«La cantante si portò le mani alla bocca. Ritta in mezzo al palcoscenico, esterrefatta. “Ma che parole dice?” si domandarono i musici. “Che canto è mai questo?”. “E che lingua?”. E quand’essi ripresero a soffiare nei corni d’oro, la strana musica ne uscì e si diffuse lentamente sul pubblico, che ora s’era messo a parlare ad alta voce e stava in piedi. “Si può sapere cosa fai?” i musici si domandavano a vicenda. “Che motivo è mai quello che suoni?”. “Che cosa stavi suonando poco fa?”. La donna, scossa dai singhiozzi, fuggì dal palcoscenico. E il pubblico abbandonò l’anfiteatro».
(Ray Bradbury, Cronache marziane)
1° ottobre 2013
Yogyakarta
Casa (finalmente posso dirlo)
Stanotte non ho chiuso occhio a causa dei rumori inquietanti che provengono da ogni dove. Il tokay puntualizza preciso i cambi d’ora senza ritegno, è meglio di una radiosveglia. Se vado a letto a l’una, so che all’ottavo singhiozzo è ora di alzarsi.
Stamattina ci sono grandi sorprese nella doccia: mentre prendo l’accappatoio, una specie di cormorano vola via in fretta e furia, facendomi prendere un colpo. I miei asciugamani sono il ritrovo preferito delle farfalle notturne, a quanto sembra. Non oso svuotare il cesto dei panni sporchi.
Sono quasi le dieci e dovrei essere all’ISI… alle dieci. Mentre mi scapicollo per cercare di capire cosa mettermi, per coprirmi il più possibile senza soffocare – dato che siamo in un paese in cui le distinzioni di genere sono ancora abbastanza marcate e Giava è anche un’isola a maggioranza musulmana – mi arriva un messaggio da Mr Bambang: “You can come after 11.00, Miss”. Non fate mai a gara di ritardo con gli indonesiani, rischiereste di non vedervi mai più.
Ho tutto il tempo che voglio per fare benzina e andare al Superindo a comprare qualcosa per colazione (ancora non prendo familiarità coi chioschi purtroppo). Noto con piacere che è davvero a un minuto da casa. Noto con meno piacere, che non ho segnato la via di casa, andrò a fiducia, come al solito.
Mi incammino per l’ISI, navigatore nella borsa di tela che tengo tra le gambe, auricolare sotto il casco, e mi incammino. Digito Jalan Parangtritis, zona Sewon, e dopo pochi chilometri mi trovo sul South Ring Road. Perché? In teoria da casa nuova l’ISI dovrebbe essere a neanche dieci minuti di strada quasi tutta dritta , non è possibile. Come non bastasse, faccio il primo incontro con la polisi, la polizia locale. Esiste, dunque. Pochi omini in divisa fluorescente sbarrano la strada creando un ingorgo di motorini, per controllare i documenti. Gli mostro la patente internazionale, non capiscono assolutamente cosa sia e mi fanno passare. Poteva essere tranquillamente il tagliando punti della Coop.
Tra l’altro non ho la patente A ma la B, che non sono sicura valga anche per i motorini come in Italia. Ma a chi vuoi che importi. Stufa del solito peregrinare senza scopo, che ormai è routine, capisco dov’è il problema. La Jalan Parangtritis è lunghissima e in effetti il navigatore mi dà più opzioni, io ho clicco la prima che compare, ma così rischio di arrivare ovunque. È come scrivere ‘Tiburtina’, non significa nulla. Provo a cercare direttamente l’ISI. Lo riconosce e risolvo i miei guai, almeno per ora.
Al Rektorat mi aspetta Bambang, che mi introduce alla signora addetta alle relazioni internazionali e rispiego tutta la faccenda di corsi, tesi e borsa di studio per l’ennesima volta. Mi dice di tornare giovedì per parlare col responsabile del dipartimento di Pedalangan (marionettistica). È tutto un rimandare, è incredibile. Capisco quasi la collaborazione con la Sapienza.
Perlomeno domani a l’una inizieranno i corsi di Bahasa Indonesia… nel dipartimento di Fotografia (ma la Sapienza su questo vince: ho seguito corsi di Drammaturgia ad Ortopedia).
Faccio la conoscenza di un simpatico individuo, che non ho capito se sia un professore, un dottorando o un segretario e divento la sua migliore amica. Lo ha deciso lui. Ci sediamo a parlare e, tra una cosa e l’altra, mi dice che anche lui ha fatto a suo tempo la tesi sul wayang kulit. Decisamente, sono la sua migliore amica. Ci scambiamo i contatti e mi dice che mi farà da guida per vedere le attrazioni della città, visto che io non oso muovermi dal sud, nel quale già ho sufficienti momenti di panico. Guardo la cartina e mi rendo conto che quello che per me già sembra un intrico sterminato di strade, in scala non è altro che un triangolino in fondo a sinistra. E meno male che era piccola questa città.
