«È giusto che i cacciatori di teste rinuncino ai loro pur macabri riti per dedicarsi a quello più innocuo, ma ugualmente disumano, di passare ore e ore davanti a una scatola delle illusioni, chiamata televisore? È giusto che la luce calda e intima dei lumini a olio venga sostituita da quella piatta e bluastra dei tubi al neon? Che lo struggente tintinnare dei campanelli mossi dalla brezza del tramonto in cima a una pagoda venga soffocato dall’urlio di una discoteca appena aperta sulle sponde di un lago, dove i sacchetti di plastica e le lattine vuote della birra importata già galleggiano sconciamente sulla splendida distesa dei fiori di loto?».
(Tiziano Terzani, Un indovino mi disse)
Indonesia, 27 novembre 2019
Gli spiriti delle pagode
La seconda giornata è teatro di strani accadimenti e spiritualità.
Le nostre mete sono il tempio cinese Sam Pho Kong e la Pagoda Avalokitesvara.
Ma il primo evento straordinario della giornata è un altro: perdiamo le chiavi del motorino.
Entriamo in panico. Non si trovano in nessun posto, non sono in camera, né in camere altrui, né nel cucinino o sul terrazzo. Passiamo due ore di disperazione e alla fine siamo costretti ad andare con la coda tra le gambe dalla ibu kos, che ci rimanda indietro con il mazzo di chiavi e un cazziatone sull’invito di ospiti non consentito. Garantiamo che schioderemo entro il tardo pomeriggio.
Pare le avessimo lasciate attaccate al motorino, cosa che sinceramente nessuno di noi ricorda. Il punto è che non ricordiamo neanche di aver preso il motorino.
Una strana sensazione comincia a pervadere tutti e tre – me, Nisa e Ali – ma nessuno sente di voler esternare nulla, al momento.
Mentre Ali si dirige al lavoro – in una scuola di musica locale in cui insegna la viola – con ben due ore di ritardo, io e Nisa abbiamo ancora parecchie ore per il nostro secondo giro turistico.
Oggi facciamo pellegrinaggi spirituali.
Il Sam Pho Kong è un enorme tempio cinese, uno dei più grandi che abbia visto finora in Indonesia e anche il più turistico. Si paga. Ci sono due tariffe: solo giardino o visita completa. Ho capito che in Indonesia qualsiasi cosa, se è cattolico o cinese, si paga.
Tagliamo la testa al toro e prendiamo la visita completa, già che siamo arrivate fin qui. Che comunque completa non è, dato che alcune aree sono riservate strettamente a chi va a fare offerte, pregare o consultare indovini.
È così che decido di consultare un indovino cinese per la prima volta in vita mia. Sono già stata da diversi orang pintar (“uomini saggi”) giavanesi per altre questioni in passato, ma mai mi sono fatta leggere il futuro in un tempio. Anche questo, puoi farlo a Semarang.
Ci addentriamo in uno dei padiglioni adornati di fiori e pendagli con scritte cinesi, di quelli chiusi al pubblico, e veniamo subito bloccate da un sorvegliante. Gli diciamo che vogliamo in contrare l’indovino. Il tipo ci scorta in un angolo nascosto del padiglione, dove un vecchino dai tratti cinesi è intento a sistemare incensi su un altare. Il sorvegliante gli dice qualcosa e ci molla lì.
Dopo un po’ che il vecchino continua a farsi i fatti suoi senza degnarci di uno sguardo, tentiamo di catturare la sua attenzione con tutto il tatto giavanese possibile. Lui, di contro, ci blatera qualcosa con meno tatto di quanto ci si aspetti da una persona della sua carica spirituale e continua a farsi i fatti suoi.
Dopo un po’ forse capisce che non intendiamo schiodare facilmente e ci chiede cosa ci serve. Gli dico che voglio che mi legga il futuro. Sempre col minor tatto possibile, mi dice che se non gli faccio domande precise è inutile, non funziona così. Gli faccio due domande che mi vengono in mente lì al momento e lui, ancora visibilmente scocciato, ci dice di seguirlo in silenzio senza fare foto. Io vorrei girarci un film intero, ma lascio correre.
