Don’t push yourself

Capitolo 9 – “I help ya sista!”

«Ieri s’è messa in marcia la profetica

Tribù dalle pupille ardenti, i bimbi

Portando sopra il dorso o prodigando

Ai loro fieri appetiti il tesoro

Delle flosce mammelle, sempre pronte.

Sotto armi lucenti vanni gli uomini,

a piedi, fiancheggiando i carrozzoni

ove accucciati stanno i loro cari,

volgendo in giro per il cielo gli occhi

appesantiti dal cupo rimpianto

delle assenti chimere. Dal profondo

della tana sabbiosa, nel vederli

passare lentamente, il grullo aumenta

il suo canto; e Cibele, che li ama,

più rigogliose fra le piante, l’acqua

fa sprizzar dalla roccia ed il deserto

fiorire avanti a questi viaggiatori

pei quali si dischiude familiare

l’impero delle tenebre future».

 (C. Baudelaire, Le Fleur du Mal, Bohémiens  en voyage)

31 dicembre 2013

Isola di Sulawesi

Aeroporto di Ujung Pandang, Makassar

Ferme ad aspettare che il bus per il terminal Daya si degni di partire “tra un quarto d’ora” (a detta del bigliettaio, mezz’ora fa)

Ore 13.30

Il volo è tanto breve quanto tremendo.
È tutto un unico vuoto d’aria tra il decollo e l’atterraggio.

La signora a fianco a me non si scompone minimamente e continua a mangiare nasi goreng (riso fritto) con uova e sambal (salsa piccante).

Tra una perdita di quota e una zaffata di spezie fritte, mi riavvicino pericolosamente ad uno stato di instabilità intestinale. Una delle nuvole fuori dal finestrino sembra prendere la forma del dolce volto dell’infermiera e quasi mi sembra di udirla parlare: “Don’t push yourself”.

Contro ogni aspettativa, atterriamo.

Recuperiamo i bagagli e combattiamo contro i tassisti abusivi che partono all’attacco come hooligans. Ci dirigiamo al banco dei trasporti pubblici DAMRI per acquistare i biglietti.

Me: “When is the bus leaving?”.

Silenzio.

Sempre me: “Kapan…?” (“Quando…?”).

Impiegato: “There”.

Dopo altri due o tre disguidi spazio-temporali riusciamo a montare a bordo senza dover chiamare un linguista.

Chiedo tra quanto si parte. Il conducente scrive sul palmo della sua mano “15 menit” (15 minuti) e me lo mostra.

Quaranta minuti dopo, siamo qui in fervente attesa che questi quindici minuti giungano al termine.

Poco dopo

Macinino di minibus, stipate tra donne cariche di figli, bustoni di frutta e un tizio che fuma come una ciminiera

Tempo una ventina di minuti di tragitto (che aggiunti ai 40 di attesa fanno un’ora tonda tonda), il bus della DAMRI accosta al lato di una stradina fangosa lungo la quale si dipana un immenso mercato locale. Il conducente esclama a gran voce: “Terminal Daya”.

Ci ridestiamo all’assopimento e ci guardiamo attorno confuse.

Non è possibile, non c’è traccia di terminal, solo fango, baracche e variopinti banchi di cibi locali.

Sollecitate poco cortesemente dall’autista, ci affrettiamo a scendere e ci ritroviamo sole con noi stesse, in mezzo a ceste di frutta e verdura e gabbie di polli vivi e starnazzanti a chiederci dove siamo, chi siamo, cosa vogliamo e che senso ha la vita.

Poi la nostra attenzione viene attirata da un gruppo di furgoncini azzurri dall’aspetto abbastanza rudimentale, unica sorta di mezzo di trasporto pubblico che spicca tra cataste di motorini e bancarelle. Un giovane indonesiano si avvicina e ci fa cenno di seguirlo con una certa determinazione di chi sembra avere il perfetto controllo della situazione. Non sapendo che altro dire, andiamo dritte al sodo: “Rantepao”. Che avrebbe dovuto suonare come un: “Stiamo cercando il terminal Daya per salire su un pullman che ci porti a Rantepao, Tana Torajah, circa a 400 Km da qui”.

Lui è ancor più succinto: “Ya” (“Si”). Non vorrà mica arrivare dall’altra parte dell’isola con quell’affare?

Ma ancor prima di formulare il pensiero, ci ritroviamo sedute su due tavole di legno rivestite in pelle lisa e unta, in un claustrofobico cubicolo in lamiera tra donne, bambini, frutta a volontà e bagagli di ogni natura.

