Voci dal nord

Capitolo 10 – Woodstocknen

«C’è qualcosa di sublime in queste prove tecniche sull’orlo del grande salto. Si butta via una maglietta inutile, si compra un coltellino e magari due matite nuove […], si puliscono a specchio vecchie scarpe e si rinuncia a un insopportabile armamentario di certezze, senza affaticarsi troppo a immaginare quello che verrà. Inutile prepararsi, tanto poi il viaggio farà del suo meglio per far saltare i nostri schemi. E tutto pare una metafora della vita, una preparazione al grande trasloco. Talvolta penso che chi ha passato molte frontiere è anche più preparato a morire. Non teme l’incognita come un sedentario».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

8 luglio 2013

Khumo

Marciapiede di fronte all’Ufficio Turistico

Ore 15.09

Stavolta la frontiera è rapida e indolore. Approfitto della sosta alla stazione di servizio per fare scorta di sigarette russe ai gusti di mela e fragola e per smaltire l’ultima decina di rubli (dato che ci rimetteremmo di meno nel cambiare pepite con ghiande più che i rubli russi con gli euro finlandesi).

Appena rimesso piede a Khumo, scambiamo due parole in fretta e furia con gli organizzatori del festival Sommelo e corriamo a casa di Noora a recuperare i bagagli: si parte con i polacchi, il dado è tratto. Dobbiamo sbrigarci però, loro hanno tempi strettissimi.

Gettiamo tutto alla rinfusa tra zaini e borse senza capire nulla di ciò che facciamo: mutande ovunque, cibo travasato da una parte all’altra ed inzeppato con molta poca cura. Ad un certo punto mi ritrovo a girare nuda per casa di Noora (per fortuna deserta) in cerca di modi per lavarmi in fretta, mentre cerco allo stesso tempo di selezionare i cambi. Non so più che ho portato e per qualche motivo l’asciugamano viola in microfibra spunta fuori dalla retina anteriore dello zaino. Un paio di calzini e dei pantaloni irrecuperabili volano inesorabilmente nella pattumiera di Noora. È il delirio.

Tra l’altro, la nostra cara ospite ci aveva lasciato le chiavi delle bici per fare un giro al parco Kalevala (dimmi cosa non si chiama così) ma dobbiamo rinunciarvi, visto che ci siamo catapultate per l’ennesima volta in un’iniziativa senza senso rimediata all’ultimo. Lasciamo i soldi e un biglietto sul tavolo e andiamo davanti l’Ufficio Turistico, dove verrà a prenderci il pullmino della band che ci porterà a Kaustinen.

Mentre tentiamo di rilassarci per qualche istante, buttate a terra come mendicanti, con mucchi di roba assemblata malamente e buttata in ogni dove, incappiamo in Pekka (oltre che nella macchina della polizia, che si ferma minacciosamente davanti a noi). Tra baci, abbracci e qualche: “Let’s keep in touch”, ci congediamo in modo decente con l’unica persona che ci ha dato retta e ci ha trattato bene durante tutto il festival.

Ed ora siamo qui, sul comodo marciapiede (sicuro più del materassino gonfiabile di Noora) sommerse da borse e zaini, con un sole stranamente caldo, pronte ad andare ovunque ci porteranno. 

Ore 16.12

Pullmino del festival di Kaustinen, assieme alla band di musicisti polacchi

Ci siamo, ce l’abbiamo fatta.

Ci godiamo il peculiare paesaggio finlandese in primo piano – alberi misti ad alberi, inframezzati da alberi, con qualche albero ogni tanto – sui sedili anteriori a fianco all’autista, mentre un sole fortissimo ci batte addosso, attraverso il vetro. I nostri amici polacchi sono qui dietro che se la spassano tra bevute e discorsi incomprensibili. Ogni tanto c’è qualche preoccupante silenzio, non si capisce se dovuto a botte di sonno o momentanei coma etilici.

