«“Sempre il mare, uomo libero, amerai!
Perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
Nell’infinito svolgersi dell’onda
L’anima tua, e un abisso è il tuo spirito
Non meno amaro […].
Homme libre, toujours tu chériras la mer!
La me rest ton miroir; tu contemple ton âme
Dans le déroulement infini de sa lame,
Et tn esprit n’èst pas un gouffre moins amer
[…]».
(C. Baudelaire, Le Fleur du Mal, L’Homme et la Mer)
29 dicembre 2013
Gili Trawangan
Posto veranda (il mio nuovo ‘ufficio’)
Un gallo ‘scarico’ ci dà il buon giorno ‘nitrendo’ fino ad esaurimento scorte polmonari.
È incredibile, risparmiano anche su questo.
La colazione si svolge come di consueto: oleosi pancake alla banana, burro al toast, marmellata chimica e caffè amarissimo contorniato di sorrisi, premure e tentativi di dialogo in varie lingue tranne quella giusta, da parte del proprietario tuttofare.
Ci rechiamo al nostro Diving Center, pronte per le immersioni. Stavolta vado anche io, dopo il quarto d’ora di test (che a quanto ho capito passerò a priori, alla faccia della nottata buttata sulla fisica e la biologia marina).
Saliamo assieme all’istruttore e agli altri compagni di immersione sulla barca che è un indicibile macinino in ferro, ma non mi importa nulla, sono eccitatissima.
La mia prima immersione.
Arrivati al Manta Point, ci tuffiamo dal bordo della barca con una capovolta all’indietro e siamo immerse nell’acqua cristallina. Rimaniamo un’oretta a vagare per le meraviglie marine: coralli, spugne, tartarughe marine, pesci coloratissimi di ogni genere, forma e colore.
Tutto, tranne le mante.
Potevano chiamarlo in qualsiasi altro modo, hanno scelto l’unico esemplare assente.
Fra vede persino gli squali, dal basso dei suoi venti metri, io me li sono evitati, dato che per ora ho il limite da Scuba a 12 (che è già tanto, dato che non ho fatto assolutamente nulla per ottenerlo), ma ci arriveremo.
Riemerse senza danni e con gli occhi a cuore, decidiamo di recarci ad un chioschetto di soto ayam, (la solita zuppa di pollo e intestini galleggianti) scoperto il pomeriggio prima a ‘merenda’.
Questa si rivela la più buona zuppa di pollo mai provata. Niente scarti di interiora, niente residui di fogliame non classificabili nel regno vegetale (dopo la nottata di biologia mi sento un’esperta), tutto perfettamente ‘riconoscibile’, gustoso e leggero. L’unica cosa pesante è il prezzo: ventimila rupie. Se penso che a Yogya con 6.000 rupie ci fai pure il bis voglio piangere. Mi conforta, se non altro, sentire la signora del banco dire lo stesso prezzo in indonesiano ad un locale.
Ti rapinano, ma in pieno spirito socialista ed egualitario.
La seconda immersione, quella pomeridiana, è ancora più spettacolare della prima. Vedo un enorme pesce palla, una disgustosa murena, innumerevoli paguri e conchiglie dalle dimensioni imponenti. Coralli giganti di ogni genere sono attaccati all’imponente parete digradante verso il profondo blu dell’oceano, che dà il nome a questo spot: Meno Wall. Siamo nel territorio dei vicini di casa, Meno, e mi sa che il Derby stavolta lo vincono loro.
Vedo anche due enormi tartarughe marine: una dormiente, l’altra intenta a scavare tra i coralli. Ci passo davvero vicino, la mia faccia è a due centimetri di distanza dal suo guscio. Sono rapita da tutto ciò che ho intorno, vorrei aere altri trenta occhi.
Mentre io e la mia istruttrice Mary, siamo intente a scrutare un’anemone popolata da simpatici pesci pagliaccio (Nemo) accade qualcosa. Mary comincia a nuotare velocemente per allontanarsi dalla parete, facendomi cenno di seguirla. Non capisco ma ovviamente la seguo. Una volta in superficie, mi spiega: un ‘balestra titano’, nel pieno della sua aggressività, era a pochi centimetri da noi.
Ho rischiato di farmi far fuori alla seconda immersione.
“È raro” – mi dice – “Ne ho visti solo due in vita mia in questo stato di aggressività, in migliaia di immersioni”.
Avrà percepito l’irresistibile forza attrattiva del mio karma.
Mentre sbrigo le ultime faccende burocratiche al Diving Center per ottenere il brevetto, Fra si avvia alla homestay a fare la doccia “per guadagnare tempo”.
Poco dopo, metto piede in giardino e la trovo in veranda, ancora coi stessi vestiti e con la faccia notevolmente spazientita.