Vorrei chiedere informazioni. Mi sporgo verso l’abitacolo del guidatore e quasi la pressione mi torna ai 40 bpm. Circondato da un groviglio di congegni meccanici dal dubbio utilizzo e grovigli di cavi elettrici pericolosamente volanti, si intravede il conducente, mani poggiate su un volante in legno e ferro arrugginito. Mentre l’unico tergicristallo rimasto integro scricchiola faticosamente da un’estremità all’altra del vetro anteriore e lo sportellino di lamiera è tenuto aperto da uno zoccolo in legno posizionatovi dietro, zaffate di aria fredda e acqua piovana si introducono nell’unico spazio vitale rimasto. Accartocciate nel nostro cantuccio, cominciamo a cercare una prospettiva di approccio all’idea di passare otto ore così.

Prossima fermata: Terminal Daya
Il “Terminal Daya” secondo l’autista
Tutti a bordo
“Don’t push yourself”

Ancora dopo

Altro catorcio

Dopo pochi chilometri il conducente accosta e ci invita a scendere e risalire su un trabiccolo affine, parcheggiato al lato della strada. Ma forse questo è anche peggio. Il guidatore, un ragazzo ‘irrequieto’, fortemente ispirato dal pop indonesiano a tutto volume che prorompe da due rudimentali casse collegate direttamente al suo cellulare, sfreccia tra il traffico congestionato a suon di svincolamenti clandestini e suonate di clacson selvagge.

Ultime parole di Fra: “Guarda che traffico, ora si calmerà, non vorrà mica superare tutti contromano?”. Altro insegnamento prezioso appreso durante questo soggiorno: mai sottovalutare il limite di irragionevolezza delle libere iniziative dei locali, soprattutto se con un volante in mano.

Nel dubbio, continuiamo a ripetere: “Rantepao”, tra una hit dangdut e una svolta mortale, tanto per sincerarci che abbiano capito. Continuano ad assentire senza alcuna ombra di dubbio.  

Sempre più comodi

Mi metto ‘comoda’ togliendomi le scarpe (ho i calzini che fanno pendant col blu della lamiera) e mi cimento a scattare foto dal finestrino agevolmente apribile tramite due fori per le dita praticati all’interno (non voglio sapere da chi e come).

Ancora e ancora dopo

Taxi

Dopo quaranta minuti di ulteriori sballottamenti, incluso un tour a passo d’uomo nel folto del mercato di Makassar (ad un certo punto non capivo più se eravamo dentro o per strada, eravamo tutt’uno con la folla) ci dicono di scendere per l’ennesima volta.

Ripetiamo: “Rantepao”.

L’autista comincia forse ad ascoltarci davvero per la prima volta e afferma, come se fosse già scontato, che non può arrivarci.

Levato il malcelato sollievo e il ritrovato senso di logica nell’universo, gli chiedo per quale insano motivo ci hanno portato a spasso per tutta la città. Non mi aspetto che capisca l’inglese, dunque gli parlo direttamente in indonesiano.

Non capisce neanche quello. Solo dialetto locale.

Cerco di fare del mio meglio per chiedergli come arrivare a Rantepao, quella vera.

Non ne ha idea.

Nel frattempo, un circolo di persone si sono affollate intorno a noi e al minibus, incuriosite dal teatrino. Si crea una situazione di stallo.

Siamo inchiodate al centro del mercato di Makassar, dopo aver perso un’altra preziosa ora a dare retta ad autisti improvvisati e corse clandestine, senza la minima idea di dove andare e nessuno che parli una delle lingue presenti su Google Traduttore. Tra l’altro, il conducente non ci pensa proprio ad andarsene senza aver prima riscosso le 20.000 rupie che gli dobbiamo per la corsa.

Il tour del mercato
Il banco dei dolci

Poi la situazione si sblocca momentaneamente. La signora con la bimba che era seduta vicino a noi fa capolino da dietro lo sportellino del minibus esclamando: “Taxi”. Fino a Rantepao? Quasi saremmo tentate. Mi domando il costo. Centocinquantamila rupie, secondo la signora. Mi pare un po’ improbabile. Chiedo quando impiegherebbe. Un giorno. Non credo che la signora abbia il totale controllo sulle sue affermazioni. D’altronde, non sembra che abbiamo molta altra scelta.