Solo stamattina abbiamo aperto gli occhi sulla campagna russa, abbiamo toccato la Finlandia a nord-est, ed ora siamo dirette verso sud. Decisamente on the road.

Per un momento abbiamo temuto di non farcela, parcheggiate lì sul marciapiede (decisamente on the street), impegnate nei soliti travasi di biancheria e consumo/selezione di cibarie ormai ridotte in stati pietosi. Ma per fortuna i bagagli sono entrati (non si sa come) nel minuscolo pullmino. Abbiamo persino acquistato dei CD al Centro Turistico, uno di Maari, e l’altro delle care vecchine careliane (ormai potremmo farci anche il karaoke).

La cosa più sorprendente, alla luce di tutto, è che ci sia un Centro Turistico a Khumo.

Ci siamo anche intrattenute in un simpatico scambio di SMS con Noora. Pare si sia creato un malinteso: Fra le aveva scritto se potevamo lasciare i bagagli per altri tre giorni, per la faccenda del festival improvvisato, nel caso non fossero entrati i bagagli nel pullmino. All’inizio non è arrivata alcuna risposta. Nel frattempo la faccenda si è evoluta e lo spazio è stato rimediato, quindi abbiamo mandato un altro SMS a Noora per avvisarla del cambio di programma.

Dopo un po’ ci arriva solo la parte di un SMS, l’ultima parte precisamente, in cui è scritto un 150 euro un po’ sospetto. Quesiti si affollano nelle nostre menti. Attendiamo che arrivi l’altra parte del messaggio, non sapendo come comportarci. Poi, fortunatamente, il messaggio arriva. Il succo è: dato che il prezzo iniziale del Couch Surfing era 200 euro, successivamente abbassato a 100, ma noi dovevamo stare meno giorni e senza lasciare i bagagli, su suggerimento del caro marito, Noora voleva chiedercene 150. Ma potevamo usare le biciclette (smile). Gli diciamo che ormai siamo: “On the way”, bagagli inclusi, dunque, tutto rimane come stabilito inizialmente (tanti smiles).

Ringraziamo tanto (soprattutto per il suo shampoo e il suo caffè, un po’ meno per quel materassino…). Ormai quel che è fatto è fatto, Khumo è alle nostre spalle con tutti i suoi (pochi) abitanti, le sue strade deserte, il suo lago, la sua stazione di servizio, il suo Centro Turistico, il suo festival e il suo alto tasso di suicidi (che non ci sorprende affatto).

Sul pullmino dormono tutti adesso, siamo svegli solo io e l’autista, quindi credo che mi metterò a leggere, immersa nella sobrietà degli interni fuxia. 

Ore 18.45

Pullmino

Appena passata una località di nome Kokkola
(Mi sono sbracciata come un’idiota, voglio andarci)

…Kokkola!

Siamo appena ripartiti da una breve sosta in una sorta di autogrill (cioè una baita di tronchi nella foresta) nel quale abbiamo degustato una tazza di ottimo caffè locale a base di acqua del radiatore (il gusto era inconfondibile) e abbiamo avuto il piacere di fare pipì nella baracca del bagno tipico careliano (già sperimentato in Russia, ma che poi ritroveremo con grande gioia anche in Estonia), composto da un cassone di legno (sul quale non è ben chiaro se si debba salire in piedi) con un buco al centro di ovvia funzione. La maggior parte delle volte non è prevista la presenza di luce elettrica né di finestre (meno male che siamo d’estate e non fa mai buio).

È un po’ come giocare a rialzo e a strega di mezzanotte insieme, ma mentre espleti bisogni primari.

Tempo di sgranchire le gambe dopo il lungo sonno nel metro quadro di sedile, visionare la cartina della regione e scambiare quattro chiacchiere al bar coi nostri amici musicisti, e torniamo a bordo.
Lo stomaco, improvvisamente e inaspettatamente, reclama cibo. Spolveriamo le piadine scadute di quattro giorni fa (ormai senza muffa il cibo non ha più sapore) e un residuo della pappa di riso, una volta parte integrante delle preziose tortine.