Chiedo cosa sia successo.
“Non noti niente di strano?” mi dice mostrandomi i capelli.
Noto che sono insaponati.
C’è qualcosa che mi sfugge.
“Non c’è acqua”.
Perfetto.
“Vado a vedere se il tizio è nel suo ufficio”.
La vedo sparire dietro al separé di bambù che divide le camere degli ospiti dall’ “ufficio”.
Torna poco dopo coi capelli fradici.
“Dove li hai lavati?”.
“Al pozzo”.
Mi indica la via.
Al che, con tutta la buona disposizione d’animo che riesco a racimolare, acchiappo le ‘bustine’ di shampoo e balsamo (qua li vendono così) e varco le canne di bambù verso l’ignoto.
Davanti a me si apre uno spettacolo suggestivo.
A sinistra una capanna. Forse adibita a ripostiglio o dependance, vai a capire.
O forse è l’ ‘ufficio’.
Davanti a me, quella che ad intuito si direbbe la cucina: piano in cemento coperto da cataste di stoviglie da lavare (spero), secchi di plastica, rifiuti alimentari e oggetti poco chiari disseminati qua e là. E a destra c’è lui: un rubinetto altezza ginocchio, fuoriuscente da un muro ricoperto di muschi e muffe.
La doccia.
Mi ficco con tutta la suite da nuoto sotto quell’affare e aprendo coi denti le varie bustine mi ‘godo’ questo momento di gloria.
La prossima volta pretendo l’Hilton.
Fresche come due gelsomini giavanesi, decidiamo di dar fondo alle ultime energie con un tour in bici attorno l’isola.
Non senza prima farmi un dialogo interiore con la voce dell’infermiera che ormai vive in me.
Affittiamo i primi due catorci che ci propina il tizio della baracca di fronte, per sole 25.000 rupie ciascuna e montiamo in sella. Ma la sella si sposta.
Mi tengo al manubrio, evidentemente privo di viti, che si gira dalla parte opposta.
Non sapendo più che fare, faccio l’unica cosa che mi viene in mente: freno. Non frena.
O meglio, frena solo la parte posteriore. Mi improvviso momentaneamente meccanico, dopo di che, continuando il dialogo nella mia mente lasciato in sospeso, seguo Fra nella natura selvaggia ripetendomi tipo mantra: “Don’t push yourself”.
Riusciamo a ritrovare il sentiero (o quel che ne rimaneva tra i vari ostacoli) che aveva preso il carretto il giorno prima e ci facciamo finalmente il nostro ‘etno-tour’.
Visitiamo diversi agglomerati abitativi tra le palme, tra donne e bambini intenti a sbucciare noci di cocco tra gli allevamenti di mucche e polli e ci immergiamo nel silenzio e nei rumori di uno spaccato di vita vera, senza insegne al neon e pacchetti vacanza. Innumerevoli ossa incrinate dopo, risbuchiamo sulla via costiera, dal lato opposto dell’isola. Dunque, combattiamo con ogni sorta di intralcio (tra cui un’arrampicata sugli scogli a picco su una spiaggia, con tutta la bici) per tornare alla nostra via e riconsegnare quegli aratri a due ruote.
Conveniamo che forse è ora di smetterla.
Parte l’ora di relax in spiaggia con narghilè.
Quando i morsi della fame cominciano ad attanagliarci, ci rechiamo al nostro caro mercato. Ordiniamo un gigantesco pesce alla griglia, vongole veraci e un piattone di verdure miste a tempe, jackfruit (ribattezzato ‘carciofo indonesiano’ da Fra) il tutto coperto da quantità impietose di piccante. Accompagno tutto con un succo di mango dall’uomo del chiosco ‘di fiducia’.
Dopo un quarto d’ora di attesa, non vedendo il mio succo, comincio a preoccuparmi. Vedendo il tizio appoggiato beatamente addosso a un palo intento a far nulla, decido di andare a sollecitare. Dice che si era scordato.
Gli faccio notare che ero l’unica cliente.
Dopo due minuti arriva col succo di mango e una fetta di anguria in omaggio. In qualche modo riescono sempre a farsi perdonare.
Prima di andarcene compriamo un altro box di dolci a sorpresa per il nostro appuntamento serale con la rubrica ‘orrori da gustare’. Decidiamo di fare una passeggiata per digerire la più che generosa cena.
Al terzo carretto che ci punta a tutta velocità rinunciamo e torniamo indietro.
Ci gustiamo il cofanetto di delizie per scoprire che si tratta sempre degli stessi tre ingredienti combinati in forme ingannevoli (cocco, zucchero, pandan) e crolliamo a peso morto sul nostro ‘macigno’, pregando di fare la giusta combinazione coi dadi di Jumanji al nostro risveglio.