Dunque, paghiamo di malavoglia le 20.000 rupie al conducente del minibus e abbordiamo un taxi. Ripetiamo scandendo ogni singolo fonema: “Rantepao”. Il tassista finalmente mostra segni di conoscenza della geografia locale: “Tana Toraja?”. Esattamente. Chiedo quanto pensa che ci vorrà. Quattro ore. Va bene che la signora mi pareva un po’ esagerata, ma quattro ore mi pare un po’ poco, anche perché sulla guida era stimato un tragitto di otto ore con il pullman.

Non so più chi ha ragione.

Ancora, ancora e ancora dopo

Ore 16.00

Finalmente al Terminal Daya

Nessuno. Non ha ragione nessuno.

Sono tutti pazzi.

Mentre ripercorriamo la stessa strada a ritroso verso l’aeroporto, richiediamo per l’ennesima volta, con tutta la precisione possibile, se stiamo davvero andando a Rantepao. “Bis”. Il responso oracolare. Che in indonesiano sarebbe ‘autobus’ o ‘pullman’. In che senso? Ci dice che ci sta portando al terminal a prendere il bus, che è esattamente quello che avremmo dovuto fare tre ore fa, se tutta la sfilata del paese delle meraviglie non ce lo avesse impedito.

Finalmente il taxi ci lascia al Terminal Daya, dicendoci che il bus partirà alle sette (ci torneremo). Entriamo in un parcheggio desolato dove ci sono diversi pullman parcheggiati qua e là, senza indicazioni di sorta. Diversi uomini ci assalgono blaterando cose. È il caos. Comincio a dire “Rantepao” alzando le mani come fossi un prete che combatte un esorcismo. Quando sembrano calmarsi un minimo, chiedo molto lentamente e chiaramente: “Ada bis untuk Rantepao?” (“C’è un bus per Rantepao?”). Si, mi risponde uno degli uomini. Ce n’è uno che parte alle otto di sera. Mi manda a fare il biglietto al ‘botteghino’ dietro l’angolo.

Un cubicolo deserto dimenticato da Dio.

‘Disturbo’ un uomo in uniforme che sonnecchia su una cattedra per chiedergli dove posso fare il biglietto. Mi risponde anche un po’ infastidito: “Tidak ada”. Non c’è. Non ci sono bus per Rantepao, secondo lui.

Ci risiamo.

Riusciamo nel piazzale del parcheggio e diamo inizio ad una delle migliori pièce di teatro dell’assurdo mai viste. Gente da ogni lato che ci chiama e ci confonde le idee con una serie di orari, affermazioni, smentite e parole a caso. “Bus. No bus. Yes, bus. Rantepao. Ticket. No. No bus”.

Poi arriva lei, la guest star della serata. Una ragazza in t-shirt e berretto di lana, che esordisce come fossimo in un video di Missy Elliott & Lil’Kim: “I help ya’ sista’”.

Vorremmo iscriverci ad uno di quei gruppi di recupero per accumulatori compulsivi.
Noi accumuliamo non-sense.

Dato che per lo meno è l’unica ad avere il dato linguistico a suo favore (diciamo così) le diamo fiducia. Ci dice che c’è una macchina da sette posti in partenza per Rantepao, per 250.000 rupie a testa. È la prima cosa sensata che ho udito in tutta la giornata. Pare manchino solo due persone per essere al completo e poter partire. Ci gettiamo tra le sue braccia nella più totale commozione e riconoscenza.

Ci avviamo quindi con lei verso il vero botteghino, rivolgendo occhiate bieche al tizio che continua a dire: “Bus. No bus” sghignazzando.

Rantepao – Tana Toraja

(non avrei mai creduto di poterlo scrivere davvero)

Hotel extra lusso

(passiamo dalle stalle alle stelle con una facilità incredibile)

Qualcosa come le tre di notte

Ancora non ci credo.

Siamo finalmente in una camera più che dignitosa, con due comodissimi letti dalle lenzuola candide, materassi morbidi, una confortevole trapunta e spalliere in legno intarsiato. Abbiamo anche tavolini, specchi, poltrone in stoffa batik, TV, lampade, aria condizionata, ampio guardaroba e terrazzino con salottino in bambù vista foresta. C’è anche un bagno, uno vero, con tutti i servizi occidentali lindi, puliti e al loro posto, acqua a temperatura regolabile, asciugamani puliti, ampia toletta con prodotti cosmetici offerti dall’albergo e persino un rotolo di carta igienica dove dovrebbe essere la carta igienica (e non sui tavoli dei ristoranti, ad esempio). Ah e pareti. Tante, solide e chiuse. No spifferi, no intercapedini, no infiltrazioni, no animali, no ruggine. Posso decidere quale spot luminoso del soffitto accendere con un semplice click dal mio comodino. Delle ciabattine in bambù sono poggiate ai piedi del letto. Quasi non mi ricordo più come si usano tutti questi “comfort” (a partire dall’acqua regolabile e dalle pareti). Ma ce lo siamo decisamente meritato.