Lo vediamo entrare in un edificio situato nel retro del tempio e siamo indecise se entrare o no a nostra volta. Poi lo vediamo che ci fa cenno con espressioni facciali spazientite – che tradotte direbbero qualcosa tipo: “Che cosa stanno aspettando queste cretine?” – ed entriamo anche noi scansando le pesanti porte a vetri.
L’ambiente interno è pieno di oggetti che sembrano costosissimi, vasi, incensieri, dipinti, statue di divinità cinesi che ignoro, e di fronte a noi un ampio altare illuminato.
Ad un angolo della sala c’è una fontana da cui scorre dell’acqua, con alcune bottigliette posizionate vicino al bordo. L’indovino prende due bottigliette e le riempie, poi dice di bere quell’acqua, immagino come una sorta di purificazione.
Si inginocchia quindi davanti all’altare, noi ci inginocchiamo accanto a lui, nel dubbio. Non sappiamo esattamente che fare, lui non ci dà indicazioni ma continua a fare quello che è evidentemente abituato a fare di routine senza troppi complimenti. Si mette a dire alcune preghiere, all’inizio riconosco qualche parola in giavanese, poi non capisco più.
Siamo in un tempio buddhista a pregare divinità cinesi in giavanese, senza avere la minima cognizione di chi e cosa pregare, ma soprattutto come.
Ad un certo punto l’indovino si rende conto che ci siamo anche noi e ci dice di pregare. Gli chiedo chi, come, cosa? Dice qualsiasi preghiera conosciamo, di qualsiasi religione, basta che la sentiamo.
Io ho notevoli problemi con la religione. Nel senso, ho un’enorme spiritualità, rispetto e prego divinità di ogni latitudine, cultura e religione, purché qualcuno mi spieghi come. E non lo faccio solo per provare, in qualche modo riesco a sentire davvero ciò che faccio in quel momento, ci credo. Ma quando mi dicono di dire una preghiera a piacere sono abbastanza confusa. Ho ricevuto un’educazione cattolica fino alle scuole medie, ma ho provato talmente tanti culti in vita mia che non so quale scegliere. Opto comunque per un’Ave Maria, è l’unica che ricordo a memoria.
Quindi, ricapitolando, recito Ave Marie in un tempio cinese con un indovino che prega in giavanese. Nisa probabilmente dirà qualche preghiera islamica, lei è musulmana.
Tutto ciò è pazzesco.
Dopo un po’ l’indovino prende un vasetto pieno di bastoncini di legno, questi li conosco, sono i Kau Cim, li ho visti in un sacco di manga e cartoni animati. Ci dice di sceglierne due ciascuno. Io ne pesco due con i numeri 13 e 28 scritti sia in alfabeto cinese che a numero.
A quel punto ci fa alzare e si mette ad armeggiare vicino all’altare. Mentre raggiungiamo l’uscita, un uomo entra spensierato e si mette a raccogliere acqua dalla fontana, se ne fa qualche bella bottiglia piena. L’indovino, che improvvisamente ha cambiato faccia, ed è ridiventato pienamente giavanese, cordiale e sorridente, ci spiega che molta gente viene qui a prendere l’acqua benedetta dalla fonte. Ovviamente sono fedeli abitudinari che elargiscono generose offerte al tempio.
Quando siamo di nuovo fuori nel padiglione ci sediamo su dei gradini e l’indovino ci dà dei foglietti con su scritte delle profezie in rosso, in versione cinese e indonesiana fronte-retro, con alcuni disegnini illustrativi. Quindi spiega ad ognuna quello che ha visto e il significato delle profezie che ci sono capitate, o meglio, che abbiamo scelto noi stesse selezionando i bastoncini numerati.
Da che era scorbutico e silenzioso diventa il nostro migliore amico. Sembra di parlare con un compagno di sempre che conosce ogni piega della mia personalità ed è a conoscenza di ogni mio avvenimento passato, sono stupita.
