La casa della sindhen

Capitolo 9 – Bahasa Indonesia

«“E non dimenticare, straniero, che il sole sorge dalla nostra parte, che l’Est è l’Est, l’Ovest è l’Ovest e che questo non lo si può cambiare. Voi occidentali lavorate molto con la vostra testa, ma spesso dimenticate il cuore… Noi, invece… Be’, lasciamo stare. Il sole sorge da noi e noi un giorno domineremo il mondo perché abbiamo tutto quello che ci vuole per farlo. Abbiamo terra, abbiamo gente, abbiamo risorse”. Poi aggiunse: “…anche se siamo fannulloni e stupidi”, e rise. “Straniero, guarda il sole e capirai…”».

(Tiziano Terzani, Un indovino mi disse)

2 ottobre 2013

Ore 15.58

Yogyakarta

Ogni mattina mi sveglio in uno stato di coma più avanzato. Credo di fare colazione con latte e cereali, ma scopro che la confezione acquistata con tanto zelo cela una specie di miscuglio di polvere e briciole di banana liofilizzata. Dunque, bevo latte chimico alla banana e mi avvio a lezione ancora abbastanza disgustata. Parto un’ora prima, nonostante ci vogliano dieci minuti. Voglio tenermi un po’ di tempo in più per le attività extracurricolari come: perdita d’orientamento recidiva, giro giro tondo, caccia all’informatore e poco altro.

Come avevo perfettamente previsto, arrivo, parcheggio e non so dove andare. Dona (l’addetta alle relazioni internazionali) mi aveva detto di recarmi al: “Crafts department”. Comincio a cercarlo con tutta me stessa. Sulle indicazioni non compare nulla che rechi termini simili a ‘crafts’. Provo a tradurre tutti i termini indonesiani che trovo sui cartelli dal cellulare, ma non trovo nulla di minimamente vicino a ‘craft’. Comincia il mio sport preferito: una serie di vasche a vuoto con pit-stop per informazioni inutili, gesticolazioni complesse senza scopo, and go, verso il nulla.

Alla fine comunque, ci arrivo. Che poi finisce sempre così, ormai neanche mi preoccupo più di tanto. Entro e finisco al secondo piano, non so come, e trovo dei ragazzi intenti ad armeggiare con dipinti e disegni. Ne acciacco uno per terra suscitando allarmismi, poi chiedo. Mi procuro così l’ennesimo migliore amico, un ragazzo indonesiano gentilissimo che mi accompagna davanti l’aula presunta e mi lascia ovviamente il suo numero per qualsiasi cosa, dicendomi che è disponibile: “25 ore su 24”.

Dopo aver atteso lì per dieci minuti ammirando i lavori degli artisti yogyanesi emergenti – una serie di disegni a tema marittimo con inserti inquietanti di insetti o parti di essi al posto di oggetti usuali, il tutto steso su tela o carta con una mano dal tocco Dalì -, comincio a dubitare e mando un messaggio a Dona.: “Hi, I think I found the crafts department, but… what is the room in which the lesson is going to take place?”. Dona: “I’m sorry the palace is changed to Rector’s building where you met me yesterday. The room is on the 3rd floor”.

Ci sarebbero tante cose da dire.

Quindi, mi scapicollo su per il terzo piano del Rettorato e arrivo in aula semi-deserta in cui le due insegnati, Wiwid e Retno, mi accolgono vomitando cose in indonesiano. Io comprendo qualcosina (le presentazioni le avevo già studiate sul mio manuale per fortuna) e rispondo in inglese. Mi danno un foglio con una conversazione base, da imparare e ripetere inserendo i miei dati personali. Ho tempo di tirar fuori tutti i quaderni e quadernini con il mio glorioso set di penne colorate e ricevere sguardi basiti dalle due, prima che i miei compagni di corso facciano il loro ingresso nell’aula. Vengono da ogni parte d’Europa: Estonia, Lituania, Germania, Polonia, Portogallo, Slovenia, e sono tutti Darmasiswa. Trova l’intrusa.