Vediamo subito perché.

Il viaggio in macchina comincia bene, procede male e finisce malissimo.

La prima oretta passa nel traffico di Makassar, a ritroso per la stessa strada, per la terza volta.

Dopo la seconda ora, le nostre articolazioni cominciano ad accusare la costrizione indotta dal minimo spazio in cui siamo confinate: la terza fila di sedili incastonata tra lunotto posteriore e portabagagli. Nella fila di mezzo tre indonesiani, uno di quali soffre il mal d’auto. Rimette subito subito dal finestrino. La prima volta. Per le altre quindici o sedici utilizzerà una pratica busta.
In pole position, una ragazza locale e l’autista.

Dopo un’altra oretta, la mia vescica dà segni d’impazienza e comincio ad escogitare metodi alternativi, celata dall’angustia dei sedili, usufruendo dello sponsor ufficiale della comitiva: la busta. Per fortuna siamo vicini alla prima sosta: una rumah makan (taverna) sullo sfondo di una parete rocciosa tra lavori in corso su un canale e il nulla.

Ogni volta arriviamo incredibilmente vicino alla fine del mondo senza rendercene conto.

Usufruiamo del solito bagno con catino (a volte ritornano) e ci sediamo al tavolo con gli altri, con poco appetito. Quando vediamo arrivare enormi pesci alla brace con riso e verdure in salse di noccioline ci viene l’acquolina in bocca. Alla fine ordiniamo pure noi. Ho bisogno di cibo vero, è tutto il giorno che vado avanti a crackers e banane.

Smetto di chiedermi dove sono le posate e mi ricordo che siamo a Sulawesi. Mani.

Quando anche il tipo col mal d’auto ha finito di rimpinzarsi per bene (dovesse mancargli il passatempo poi) rimontiamo in macchina.

Passiamo altre diverse ore a contorcerci, chiederci dove siamo finite e fare il conto delle ore che ci separano dalla notte di capodanno, auspicandoci di passarlo coi piedi per terra. Il tizio continua l’assolo di vomito, indisturbato.

Alla seconda sosta ci fermiamo ad uno slargo con dei vari chioschetti che vendono snack e un bagno peggiore del primo.

Alla terza sosta pensiamo che potrebbe anche cominciare ad accelerare l’andazzo dell’allegra scampagnata.

Dopo altre diverse ore di impazienza, una meta ancora lontana e chilometri di buio pesto fuori dai finestrini, la sorte della nostra notte di Capodanno appare evidente.

Quando finalmente intravediamo luci di un centro abitato cominciamo a ridestarci. Manca ancora un po’ di tempo, forse c’è ancora speranza.

Invece no, siamo ancora alla cittadina prima di Rantepao.

Trascorriamo i minuti a cavallo tra l’anno uscente e quello venturo con i piedi accavallati sul sedile davanti, gli Aqua nelle orecchie e i botti di Makale fuori dal finestrino.

Selamat tahun baru.

Fra: “Pensa che in Italia mancano ancora sette ore”.

Dopo undici ore di macchina e traumi irreversibili in ogni parte del corpo arriviamo alla benedetta Rantepao. Quasi c’è passata la voglia.

L’autista ci accompagna gentilmente a fare un giro di ricognizione di ostelli e hotel (anche perché in macchina siamo rimaste solo noi). Tutto pieno.

Alla fine troviamo questo, che è l’unica opzione rimasta, dato il prezzo.

Per un milione di rupie a notte (che cominciano ad essere soldi anche in euro) abbiamo diritto a tutto questo ben di Dio. Ma non riusciamo comunque a goderci il lusso in santa pace.

Sono le tre di notte, ancora non ho ripreso totalmente confidenza con l’uso delle lenzuola e Fra comincia già a fremere per il programma di domani (che poi è già oggi). Vuole assolutamente fare: “Un’escursione tra i selvaggi” (Muller: 2013, 1 in Mis-anthropology of Music).

And a happy new year.