«Uno dopo l’altro, i vari paesi dell’Asia hanno finito per liberarsi del giogo coloniale e per mettere l’Occidente alla porta. Ma ora? L’Occidente rientra dalla finestra e conquista finalmente l’Asia non più impossessandosi dei suoi territori, bensì della sua anima. Lo fa ormai senza un piano, senza una precisa volontà politica, ma grazie a un processo di avvelenamento contro cui nessuno ha trovato per ora un antidoto: l’idea di modernità. Abbiamo convinto gli asiatici che solo a essere moderni si sopravvive e che l’unico modo di essere moderni è il nostro: il modo occidentale. Ci sono alternative? Nessuna».
(Tiziano Terzani, Un indovino mi disse)
31 dicembre 2013
Bali
Aeroporto di Denpasar
(Molto tempo dopo il post precedente)
Il tempo passa, ma la tabella degli orari rimane immutata.
Il nostro imbarco, previsto per le 10.30, non compare sullo schermo, tra la lista dei prossimi voli. L’altro schermo si limita a mostrare le previsioni meteo di Bali del mese scorso.
L’addetto del nostro Gate dorme sul banco Gate.
Non ho altro da fare che continuare la narrazione delle vicende che ci hanno condotte fin qui.
Eravamo rimaste alla drastica decisione di rimanere una notte a Kuta, come ultime passeggere di una macchina non prevista nel pacchetto da noi prenotato, che prevedeva invece una serena traversata verso il porto di Sanur.
Ovviamente, al grazioso ed economico hotel dei nostri compagni di viaggio francesi non c’è più posto (non che credevamo davvero di cavarcela così, ma non si lascia mai nulla di intentato).
Ripieghiamo su quello a fianco.
Entriamo in un grazioso giardino alla balinese e facendo lo slalom tra i bungalow, raggiungiamo la reception. Le opzioni per le camere sono molteplici, ma ruotano tutte attorno alla scelta fatale: ventilatore o aria condizionata.
Scartando a priori l’opzione della camera economica con la cara bacinella con colino del mandi (il bagno indonesiano tradizionale), optiamo per un’onesta camera standard. Per 137.000 rupie totali, abbiamo diritto a: letto vero, doccia ad acqua fredda, ventilatore forse non guasto e colazione.
Ci sembrano compromessi equi.
Firmate le carte, ci facciamo accompagnare alla nostra dimora. Neanche mettiamo piede sul sentiero d’ingresso che già capiamo tutto ciò che c’è da capire. Il solito tugurio.
Nella veranda, uno stendino color bordeaux (non è chiaro se per scelta di fabbrica o per ruggine) ci sorride beffardo. Ma non è niente in confronto all’interno. Nell’ambiente spoglio, due lettini accostati alle pareti fronteggiano l’unico elemento di mobilio presente: uno scrittoio. Non è molto chiaro a primo acchito in realtà. È un mobiletto basso altezza bimbo, con cassettini in legno (rigorosamente non apribili) e sediola taglia dai 10 anni in giù, in legno, foderata di velluto.
Rimaniamo a fissarcelo per un po’.
Il bagno ha una vasca, un lavandino e un porta-carta vuoto.
E sto.
Siamo estasiate.
Posiamo i bagagli senza troppe storie. Ficchiamo negli zainetti il necessario per una camminata in città ed usciamo nella giungla di cemento selvaggia di Kuta.
Poco dopo
Aereo per Makassar (aggiungerei “finalmente”)
Nel frattempo siamo riuscite a salire sull’aereo, solo un’ora e mezza dopo del previsto.
Facciamo passi avanti.
Il volo, non comparso affatto sullo schermo, è stato reso noto da un foglio cartaceo, attaccato dall’inserviente di volo sopra gli altri fogli (i voli precedenti) sul tabellone d’imbarco del Gate.
No avvisi vocali, no chiamata ai passeggeri. Solo tanto intuito.
Scaricate dalla navetta davanti al velivolo, scopriamo con piacere che è appena atterrato. Dunque, rimaniamo in fila a goderci lo spettacolo della gente che scende. Un servizio impeccabile.
Notiamo che hanno tutti facce felici. Speriamo non sia per la contentezza di essersene andati dall’isola di Sulawesi, dove siamo dirette.