Constato con soddisfazione che siamo decisamente a sud (“Guarda, non ci sono più gli abeti, solo betulle”). 

Ore 23.00 (circa)

Kappelin Grill, Kaustinen

Siamo arrivate a Kaustinen e siamo già intente nello stilare piani di guerra nell’unico autogrill del posto. 

Kappelin Grill
Benvenuti a Kaustinen

Ore 1.10

Festival di Kaustinen

Tenda monoposto

È follia, pura follia. Siamo stipate in un metro cubo di tenda, con uno zainone dietro la testa, uno sotto ai piedi su cui è posizionata una delle ‘borse profugo’ contenente le Converse (prime vittime dell’umidità al circa 99% che ha infradiciato ogni cosa). Ai lati della tenda e in parte sotto le nostre gambe, incastrate nei modi più impensabili, ci sono varie borse contenenti cibo e Dio sa che altro. Nelle tasche laterali abbiamo posizionato tatticamente: coltellino, spray anti zanzare, reggiseno (mah), spray anti zanzare di scorta.

Siamo letteralmente incastrate tra noi stesse e i mucchi di roba, in un buco di tenda da una persona, con pioggia incessante fuori e picchi di umidità all’interno che non si vedono neanche nelle foreste del Borneo. La situazione, improponibile, ci ha peraltro causato attacchi di ridarella compulsiva andati avanti per una buona mezz’ora. Tra l’altro (come se non fosse abbastanza), la tenda è in pendenza e il sacco a pelo è di un tessuto odiosamente scivoloso, il che contribuisce all’accartocciamento generale verso il lato di apertura della tenda (dove c’è uno degli zainoni, per capirci, oltre alla ‘borsa profugo’, ai nostri piedi).

Il materassino di Noora in confonto era un centro benessere, per fortuna che abbiamo dormito nel pullmino. Se poi la torcetta a dinamo non si ostinasse a spegnersi, tutto risulterebbe più facile. Come se non bastasse, la luce che proviene dai lampioni all’esterno (per fortuna siamo di fronte ad una pista sportiva) è filtrata dal verdino della tenda e produce un effetto straniante. Pare di essere nel Gabinetto del Dottor Caligari, ma più scomodi.

Qui fa un po’ più buio rispetto al nord (ovviamente, c’era da immaginarselo). Echi di musica di ogni genere e bassi che pompano dalle casse si odono in lontananza dal festival. Entrambe stiamo esplodendo ma non ci azzardiamo ad uscire per fare pipì, ciò comporterebbe un drastico sommovimento dei bagagli e almeno un’altra buona mezz’ora di Tetris livello estremo. Già per entrare ho dovuto sormontare con pose plastiche (ancora poco chiare) la muraglia sacra di zaini, inizialmente posti entrambi davanti l’entrata.

La grande porta di Kiev.
Un’omaggi dalla Russia uscente.

La nostra cuccia

Ma dovrei dire come siamo giunte a tutto ciò.

Verso il tardo pomeriggio scendiamo dal pullmino davanti all’entrata del festival e ci congediamo momentaneamente dagli amici polacchi. La missione è ottenere gli amati PASS STAMPA. Ci fiondiamo al banco informazioni ma ci dicono che l’Ufficio Stampa aprirà domani mattina alle dieci, ormai è troppo tardi. In compenso, ci indicano la vicina area campeggio in cui possiamo posizionare la tenda pagando solo quindici euro a notte.

Circumnavighiamo l’area del festival (senza i PASS STAMPA dovremmo pagare dai venti euro in su ad ogni ingresso) sbirciando qua e là dalle varie aperture. L’ambiente è totalmente diverso dall’elitario, quieto ed esclusivo Sommelo, ricercatamente tradizionale, per pochi esperti, sulle verdeggianti sponde di un silenzioso lago lappone. Kaustinen è il regno della world music, delle gipsy band, del folk revival massiccio di più infimo gusto e delle casse sparate a tutto volume fino alle quattro del mattino. Tendoni, chioschi ambulanti, impalcature con fari accecanti, sponsor ovunque e merchandising alle stelle.