La prima lezione è semplice, sono cose che in fondo già so. La pronuncia non è difficile, è un po’ come quella italiana, si legge tutto come è scritto e gli accenti sono tutti sulla penultima sillaba. Nell’aula si muore di caldo, ci sono condizionatori e ventilatori ma sono spenti. È un vizio. Chiediamo cortesemente alle insegnanti se possono accendere quell’enorme ventilatore dietro la cattedra che ci fa tanto gola, ma loro sono titubanti. Poi si convincono e lo accendono. Il sollievo è immediato, ma capiamo subito il perché della loro reticenza: fa un rumore infernale e non si capisce nulla di quello che dicono. Sembra di essere nella stiva di un piroscafo.

Continuiamo la lezione nonostante tutto, finché Wiwid e Retno ci lasciano i loro numeri di telefono e ci danno appuntamento alla settimana prossima. Raggiungiamo momenti di lirismo quando scopro che ‘mi piace’, in indonesiano, si dice suka. Spendo un buon quarto d’ora a cercare di giustificare le mie risate tentando di spiegare la relativa traduzione in siciliano, senza scadere nel turpiloquio, invano. (Sempre per la rubrica ‘Italiani nel mondo, come riconoscerli’).

Finita la lezione mi defilo subito, oltre che per tentare di insabbiare la magra figura, perché sto morendo di fame. Passo prima per Prawirotaman per cambiare un po’ di euro e scopro che duecento euro equivalgono a quattro milioni in rupie, sembra che sia andata a svaligiare una banca. Vorrei anche cercare un posto buono per mangiare, che non sia troppo turistico. Capisco subito che non è aria, sono a Hollywood.

Riprendo la Paragtritis e mi fermo al primo che mi ispira. Scopro con piacere che c’ero giù stata con Claudia, è il Padang. Prendo quello che voglio e mi siedo beatamente, oggi i ventilatori sono persino accessi. Visto che si può fumare, ne approfitto per rimanere un po’ lì con le mie Djarum Super a sentire le canzoni pop indonesiane che arrivano a tutto volume dagli altoparlanti. Dopo un po’ decido che ne ho abbastanza e mi avvio verso casa.

Lungo la via, mi fermo ad un chioschetto che fa jus buah, succhi di frutta spremuta lì per lì. Ne prendo uno al gusto banana e papaya. Non è una combinazione particolarmente felice, ma il fatto che sia appena fatto basta a recare non poca soddisfazione. Il mio intento ora sarebbe di studiare un po’ d’indonesiano, ma soprattutto le dispense sul wayang, prima di andare a cena stasera col tizio della Javan Easy e gli altri Darmasiswa, ma come al solito sono assalita da un sonno e una fiacca atroci.

I magnifici lampadari dei pendopo (padiglioni) dell’ISI

Ore 23.00

Come volevasi dimostrare: muoio. Mi risveglio dopo qualche ora grazie al mio fidato amico: “Okkei, okkei, okkei…”, che attacca puntuale alle sei. È così puntuale che quasi non direi sia indonesiano. Mi alzo barcollando in trance, apro la porta del bagno e finalmente lo vedo: una specie di drago a macchie rosse lungo quanto il mio avambraccio. Non ho il tempo di rilasciare il respiro che subito si fionda dietro le canne di bambù. È timido, ma riuscirò a fargli qualche scatto, me lo deve in fondo, dopo tutte le notti insonni che mi fa trascorrere.

Ho ufficialmente un geco obeso a pois dai costumi poco discreti nel mio bagno. Non posso ancora crederci. Se sopravvive al tempo, alle compagnie aeree (ma soprattutto se sopravvive mia madre quando lo vede), me lo porto a casa. Faccio un caffè italiano con la moka per tirarmi su e ne offro un po’ al padrone di casa, Daniel, che lo apprezza più di quanto mi aspetti (solitamente dicono tutti che è troppo amaro). Tento di insegnargli qualche parola in italiano, fallisco miseramente e torno in camera.

