanti bicchieri d’acqua sigillati da poterci costruire un albero di natale (modello Kuta Beach). Quando evidentemente anche lei si rende conto della situazione, decide di recuperarli e “lanciarli” dentro.
Nel frattempo, anche gli altri prendono coraggio e decidono di avvicinarsi per presentazioni, strette di mano e foto.
Dopo un po’ arrivano altre persone, di ogni sesso ed età. Sono tantissimi.
Partono i ritratti di famiglia, con noi al centro, altre persone sedute attorno a noi sul divano e per terra e l’albero di Natale di lato. Manca solo la Tombola.
Dopo aver rotto il ghiaccio, cominciano a prendere iniziativa e a porgere domande di ogni tipo, con la nostra guida che fa da intermediaria. Quando capiscono che parlo indonesiano è la fine. Scatta il talk show. Quando non ce la faccio più a ripetere le stesse informazioni che ripeto ogni volta a persone diverse, finalmente la guida ci crea un diversivo. Si cena.
Seguiamo il nostro amico nel retro della casa, dove c’è la cucina con la tavola imbandita: riso bianco, pollo e spezzatino di maiale con verdura speziata, una prelibatezza locale che non avevo mai provato prima. È tutto più che squisito, alla faccia dell’esoso ristorante. Ci accomodiamo su una piccola panca in legno, osservando una donna che sgozza un pollo nel magazzino adiacente. Poi una ragazza che parla inglese viene a farci compagnia, mostrandoci foto di cerimonie, strumenti e immagini della sua casa galleggiante a Kalimantan (in Borneo). Tra una cosa e l’altra, ci scambiamo i contatti e ricevo un invito nel Borneo. Sapevo che sarebbe successo, prima o poi.
Finito l’allegro convivio, recuperiamo i bagagli e ci facciamo accompagnare all’hotel in motorino dalla guida e da un ragazzo della famiglia.
Confortate da un tè allo zenzero nel salone deserto, pianifichiamo tecniche di sonno nel viaggio di ritorno e andiamo a goderci l’ultima notte nei nostri confortevoli letti.