Quindi, sgomitando tra la barbarie dei neo-sbarcati che pretendono di entrare nel pullmino con gli imbarcanti ancora dentro, riusciamo a prender posto sui sedili appena usati, non puliti. Non c’era tempo.
Ed eccoci qua, a goderci quest’ora e mezza gentilmente offerta da Air Asia. Se non altro, posso terminare il mio racconto balinese.
Eravamo rimasti sulla soglia del nuovo gioiellino di hotel.
Uscite dalla nuova alcova con sempre più abbattimento a carico, ci incamminiamo lungo la via costiera della città della perdizione. Alla faccia dei mega-ristoranti e resort, ci prendiamo una zuppa di bakso fumante (le solite polpette di farina glutinosa e scarti animali) ad un carretto ambulante e andiamo a mangiarlo. In spiaggia.
Ci sediamo sulla sabbia con le nostre ciotole bollenti, osservando un ritrovato raro di rifiuti e accumuli malsani di sporcizia.
È una delle spiagge più luride che abbia mai visto.
Siamo circondate da orde di surfisti, venditori ambulanti di paccottiglia, gente completamente vestita in acqua (boh) che schiamazza e castelli di spazzatura sul bagnasciuga.
Un imponente albero di Natale fatto di lattine di birra troneggia fiero come un grande totem a vegliare sulle sorti del regno del trash.
Ce ne andiamo dopo pochissimo.
Ad ogni modo, andava visto, se non altro per conoscenza dell’ ‘altro volto’ di Bali, paradiso degli dei, inferno degli uomini.
Rinunciamo alla macedonia di frutta tropicale con gelatine fluorescenti e proseguiamo la passeggiata.
Camminiamo tutto il pomeriggio per le vie principali di questo caos pacchetto famiglia (preferibilmente in Hawaianas e American Express) fermandoci a varie tappe, tra cui un centro massaggi.
Alla fine ci siamo cascate.
Mi intrattengo in una simpatica conversazione con la massaggiatrice, grata che ci sia qualcuno che parli indonesiano in quel marasma di “sorry-thank you”. Dopo le prime presentazioni capiamo che veniamo entrambe da Giava. È inevitabile, me lo chiede: “Can you speak Javanese as well?”
Me: “A little bit”
Lei: “I am from Java”
Me: “Where?”
Lei: “Surabaya, do you know?”
E chi se la scorda.
Quando decidiamo di averne abbastanza di luci, voci, negozi, traffico congestionato, clacson e consumismo, torniamo alla pensione tagliando per una via interna.
Che si rivela essere anche peggiore delle superstrade. Viviamo cinque minuti di terrore.
Il marciapiede non sussiste, se non a brevi tratti e diverse altezze. Siamo ricascate nel Nintendo. Rischiamo la vita ogni passo che facciamo, contro la mandria indisciplinata di motorini (alcuni dei quali ci fanno compagnia sui tranci di marciapiede), improbabili Suv più larghi della via stessa che non ci pensano minimamente a rallentare e rendersi conto della situazione, e taxi sfrenati che cercano di svicolare in ogni centimetro libero.
Tocchiamo la soglia del cancello come due evase da un carcere federale americano giunte al confine col Messico.
Pensiamo di aver finito le tribolazioni ma, come al solito, ci sbagliamo di grosso.
In stanza, non c’è corrente.
Mi reco alla reception a farlo presente. La risposta che ottengo è: “Yes I know, wait a minute”. Mi chiedo, se lo sapeva, che bisogno c’era di farci scomodare? Forse sperava tornassimo ubriache alle cinque del mattino e non ce ne accorgessimo. Sarà una delle strategie di marketing che tengono in piedi questo posto.
Per farla breve, l’epilogo è: acchiappa panni a destra e a manca e cambia bungalow.
Se non altro, questo pare più pulito. C’è persino un ventilatore da soffitto privo di ruggine.
Ci facciamo una ‘doccia con fischio’ (qualcosa che funziona proprio non riusciamo ad ottenerla mai) e usciamo a reperire cibo nell’infallibile dress-code serale: infradito.
Manco a dirlo, comincia a piovere a dirotto.
