« “Sei certissimo?” mi ha chiesto. Io gli ho detto che ero certissimo. Lui ha spostato la macchina sul ciglio della strada. “Ci fermeremo qui a mangiare la colazione” ha detto. “Qui?” gli ho chiesto, perché era un posto senza attrazione, solo pochi metri di sterrato fra la strada e un muro di cemento che separava la strada dai poderi agricoli. “Questo mi sembra un luogo pregiato” ha detto e sapevo che sarebbe stato comune pudore non discutere” ».
(Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata)
7 luglio 2013
Pullmann per Haikola (paese disperso nella Carelia russa privo di corrente e strade asfaltate)
Ore 9.26
Siamo pronte all’ennesima avventura al suono della sveglia alle 8.00, dopo qualche misera oretta di sonno come tradizione. In effetti, grazie alla mia notte brava, anche il sonno di Fra è stato brutalmente turbato e spezzato di continuo da una serie di rumori molesti (cfr. parquet a traccole del capitolo precedente).
Tra l’altro, in uno dei vari momenti di dormiveglia, la ricordo proferire sentenze oracolari tipo la seguente: “La corrente c’è solo in bagno”.
Che tradotto dovrebbe suonare più o meno come: “Attenta al caricatore sotto il water. So che non è il posto migliore per caricare il cellulare, ma del resto è l’unico”. Grazie alla profezia di Fra collego tutto: in camera non c’è elettricità. La magistrale installazione d’arte contemporanea all’angolo in alto sopra la porta, è una mera TV a tubo catodico non funzionante.
Si è dischiuso un ventaglio di perché grazie a soli sei morfemi.
Dopo i bagordi notturni il mattino ha l’oro in bocca. Giusto quello, dato che sul tavolo della colazione non c’è traccia di dolce. Fior fior di affettati, salumi, formaggi, uova, cetrioli, pomodori, insalate, una specie di pudding di riso di dubbio utilizzo. Giusto il tempo di rimanere interdette e deluse, che intravedo l’unico alone di luce in quel brancolamento nel buio della disperazione: lo yoghurt. Cartoni di yoghurt ai frutti rossi (non avevamo dubbi) disposti in fila sul bancone della reception (che ti diventa carrello portavivande come niente). Un’oasi nel deserto.
Il fato me ne accorda addirittura uno alla mela, pecora nera tra schiere di lamponi e mirtilli. Porto vittoriosa il mio trofeo al tavolo.
Mi guardo intorno, e vedo tutti intenti a consumare avidamente piatto colmi di pietanze composite condite con burro e salse per nulla invitanti. Scatta lo spirito di rivalsa: “Famo le italiane”.
Salgo su in camera a prendere le scorte necessarie (sapevo che sarebbero tornate utili, prima o poi). Ci godiamo una colazione impeccabile con le tortine DOLCI della Fazer intrattenendoci davanti la TV della sala, che trasmette Aladdin in russo.
Ed ora, equipaggiate a dovere, con tanto di costume sotto dato che si vocifera di una sauna, ci dirigiamo verso il culmine supremo del nulla, la roccaforte imperiale del nowhere: la ridente, soleggiata Haikola.
Siamo convenute alla conclusione che questa è la maledizione di Oulu. Da quando l’abbiamo denigrata le nostre mete hanno cominciato a trasformarsi in una successione di tappe discendenti verso il baratro dell’assenza di civiltà. Ma forse preferiamo così.
Quel ramo del lago di Haikola
(Che strano, c’è un lago)
Ore 14.00
Siamo posizionate su una collinetta in declivio su questo tetro specchio d’acqua, in procinto di assistere ad un’altra performance di kantele dei bimbi.
Questo paesino non sussiste. Si articola in case di numero costruite totalmente in legno con pochi inserti colorati: delle finestrelle blu, qualche rottame qua e là, un motore di una vecchia auto post-bellica, tronchi spezzati, fusti arrugginiti di carburante per barche. Queste ultime, che sembrano andare incontro a una lenta decadenza, sono ormeggiate a casaccio sulla riva sabbiosa.
Per il resto c’è solo erba altissima con sprazzi di fiori di un vivace violetto, unici punti focali del paesaggio sbiadito, che sembrano spruzzati qua e là con il cursore di Paint. E poi boschi. Boschi, boschi, boschi e ancora boschi.