Dopo aver studiato un po’ di indonesiano, il minimo sindacale, esco a cena con Asep (il tizio della Javan Easy, finalmente so il nome) e gli altri ragazzi Darmasiswa, in un ristorante vegetariano chiamato Milas, vicinissimo a casa. Ciò presupporrebbe che io ci arrivi in un lampo, e a colpo sicuro per giunta. Invece no.

Asep si era offerto gentilmente di venirmi a prendere, ma io volevo cavarmela da sola, in fondo ormai è più di una settimana che sono qua, sarebbe anche ora. Vedo l’indirizzo e lo digito sul navigatore. Dopo le solite scene pietose in giro per il quartiere, capisco che non si tratta di Jl. Prawirotaman n. 4, bensì di Jl. Prawirotaman IV – la quarta parallela di strade con lo stesso nome – solo grazie a un sito che lo scrive col numero romano.

Il posto è stupendo: una specie di giardino segreto zen, pieno di fontanelle, gazebo di bambù e vegetazione, e fa piatti indonesiani ma in versione ripulita, per stranieri, niente carne o pesce (per una sera sono scampata al pollo, non mi pare vero). Il prezzo è un po’ più alto del solito, ma comunque non supera i tre euro per una portata principale, bibita e dolce o frutta. Mangiamo nasi goreng (l’immancabile riso fritto), tempe (fagioli di soia pressati preparati con un determinato procedimento), delle foglie di spinaci fritte, tè e latte allo zenzero, vari succhi di frutta esotica e altre cose buonissime.

Faccio la conoscenza del marito indonesiano di una ragazza tedesca, l’ennesima Darmasiswa che dopo un anno qui ci è rimasta a vivere, si è sposata e ha fatto figli con un indonesiano. Comincio a pensare che farò la stessa fine. Gli parlo dell’intenzione di fare una specie di interrail tra Giava, Bali e forse qualche altra isola durante le vacanze di Natale e Capodanno con una mia amica. Lui, che è appassionato di hiking e adventure trails, mi consiglia posti bellissimi e incontaminati nei dintorni di Bali e del Bromo. Sapendo che non li ricorderò mai, gli chiedo di scambiarci i contatti, la promessa di stilarmi una lista dettagliata e il numero di un suo amico che a quanto pare è conoscitore esperto di wayang kulit e segue tutti gli spettacoli.

Racimolo informatori come niente. Altro che etnomusicologia, dovrei lavorare per i servizi segreti. Diciamo che qua è anche facile comunque, non vedono l’ora di esaudire le tue richieste, anche troppo forse. Dopo gare di cattiva reputazione con un colombiano – “Italians are famous for bad reputation” – “Don’t talk me about bad reputation, I come from Colombia” – paghiamo e andiamo via.

Asep mi dice di rimanere in contatto, vuole che mi inserisca nel gruppo Darmasiswa e vada con loro alle loro allegre serate. Ce ne sarà una a breve a Malioboro (la via principale di Yogya), la organizzeranno nei prossimi giorni. Lo ringrazio a morte per le sue premure e gli faccio fare l’ennesima risata: “Oh, do you listen to music along the way”?  –  Chiede, vedendomi mettere l’auricolare. Gli rispondo (mostrandogli la schermata di Nokia Beta Drive): “No, I listen to the instructions to come back home, without getting lost again”.

Torno a casa e il tokay mi fa smaltire la cena cogliendomi di sorpresa. Mentre mi lavo le mani sento da dietro le mie spalle un singhiozzo improvviso, amplificato dalle canne di bambù che fanno da cassa di risonanza e sobbalzo. Ora è diventato anche spiritoso.

Domani mattina ho l’appuntamento con il rappresentante del dipartimento di Pedalangan, spero di concludere qualcosa. Se rimanda ancora mi infilo nel dipartimento e comincio a suonare di testa mia con prepotenza. Non ne posso più di aspettare.