Guadiamo sulla fanghiglia scivolosa fino a raggiungere un Asian Food Market.
Tra i vari fast food si sono scordati dove sono nel mondo e il cibo loro è diventato una sciccheria esotica.
È una sorta di grande mercato coperto con distese di tavolini di plastica e pareti tappezzate di poster con pessime immagini di piatti sud-est asiatici, cinesi e coreani. Tristemente, sembra la cosa più rustica di tutto il resto là fuori.
Ci avviciniamo ad uno dei banchi indonesiani e ordiniamo un cap cay (misto di verdure saltate) e un piatto di ‘seafood’. Ci portano due zuppe di pesce e verdure, una accompagnata da riso con salsa di soia, l’altra da fettuccine di soia. Non hanno capito niente. E si sbagliano sul resto.
Ormai abbiamo raggiunto quel livello di isteria apatica, quasi psicotica, per cui non ci importa più niente di niente. Ci facciamo scorrere tutto addosso come monaci buddhisti.
Dopo l’ennesima umiliazione dall’universo locale, fuggiamo verso i neon della civiltà nostrana: Starbucks e centro commerciale.
Dopo la sessione di Yoga fai da te, alternando respiri regolari a contemplazione di ordine utopistico, lusso inarrivabile e impeccabili sincronismi temporali della spietata macchina lucrativa, ci sentiamo sufficientemente illuse e rincuorate.
Diamo un’ultima chance al turismo autoctono, o quello che qui si spaccia per tale, e prendiamo un ronde jahe (zuppa calda di zenzero) ad un chiosco chiamato Food Adventure. Dopo aver appurato che non è altro che la versione ripulita e costosa di quello del buon vecchino giavanese sulla strada, alziamo bandiera bianca e battiamo in ritirata.
Ci alziamo alle 8.00 pronte a far colazione e correre in aeroporto a prendere l’aereo per Makassar, capoluogo dell’isola di Sulawesi.
Passiamo prima per la reception ad effettuare il check-out e a chiedere se può chiamarci un taxi.
Non può. Ma figuriamoci.
Però possiamo uscire per la strada, con tutti i bagagli, e sbracciarci a fermarlo manco fossimo Sarah Jessica Parker sulla 5th Avenue.
Ci rechiamo a colazione.
Al bancone, chiedo un menu continentale, uno balinese e il posto più facile dove reperire taxi a caso in mezzo alla strada. Mi suggerisce di farlo chiamare dalla reception.
È tutto un gigantesco oruboros che si morde la coda. Non c’è scampo.
Gli dico che ho già chiesto senza risultati positivi. Mi dice che non passano qui, ma se proprio vogliamo, possiamo andare alla fine della strada e alzare la mano, qualcosa si fermerà.
La cosa che questo viaggio mi ha insegnato è: in Indonesia, quando incappi in una qualche complicazione di sorta, non farti mai ulteriori domande. Ma, soprattutto, non farle mai ai locali. Non immagini fino a quali gironi infernali la situazione possa continuare a precipitare.
Ci gustiamo caffè, toast, pancakes alla banana e succo di papaya, osservando alcune signore balinesi nel cortile sfilare davanti a noi con vasi e ceste in testa colmi di cibarie. Una porta qualcosa come un pranzo di nozze in testa, senza mani. Ci ripromettiamo di imparare il trucco coi bagagli.
Dunque, seguendo i preziosi consigli, ci incamminiamo per la via non credendo affatto che ce la caveremo con poco.
Incredibilmente, neanche cento metri dopo, un taxi color cielo si ferma a caricarci. Salvate dal ‘principe azzurro’, come nelle migliori fiabe Disney.
Un quarto d’ora dopo, facciamo il nostro ingresso trionfale nell’aeroporto di Denpasar. Ci sbrighiamo a fare il check-in all’avveniristico banco dotato di carrello trasportatore precoloniale con rulli fermi e olio di gomito (nostro).
Come al solito passa di tutto. La hostess mi chiede se ho un coltello. Gli dico di no, perché dovrei? Si fida sulla parola.
Ci facciamo un giro per l’aeroporto che non ha molto da offrire e ci mettiamo ad attendere.
Il resto è noto.