Appena mettiamo piede giù dal pullmino veniamo avvolte dalle voci di Maari e dei maestri che intonano i loro richiami. Mentre gli altri si avviano al ritrovo principale, noi scorgiamo le allegre signore careliane intente a cantare tra loro per prova, o per svago, chissà, e ne approfittiamo subito per fare una ripresa audio/video della performance completa a poco meno di cinque metri di distanza.
Poi raggiungiamo il gruppo e lo seguiamo in un tour del cimitero del paese (quattro lapidi nel bosco). La guida è a scelta: russo o finlandese. Figuriamoci. Un gentile signore ci traduce ogni tanto una frase qua e là in inglese e riusciamo a carpire qualche notizia interessante. Ad esempio, scopriamo che il capo villaggio, oltre ad essere identico al nonno di Heidi, è il figlio dell’ultimo sopravvissuto del paese dopo l’occupazione sovietica, colui cioè che si è reso noto per l’aver collezionato l’intero repertorio di canti runici del luogo. Già capiamo che non avrà vita facile, non lo molleremo più.
Torniamo quindi tra la ‘civiltà’ per assistere ad altre performance, tra cui di nuovo il gruppo di Maari e le signore russe (dopo un po’ cominciamo ad averne quasi abbastanza). In apertura si esibisce l’attore bravissimo che già aveva dato saggio delle sue capacità durante il concerto nella foresta a Kuhmo. Questo si esibisce con una sorta di corno che manda in visibilio Fra, che subito comincia ad ipotizzare intricati percorsi organologici prima di scoprire che si tratta di un semplice lavoro di artigianato home-made, realizzato appositamente per la performance.
Terminate le esibizioni, ci si presenta dinnanzi una scelta cruciale: pranzo, o museo delle tradizioni locali con guida in russo… Ci avviamo DECISAMENTE verso la tavolata allestita dalle signore nei loro squisiti abitini, intente a scodellare zuppe e sfornare tortine di patate. Facciamo incetta di ogni cosa e ci posizioniamo al solito tavolino in disparte.
Il signore delle traduzioni gentilmente ci viene incontro con tre bigliettini extra per il pasto (l’inedia non sarà decisamente tra le cause del nostro possibile decesso) e ci dà varie indicazioni, come quella di tenerci le tortine come dolce. Faccio finta di non aver sentito ed evito di rovinare la mia pietanza preferita stravolgendo ignobilmente il suo ordine di consumazione. Continuo dunque ad accompagnare le tortine alla zuppa di salmone e ginepro, ma lui non demorde. Devo aspettare che si alzi prima di sbrigarmi a ingurgitarle.
Siamo arroccati su pericolanti panche di legno tra l’erba alta e la fine del mondo ma il galateo viene prima di tutto.

Dopo altre inquantificabili porzioni di zuppa, patate, verdure e polpette di maiale, scoliamo litri di tè al ginepro, e decidiamo di alzarci e fare un giro nel ‘centro abitato’. Mentre siamo in cerca di scorci suggestivi da immortalare, rischiamo quasi di venir fucilate da un contadino russo che non gradisce affatto l’eccessivo interesse per la sua auto.
Ripieghiamo dunque sulla spiaggia e rischiamo di venir lapidate da un gruppo di adolescenti locali che trovano divertentissima la nostra parlata straniera e dunque, forse per ringraziarci della performance offerta, tirano sassi. Ci diamo alla macchia tentando di seminare il più possibile quelle poche tracce di civiltà reperite.
Dopo un soddisfacente tour delle meraviglie della campagna russa, ci accasciamo su una collinetta a goderci il suono dei kantele che, del resto, non sono gli unici a venir pizzicati (sono arrivata a nove pizzichi, al decimo temo di trasformarmi in mosca cavallina con la luna piena).

Haikola
Panca di legno fronte lago, sul retro del teatro
Ore 16.00
Il concerto prosegue spostandosi all’interno del teatro. Maari, l’attore e tutto il loro fantastico gruppo vocale si cimentano nei canti runici, interpretando e recitando alcuni brani del Kalevala (tra i quali uno che avevo appena letto, non mi sembrava vero di capire cosa dicessero). Poi i nostri amici polacchi ci hanno concesso il tris…
Urgeva architettare piano diabolico, per trovare via di scampo (senza offesa, ma tre concerti in due giorni, roba che neanche le capo ultras del fan club ufficiale). Lasciamo di soppiatto il teatro e partiamo per la prima vera missione etnomusicologica DOC.
È una missione da reporter d’assalto, in tutti i sensi.