Con qualche notizia e innumerevoli migliori amici in più, me ne torno al motorino e riesco a perdermi anche nel campus. Ne approfitto per dare un’occhiata. Odo una musica gamelan provenire dalle vicinanze e mi fiondo. Ho modo di vedere così le lezioni di danza, in un padiglione (pendopo) dalla maestosa struttura in legno. Mi viene voglia quasi di partecipare, ma non credo che passerei inosservata dunque, a malincuore, rinuncio.
Sulla strada del ritorno mi fermo in un negozio che sembra vendere articoli per la casa, ma in realtà potrebbe vendere qualsiasi cosa, e compro degli affari per deumidificare e una vaschetta per conservare il cibo (che comunque ancora non ho), onde evitare sciami e migrazioni di vari e numerosi piccoli (relativamente) abitanti della casa. Poi, tanto per ingannare il tempo, mi perdo. Ormai è un hobby. Eppure stavolta non dovrebbe essere difficile. Dopo qualche vasca su e già della strada con le bandiere, capisco che devo imboccare la vietta laterale tra le colonne bianche e la faccio finita di girare come una cretina.
Dopo pranzo (che credo consumerò al primo chiosco che becco nei dintorni) vorrei tanto andare a fare un giro al centro, ma ho serie perplessità.
Tanto so che uscirò, figuriamoci se me ne sto una giornata chiusa in stanza. Piuttosto finirei a Sumatra.
Ore 18.02
Appena tornata dal Progo
Tempo di riprendermi dal trauma del caldo torrido e dello stomaco ultimamente poco collaborativo, esco a pranzo. Il padrone di casa mi consiglia un posto qua vicino, io tento di arrivarci ma già capisco l’andazzo, dunque mi fermo ad un chiosco a caso., attratta dalla scritta makan (mangiare).
Una volta entrata nella veranda non capisco il senso di quel posto. Una vecchietta è seduta ad un tavolino tra oggetti di ogni natura sparsi ovunque. Davanti a lei c’è un banchetto di cibi sfusi tipo verdure e noccioline, ma nulla che sembri un self-service, e non c’è traccia di tavolini per clienti.
Sto per uscire quando delle poliziotte appena entrate mi chiedono cosa stia cercando (oggi è giornata). Gli dico che cerco un posto in cui mangiare e subito una di loro parla con la vecchietta che mi appronta un piatto in quattro e quattr’otto con quelle due cosucce che ha lì pronte, nel cucinino sul retro. La poliziotta mi fa accomodare all’interno, ad un tavolo solitario addossato alla parete pieno di cianfrusaglie e mi porta poco dopo un piatto di verdure miste cotte in una crema di noccioline. Poi mi porta un bicchierone di tè al gelsomino e mi dice che quello me lo offre lei.
Mangio quasi in stato di trance. Non capisco dove mi trovo e perché, e cosa mi stia accadendo. So solo che è tutto molto buono. Ringrazio, pago solo 10.000 rupie (meno di un euro) e mi metto sulla via del ritorno con espressione attonita. Mentre sto per imboccare il vialetto di casa però ci ripenso: cambio di programma.
Innanzitutto mi salvo l’indirizzo della via sul navigatore, che miracolosamente la riconosce. Poi inserisco l’indirizzo del Progo, il grande magazzino nel centro cittadino, e mi metto in sella alla volta di un pomeriggio di acquisti per la casa (almeno la finirò di vivere come una sfollata senza neanche delle lenzuola).
Non so come, non mi perdo. Lascio il motorino nel parcheggio, dando le solite 1000/2000 rupie al parcheggiatore (qui è d’obbligo quasi ovunque) e mi fiondo dentro, è il caos. L’organizzazione non è decisamente il loro forte. Su tre piani più uno credo abusivo, si trova ogni cosa immaginabile (e non) tra cui: oggetti d’arredamento per la casa, alimentari, elettronica e un reparto batik in cui ho lasciato gli occhi. Il problema è che è diviso in reparti ma il confine tra questi non è del tutto chiaro. Finisce che rientro e riesco tre volte dal reparto cucina senza senso.
Ad ogni modo, riesco a prendere tutto l’occorrente per avere un bagno decente e funzionale ed una camera dignitosa e accessoriata. Poi, carica di buste ingombranti (che contengono, tra le altre cose, un cestino per la spazzatura e dei contenitori per cibi dalla mole abbastanza significativa), scendo giù a fare un giro al supermercato. Lascio tutto all’apposito banco deposito (una cosa efficiente c’è, sembra) e comincio a girovagare tra mille meraviglie.
Tra un: “Permisi” (permesso), un: “Maaf” (scusi) e un: “Terima kasih” (grazie), tento uno slalom impensabile col carrello tra le corsie anguste e ingombrate da pacchi di cose accatastate in mezzo, con molto poco criterio. Compro pacchi di noodles e spaghetti di soia, qualcosa per la colazione e scorte base di articoli che ogni casa decente dovrebbe possedere. Tra questi non rientrano assolutamente i fossili di krupuk (i famosi cracker gusto granchio fritto sintetico) da friggere, comprati per pura sindrome da accumulo compulsivo di cose conosciute ma mai viste nella loro forma originaria. Spoiler: subiranno triste sorte innumerevoli mesi dopo, assolutamente non aperti e non cucinati, in balìa degli insettini della dispensa, riusciti a penetrare nella dura plastica dopo mesi di operosità.