È rave!

Ma soprattutto: è internazionale. Musicisti da ogni parte di Europa e del mondo si contendono i vari palchi, aree, stand e prati di questo melting pot finnico. Piantiamo velocemente la tenda (che, del resto, è meno impegnativa della casetta di Polly Pocket) e andiamo girovagando in cerca di vita e di cibo. Con estremo rammarico, non troviamo né l’una né l’altro.

[nel frattempo odo da lontano echi della Ievan Polkka, in una delle tante versioni riarrangiate]. 

È tutto all’interno del festival, rimanerne al di fuori è come rimanere fuori dalla Città Incantata di Miyazaki. Dopo aver fatto un buco nell’acqua alla ricerca di un fantomatico marketplace totalmente sgombro, cominciamo a chiedere ai passanti come raggiungere il centro della città. Al quarto o quinto incontro con brutti ceffi appostati a parcheggi e pompe di benzina, che non parlano una parola di inglese e ci guardano come fossimo uscite da una fiaba, capiamo un concetto cruciale: non c’è nessun centro.

In realtà, non c’è neanche un paese. Il festival è ‘l’ombelico del mondo’. Scattano panico e frenesia (più o meno coordinati): che facciamo? Tentiamo di supplicare la tizia dell’ingresso al festival puntando sulla pietà e su garanzie prese poco sul serio: domani avremo i PASS STAMPA. Niente da fare, è comunque sempre Finlandia.

Ricorriamo al piano B. Questo in realtà consisterebbe più o meno in: trova un posto dove mangiare e rimanere a fare ottimistici piani per il futuro finché non chiuda e tocchi andare a murarsi vive in tenda. Le scelte, a questo punto, sono:

a) Esoso ristorante tipico con cuochi locali affamati di sangue dei pochi poveri turisti (anche perché considerata la location, direi che il festival è l’unica occasione annuale di guadagno).

b) Peggiore ‘Bar de Caracas’ (persino di quelli a Caracas stessa) con un assortimento di bulli e pupe nel parcheggio (i brutti ceffi di prima e sosia di prostitute moscovite).

c) Il Kappelin Grill, medio fast-food frequentato da backpackers, turisti della classe medio-bassa, e gente locale con fedina penale intonsa. 

Optiamo decisamente per l’opzione c. Dopo divertenti tentativi di ordinare cose fantasiose optiamo per un’insalata scondita con carne tipo kebab, e un’insalata di gamberetti, pollo e ketchup. Quando chiedo alla commessa della frutta lei mi ride praticamente in faccia. C’era da aspettarselo. Ripiego sulla scorta personale di mele.

Rifocillate (ma soprattutto rincuorate), tiriamo fuori cartine, guide, penne, blocchetti e scartoffie varie e ci mettiamo a fare piani di guerra (di cui prima). Mentre siamo intente nei nostri affari, finalmente in pace dei sensi, un signore cade a terra a peso morto, all’improvviso, come svenuto. Dopo poco si rialza e comincia a mettere a posto il suo zaino. Poi ricade, si rialza e ordina un hamburger. Nel frattempo (nel senso, per tutto il tempo), un altro tizio dagli occhi color ghiaccio, fissa il vuoto.

Ogni tanto rifiniamo nel solito libro di Stephen King.

Piani di guerra

Rimaniamo finché la percentuale di quelli sani è più alta degli altri, poi la situazione diviene insostenibile e alziamo i tacchi. Torniamo alla base, facendoci strada tra nulla e sprazzi di buio, con il coltellino ben saldo nella tasca. Ed è qui che avviene il panico sopra descritto, nel tentativo di prender sonno in una cuccia, sommerse e incastrate tra mucchi di roba, in balia di zanzare, umidità e bisogni fisici non espletabili.

Lo prendiamo come un addestramento per tempi peggiori (che non riesco proprio a immaginare).