Tramite uno degli organizzatori del festival che ci fa il piacere di tradurre da russo a finlandese a inglese abbordiamo Mika, il capo villaggio, e gli poniamo la proposta indecente: cantarci il quarantesimo runo del Kalevala (quello in cui Vennemonen crea il kantele) come tramandatagli da suo padre.
Il caro Mika ci conduce nella sua casetta in legno, colma di cimeli d’altri tempi, e dopo vari gesti più o meno fantasiosi per sistemare gli ultimi dettagli, gli intono la prima strofa così come l’ho sentita su YouTube. Sono un po’ titubante trattandosi di una versione revival, ma lui capisce al volo, e attacca.
Iniziano così riprese e registrazioni, disturbate solo dal ticchettio di penna (ma non ce la sentivamo proprio di fermarlo). L’intonazione è calante, lui scorda a tratti le parole e incespica in alcuni punti. Un’esecuzione perfetta. Ci commuoviamo. Meglio di così bisognerebbe chiederla a Vennemonen in persona.
Soddisfattissime della nostra impresa sul campo andata a buon fine, continuiamo a vagare per le campagne in preda alla fibrillazione con sorrisi a novecentocinquanta denti, commentando euforiche l’esibizione. In tutto ciò io continuo a portarmi appresso il diario come la coperta di Linus tentando di scrivere qualcosa nonostante le mille interruzioni (tipo l’amica hippie che non poteva fare a meno di mettersi a discorrere della situazione politica europea e il clarinettista polacco interessatissimo alle mie vicende personali).
Forse però, ce l’ho quasi fatta…
…ecco, appunto, mi stanno chiamando.
Uthua
Letto (che finora è la location più strana)
Ore 23.00 circa (ma non lo sapremo mai, visto che “Il cellulare è in bagno” cit.)
Il pomeriggio prosegue nel modo seguente:
Seguiamo di corsa pochi altri che sono entrati nella prima casetta a destra sul sentiero principale… il famigerato museo. (Nel frattempo sono arrivata a quota 15 pizzichi sulla stessa spalla. Chiamate un esorcista). Insomma si tratta della casa del padre di Mika, adibita ad esposizione di vecchi cimeli sovietici al piano inferiore, e mostra di vecchie barche e attrezzi tessili al piano superiore.
Poi arriva il grande momento, la sauna: “My first sauna”, come continuo a ripetere a chiunque mi si pari davanti come un’esaltata, ottenendo in risposta solo occhiate di stupore/compatimento/biasimo.
Ci rechiamo, con le due sorelle e una delle organizzatrici del festival, alla sauna femminile, che, a differenza di quella maschile situata nel centro del villaggio, è posta a un chilometro fuori, sulla sponda di un lago (un altro).
Capisco che il pudore qui sia una delle questioni fondamentali (oltre alla corretta consumazione delle tortine di patate).
Ci togliamo i vestiti e li poggiamo fuori alla casetta in legno che costituisce la sauna. Entriamo e nell’anticamera lasciamo gli ultimi indumenti intimi, siamo completamente nude. Apriamo la porticina d’ingresso e scendiamo nell’Averno. Il tetto è bassissimo, le pareti in tronchi di legno sono ruvide e c’è una finestrella dalla quale filtra poca luce. Ai lati ci sono panche in legno sulle quali sedersi, in un angolo c’è il braciere che emana un calore indicibile (infatti mi metto dalla parte opposta) e qua e là sono appoggiate bacinelle d’acqua calda e fredda da gettarsi addosso di tanto in tanto (giusto così, quando proprio ti senti a un passo dal collasso).
Tuttavia, più che il caldo che in fin dei conti è sopportabile (circa 60 gradi), il vero problema è la sensazione di mancanza d’aria abbastanza opprimente. Sembra di non riuscire a respirare. Quando quasi mi ci sono abituata, vedo che le ragazze cominciano a fustigarsi con un fascio di rami di ginepro. Mi spiegano che serve ad attivare la circolazione e pare abbia anche effetto benefico sui pizzichi. Manco a dirlo mi fiondo a farmi flagellare da Fra (“Crucifige, Crucifige”) ma dopo aver provato solo un inutile senso di maltrattamento a vuoto, decido di smettere.
Resisto per ben 30 minuti nella sauna, dopo di che seguo le altre tizie a fiondarmi, sempre nuda, nel lago ai piedi della scarpata. Il momento in cui esco da una baracca di legno fumante e mi metto a correre nuda giù per un dirupo per tuffarmi in un lago gelido rimarrà impresso nel mio codice genetico per sempre. Il fondo del lago è un po’ inquietante, una melma sofficissima che a tratti sprofonda tipo sabbie mobili. Mi chiedo se ho raggiunto il limite estremo o ci sarà dell’altro in questo viaggio.
