Don’t push yourself

Capitolo 7 – Baliwood

«Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino d’infanzia, a una Disneyland senza confini».

 (Tiziano Terzani, Un indovino mi disse)

30 dicembre 2013

Gili Trawangan

Porto

Ore 11.00

Siamo qui sulla spiaggetta del porto ad attendere la partenza del traghetto per Bali.
Io sono adagiata su una sdraio di bambù. Fra è coi piedi a mollo, intenta a contrastare il caldo soffocante.

Stamattina ci svegliamo verso le 8.00. Entriamo in bagno, e riusciamo immediatamente.
Una fogna.

C’è evidentemente qualcosa che non va.

Accorro al mio ‘pozzo di fiducia’, ma non c’è traccia di acqua.

Faccio buon viso a cattiva sorte. Ritorno nel bagno, mi tappo il naso e sbrigo le mie faccende a tempo record.

Dopo aver impacchettato i bagagli usciamo in veranda per l’ultima colazione. Veniamo allietate da una serie di eventi. Il proprietario, dopo averci portato le solite delizie, comincia a farci domande martellanti ed insistenti circa i dettagli della nostra partenza imminente.
Nel bel mezzo della Santa Inquisizione, esce un francese ubriaco dalla porta a fianco. In preda allo stupore (non credevamo che questo posto potesse trovare altri clienti fino al prossimo novembre) e al sollievo di avere qualcuno a toglierci dalla situazione imbarazzante, cominciamo a dargli corda.
Alla fine mi concede il bracciolo sinistro.

Mai scelta fu meno saggia. Il tipo comincia a farci una filippica sulla vita notturna a Bali, senza che nessuno gli abbia chiesto nulla in particolare. Segue quarto d’ora di monologo fantastico ininterrotto in anglo-francese e sprazzi di sbronza mal gestita dalla notte prima.

Senza dare più credito a nessuno, ficchiamo il naso nella guida alla pagina dei trasporti per Bali. Io do il via ad una improbabile battaglia con un ragno (forse quello della sera prima) per guadagnare una percentuale di sedia dignitosa.

Verso le dieci, diamo l’addio alle armi e ci lasciamo alle spalle per sempre quel posto tremendo. Poi parte la missione del giorno: trova l’imbarcazione.

È più difficile del previsto. Ma del resto, cosa qui non lo è?

Facciamo una serie di avanti e indietro sulla via del porto, sventolando i biglietti come i seguaci di Gesù sventolavano ulivi per le vie di Gerusalemme. Ci fermiamo alle biglietterie di ogni agenzia, sperando che sia la nostra.

All’ennesimo tentativo fallito, cominciamo ad agitarci.

Un tizio a caso per la via decide di aiutarci più del necessario. Senza che nessuno gliel’abbia chiesto, acchiappa il biglietto, chiama il numero dell’agenzia scritto sopra e mi mette il telefono in mano. Spiego la situazione alla voce dall’altro capo. Mi dice che la nave è partita alle otto.

No, fermi tutti.

Gli rispiego la situazione, questa volta in indonesiano, forse non ha capito bene. È irremovibile: la nave è partita alle otto.

In un moto di rabbia isterica, minaccio di tornare personalmente a Bangsal, con qualsiasi mezzo rimedi all’istante, per andare a sbattergli in faccia il biglietto con su scritto 11.30 e farmi ridare centesimo per centesimo. Mi dice di andare a parlare con la sede dell’agenzia qui a Trawangan. È esattamente quello che stiamo cercando di fare da più di mezz’ora.

Congediamo l’uomo del telefono e decidiamo di usare le maniere forti: andiamo alla polizia.
Raggiungiamo la ‘centrale’: due poliziotti buttati sulle sdraio di bambù sotto un gazebo in riva al mare.
Dopo aver ascoltato le nostre accorate lamentele, ci dicono di non preoccuparci e ci scortano verso una biglietteria che ha un nome diverso da quelli indicati dalla nostra compagnia. Riponendo fiducia nelle forze dell’ordine (almeno in loro) entriamo a sventolare i biglietti in faccia all’impiegato. Questo esegue il check-in senza batter ciglio e ci informa che il traghetto partirà alle 11.15.

Ci chiediamo che bisogno c’era di farci dannare in questo modo.

Ci dirigiamo quindi alla spiaggia. Un ragazzo in uniforme blu ci ‘costringe’ a poggiare i bagagli addosso ad un mucchio. Pensiamo che li carichino a bordo. Non è così. Altri mille ‘perché’ si affollano nelle nostre provate menti.

31 dicembre 2013

Bali

Aeroporto di Denpasar

Ore 9.30

Seduta ‘comodamente’ su grate in metallo, con una Foot Reflexology Massage Room alle mie spalle e buste varie sparse attorno senza criterio (i bagagli) osservo con invidia i passeggeri imbarcarsi al Gate di fronte. Ma l’importante è avercela fatta a giungere fin qui.

Vediamo come.

Nelle puntate precedenti

Eravamo rimaste alla spiaggia di Gili Trawangan.

Alle 11.40 capiamo che è finalmente l’ora di salpare quando vediamo una folla di gente correre verso il mucchio di bagagli a recuperare i propri averi e fiondarsi a prender posto sul traghetto appena attraccato. Neanche nei film di Paolo Villaggio.

Non avendo altra scelta, ci affrettiamo a fare lo stesso e ci mettiamo in fila per l’imbarco.

Con tutti i bagagli a carico, ci fanno inerpicare su una scaletta ondulante fino al ponte della nave. Poi è Rambo: ci fanno sgattaiolare sotto coperta, passando per cornicione esterno, attaccati ad un corrimano in metallo che costeggia il fianco dell’imbarcazione pericolosamente fluttuante, con uno spazio di dieci centimetri per i piedi (il che costringeva o a mettersi sulle punte o di piatto tipo quinta posizione di danza classica).