Non sono del tutto convinta dei saponi, le cui diciture potrebbero significare qualsiasi cosa, ma vado a senso guardando il design della confezione. Alle brutte utilizzerò il sapone per i piatti come shampoo. Riesco a trovare più o meno tutto, tranne due cosucce irrilevanti: acqua e disinfettante, che poi sono proprio le uniche due cose che dovrebbero mettere all’ingresso, anzi già dal parcheggio, con tanto di campioni omaggio.
Perdo buona parte della giovinezza alla cassa. Qui sono di una lentezza immane, le commesse si rigirano piano piano ogni articolo neanche dovessero pesarlo a mano e, per di più, c’è un addetto alle buste, che ripone con calma ogni cosa nel suo dovuto sacchetto, per poi sistemarlo in sacchetti via via più grandi tipo matrioske. Dico solo che una bustina è andata via solo per la bottiglietta di tè. Nel frattempo mi guardo in giro e vedo acquisti che non esistono: ‘sacchetti’ di olio di semi, buste colme di uova (qua si pescano sfuse dalle ceste) e ortaggi mai visti in vita mia (tipo un mostro fucsia e verde dalla forma sferica).
Torno al parcheggio e mi prende un colpo: il motorino non è più al suo posto. Comincio a provare ad inserire la chiave in tutti quelli simili (pensando che date le circostanze dovrò scrivermi la targa) finché, dopo due o tre, lo azzecco. Ho un futuro da scassinatrice. Poi dovrò capire come hanno fatto a spostarlo, ma soprattutto perché. Incastro tipo tetris la mole di acquisti che mi arriva fino allo sterno e riparto. Arrivo indenne, liscia liscia, niente scene di panico né girotondi intorno alla foresta.
Level 2 completed.
Ore 23.00
Un’ora dopo esser tornata dallo shopping, non sapendo che fare, prendo e vado al Ramayana Ballet – cioè lo spettacolo di danza tradizionale basato sulle vicende dell’omonima epica indiana – recuperato da una pagina internet di eventi a Yogyakarta. Inutile specificare che si tratta della cosa più turistica possibile, da vergognarsi solo al pensiero, ma non avevo alternative valide.
Si tratta di uno spettacolo chiaramente per stranieri e difatti c’erano quasi solo questi ad assistere. Anche i prezzi della cena erano decisamente proporzionati allo standard di pubblico. Comunque, con la conversione in euro non c’era da sconcertarsi più di tanto, però erano su un altro pianeta rispetto alle miserie che ho pagato in questi giorni. Per i locali sarebbe l’equivalente di una serata all’Opera, credo. Al ristorante del posto c’erano persino i coltelli. Il buffet era sterminato, anche se ormai comincio a capire quali sono le cose degne di nota e quali evitare. Il menu indonesiano alla fin fine è sempre quello. Ci danno anche dolcetti e bottigliette d’acqua per assistere allo spettacolo.
La performance è suggestiva, anche se si notava che i ballerini ne avevano fin sopra i copricapi dorati di ripetere la stessa cosa tutte le sere davanti a signore semiaddormentate, gente che sghignazzava e flash negli occhi. Anche i suonatori dell’orchestra gamelan, posizionati sotto una tettoia alla destra del palco, erano mezzi addormentati. Hanno suonato bene nonostante ciò, mi sono chiesta come (più avanti ci farò l’abitudine).
Le cantanti erano particolarmente brave anche se non riesco a capire se questo tipo di canto mi piaccia o meno. Ho notato che utilizzano una tecnica particolare, del tutto diversa dai canoni di canto occidentale, che devo tentare di capire. Mi imbucherò a qualche corso all’ISI.
Spoiler: questa la mia primissima impressione sulle sindhen, che diventeranno il mio argomento di tesi di dottorato, il mio mestiere, nonché la mia ragione di vita negli anni a venire.
Ho fatto foto su foto in modo molesto (a un certo punto mi sono alzata e sono andata vicino ai suonatori che invece erano snobbati da tutti, dando come al solito spettacolo più dello spettacolo stesso). Quando alla fine il pubblico ha cominciato ad andare sul palco e a volersi fare le foto coi ballerini mi sono rifiutata e sono risalita in sella al motorino. In pratica avevo una repulsione magnetica naturale per quello che faceva il resto della gente. Dicesi snobismo da nazi-etnomusicologo. Era qualcosa che avrei dovuto vedere, ad ogni modo.
Domani inizio il corso di Bahasa Indonesia, per lo meno potrò cominciare ad imbucarmi a qualche performance più locale.