Ci asciughiamo (con asciugamano preso da loro che a loro volta l’hanno preso dall’albergo) e torniamo alla base, dove ci aspetta la cena. Nel frattempo il villaggio ha cambiato faccia: da impervia roccaforte della decadenza post-sovietica, è divenuto un’incantevole oasi ridente alla Tutti insieme appassionatamente. Ci spiegano che in Carelia è tipico: la mattina freddo, pioggia e cielo torvo, il pomeriggio caldo e sole. Molti dei turisti estranei al festival cominciano a rincasare e rimaniamo in pochi intimi tra queste quattro case deserte. Tutto ciò è molto pittoresco (“Fra, siamo finite nel Far East“).


Con nostra grande sorpresa, Mika ci viene incontro e ci regala una guida della Carelia in inglese. Avrei voluto abbracciarlo e dirgli: “Ti prego diventa mio nonno”. Ovviamente non l’ho fatto. Dopo essere state trattate a pesci in faccia da ogni dove, in questi giorni non ce lo aspettavamo davvero, siamo commosse.
Entriamo nel salone della mensa dove ci attende un’immensa tavola imbandita. Prendiamo due posti a caso sperando vivamente che si sieda accanto a noi qualcuno in grado di masticare inglese, oltre che patate. Il desiderio si avvera, il fedele signore non ci lascia sole ed indifese, si siede accanto a noi e si presta a traduzioni e vari servizi di cortesia (come stappare il vino rosso). Ormai è assunto come segretario.
Dopo vari brindisi in onore del festival, della musica, e di altre cose estremamente toccanti…”Oh, Ilà, se magna” (Muller 2012).
C’è l’imbarazzo della scelta a portata di MANO (letteralmente, no posate, Questa è Russia, il sequel). Il menu comprende:
- pesce fritto
- polpette di pesce
- pomodori e cetrioli in insalata
- verdura mista cotta in una salsa rossa
- zuppa di patate
- insalata di verza
Finito il pasto ha luogo un momento significativo. I polacchi, i russi e i finlandesi, cominciano a cantare a turno canti da taverna delle rispettive nazionalità. La quintessenza dell’etnomusicologia da campo. Ci sarebbe stato da riprendere ma sembrava scortese. Le performance davanti al bicchiere pieno sono le migliori. Per un attimo ho temuto che chiedessero anche a noi di cimentarci in canti tradizionali nostrani, già ero pronta a lanciarmi in un: “E quanno er vino mbèh”, con Fra allarmata che tentava di contenermi. Fortunatamente siamo passate inosservate.
Dopo aver aiutato a sparecchiare ci rimettiamo a tavola per il caffè e il dolce (una pizza con marmellata di mirtilli rossi). Non del tutto pronte ad andarcene, un po’ a malincuore, prendiamo posto sul pullmino e ripartiamo. Durante il viaggio di ritorno parte da me e Fra il canta-tu di melodie trobadoriche. A l’entrade del tens clar è quella che va per la maggiore. Che sia una botta d’invidia per tutto questo sfoggio di folklore nordico?
Tornati ad Uthua distrutti corriamo a rintanarci ognuno nella propria magione e a buttarci a peso morto sulle insostenibili trame prive di gusto dei nostri copriletti. Domani ci aspetta la solita alzataccia, alle 6.00 del mattino. Prima però, ci concediamo un tè in giardino con biscotti alla menta che avrebbero più successo come dentifricio a secco. Io in realtà avrei voluto continuare a scrivere giù in riva al lago, ma visto che continuo ad essere il bersaglio principale di ogni insetto dotato di pungiglione (mentre Fra è perfettamente intonsa) la seguo al piano di sopra.
Sono ore che sono in balìa di pruriti allucinanti, vorrei rotolarmi nella carta vetrata. Fra dal canto suo tenta di prender sonno tra le stilettate di raggi solari che filtrano dalle tendine a qualsiasi ora del giorno e della notte e le signore russe che continuano a cantare irriducibili da circa due ore, in qualche meandro dell’albergo. Mi sforzerò anche io di dormire nonostante non ne abbia la benché minima fantasia. Conterò le bolle. Ho appena scoperto di averne cinque sulla coscia, se le guardi dalla giusta angolazione formano la costellazione del Grande Carro.