Il tutto sempre in ciabatte e coi benedetti bagagli.

Non credevo che nel pacchetto Scuba Divers fosse compresa un’introduzione gratuita all’addestramento della Marina Militare. Tutto ciò è pazzesco.

Tralasciando i momenti di panico e le difficoltà di diversi viaggiatori meno giovani e agili di noi, per non parlare di quelli che hanno avuto la sfortunata idea di optare per un trolley invece dello zaino, riusciamo a raggiungere la poppa della nave senza che nulla, noi comprese, cadesse rovinosamente in acqua.

Ma la vera agonia comincia alle 12.00.

Nella cabina non c’è aria. O meglio, ci sarebbe, se qualcuno accendesse il condizionatore.

A nulla vale arrampicarmi su sedili e bagagli per piazzarmi di fronte al bocchettone.

Comincio a praticare gli esercizi di respirazione appresi per utilizzare l’erogatore d’ossigeno al corso di sub, ripetendo in mente le parole magiche: “Don’t push yourself”.

Passiamo un’ora e mezza di incubi.

A parte l’asfissia, che ormai quasi diventa un disturbo secondario, c’è un ulteriore piccolo inconveniente: un maremoto.

Il mare, che secondo l’agenzia “avrebbe potuto essere leggermente mosso”, è un pandemonio. Onde altissime sbattono la nave di qua e di là provocando paurose oscillazioni e violenti schiaffi d’acqua sui finestrini. E finalmente arriva anche lei a dar man forte: la nausea. Ad un passo davvero breve dal ripetere la ‘Suarabaya experience’, finalmente la nave comincia a rallentare.
Chiudo gli occhi per una decina di minuti, non so se consciamente o inconsciamente, in trauma totale.
Quando li riapro, i rivoli d’acqua salata sui finestrini si sono asciugati e fuori s’intravede uno spettacolo meraviglioso: pareti di roccia a picco sul mare, coperte di folta vegetazione di un verde smeraldo con qualche piccolo agglomerato di tettini di paglia che spunta qua e là sulla cima. Alla nostra destra, qualche atollo è disposto a formare un’entrata trionfale nel paradiso terrestre.

Benvenuti a Bali.

Attracchiamo al porto di Padang Bai, sul versante Est dell’isola e gli addetti cominciano a far scendere i passeggeri.

Tutti.

Per l’ennesima volta, prendo il biglietto e vado a reclamare al personale: dobbiamo scendere a Sanur, al sud.

“You go by bus”.

Ci risiamo. Come al solito la situazione ci sfugge di mano.

Dopo un’altra sessione di Rambo, riusciamo ad uscir fuori dalla nave e metter piede sul molo. Veniamo letteralmente assalite dai venditori ambulanti: cibi, abiti, souvenir che sbucano ogni dove, non si sa come uscirne vivi.

Tiriamo dritto fino alla terraferma, verso il luogo che più persone ci hanno indicato come il parcheggio degli autobus. Un tempio induista ci si para dinnanzi in tutto il suo splendore, dandoci il benvenuto nella più turistica terra degli dei mai vista. Donne con ceste di frutta sul capo fanno la spola da una parte all’altra del piazzale tra un viavai confuso di turisti, guidatori di automobili e bus e barcaioli. Scorgiamo il pullmino col nome della nostra compagnia e ci facciamo aiutare dall’autista a caricare i bagagli.

Due minuti dopo aver preso comodamente posto nei sedili anteriori, beneficiando dell’aria condizionata, c’è un cambio di programma. Scendiamo. Poi saliamo sulla Toyota otto posti, accanto a due francesi, diretti a Kuta. Un’altra novità.

Rinunciamo ad ogni tentativo di protesta, chiarimento, pianificazione del nostro immediato futuro e ci mettiamo l’anima in pace. Scendiamo dove capita, non ce ne frega più niente.

Il tragitto è rapido e indolore (a parte le solite performance contromano). Lungo la strada osserviamo gli innumerevoli templi, le onnipresenti offerte votive colme di fiori, cibi e incensi e le statue delle divinità induiste contorniate da ombrellini gialli e oro e altri paramenti rituali.

I cestini delle offerte sono letteralmente ovunque: all’entrata di ogni casa, bottega, negozio, ristorante, sui cruscotti delle auto, sulle colonnine elettriche. Non risparmiano nulla.

Dopo circa un’oretta giungiamo a Kuta, la Los Angeles indonesiana.

Siamo ufficialmente a Baliwood.

È qualcosa di invivibile: centri commerciali, mega catene americane, resort, fast-food, ristoranti e negozi di souvenir a perdita d’occhio. C’è persino l’Hard Rock Cafè con relativo negozio e hotel.

Merry Xmas

E poi traffico. Troppo. Orde di taxi, Suv, motorini, pullman, coloratissimi omnibus privi di vetri ai finestrini con gente accalcata all’interno. Ma soprattutto, fiumi di turisti carichi di shopping-bag. Faccio fatica a scorgere degli indonesiani. L’unica traccia di presenza locale sono gli altarini con le offerte, che fanno capolino qua e là sgomitando per ottenere un posticino di riguardo tra uno Frappuccino e un McMenu.

Fuori da un enorme negozio che reca l’insegna della nota brand Billabong, un grazioso ombrellino giallo traboccante di fiori e incensi spicca come un adesivo appiccicato sul diario scolastico per adolescenti.

Quando fino all’ultimo passeggero è smontato dalla vettura, guardiamo in faccia la realtà e verdianamente, ci pieghiamo alla ‘forza del destino’.

Scendiamo qui.