Spiega cosa devo fare d’ora in poi se voglio che i miei obiettivi siano raggiunti, cosa che comunque non sarà possibile prima di un anno. Mi concede anche una piccola indiscrezione sulla vita sentimentale, un bonus extra, che forse avrei preferito non sapere. Mi dice di scordarmi anche quella per almeno un anno. Insomma, quest’anno il destino mi concederà l’occasione di lavorare su cose passate e portarle a termine prima di raggiungere gli obiettivi futuri, ma devo impegnarmi a concludere qualcosa o rimarrò sempre bloccata.
A distanza di alcuni mesi, dopo l’esperienza della quarantena a causa del Covid19 e di alcuni progetti su cui ho cominciato a lavorare non avendo altro da fare, comincio a realizzare che la sua profezia si sta realizzando. Chissà se otterrò qualche risultato, dovrò attendere la fine dell’anno per saperlo.
Ci avviamo verso l’uscita super motivate e in pace col mondo. Mentre noi usciamo, famiglie di cinesi indonesiani entrano carichi di buste di incensi, tè, fiori e cibi da porgere in offerta alle divinità custodite sugli altari preclusi ai turisti.
“Ibadah”, afferma Nisa. È l’ora della preghiera.
Noi ci sentiamo abbastanza soddisfatte delle nostre, per quanto strambe. Abbiamo mescolato tre o quattro religioni in pochi minuti ma abbiamo capito che fare delle nostre vite.
Per lo meno fino al prossimo anno.
Dopo questa esperienza singolare siamo più che motivate a visitare l’altro grande tempio, la pagoda di Avalokitesvara.
La pagoda di Avalokitesvara è il posto più bello di Semarang.
È a mezz’ora di motorino da tutto. Tutto è a minimo mezz’ora di motorino da tutto. Quando torneremo Yogya ci sembrerà un buco.
Ci facciamo un bel po’ di strada, è quasi dall’altra parte della città. Le strade sono ampie e a scorrimento rapido, niente “cose” che ti attraversano la strada a tradimento, file di ville ed eleganti edifici misti a colline verdi sfilano ai nostri lati nei quartieri più ricchi. Davvero, io mi sento sempre meno in Indonesia.
Parcheggiamo in un piazzale deserto e credo incustodito e ci avviamo verso la pagoda che svetta maestosa su una collinetta. È tutto un saliscendi.
Il sito della pagoda è deserto ed è gratis. Non ci rompono neanche le scatole per il parcheggio.
La pagoda è bellissima, si estende su più livelli nella sua elegante architettura, piena di colori vivaci, rosso, giallo, verde, oro, luci, lucine, scalini, statue, colonne, animali guardiani, incensi, candele di ogni misura. Potremmo essere ovunque, il Thailandia, Myanmar, Cambogia, coi Buddha in piedi, seduti, sdraiati, medita, loto e via (vedi Altro Giro, Altra Corsa). Potremmo essere ovunque, nel Sudest asiatico continentale, tranne che a Giava.
È qui che realizzo davvero che Semarang non è una città giavanese, è una metropoli Sudest asiatica. È unica in Indonesia. Persino Giacarta, con le sue banche e multinazionali, con le sue fabbriche inquinanti e hotel per diplomatici con le piscine sui roof-top risulta limitatamente provinciale in confronto. È come un contadino arricchito trasferitosi in città e corrottosi dai suoi usi e costumi. Semarang sembra invece un cittadino del mondo che non ha mai conosciuto una patria fissa. È attiva, globale, aperta e proiettata all’esterno, è multietnica e multicentrica.
Accendiamo incensi, si pagano ad offerta, tutto si paga ad offerta, non c’è interazione coi venditori, non ci sono venditori, solo ragazzetti lì a fare la guardia armeggiando con gli smartphones.
Persino le bibite si pagano ad offerta, prendendole da un frigo.
Mi rivendo tutto quello che ho imparato nelle pagode sudest asiatiche negli scorsi viaggi e mi sento un sacco competente, anche se in realtà come al solito ho una confusione di divinità, lingue e culture addosso. Ma è la spiritualità che conta, e in questo posto davvero non manca.
Ti senti devoto già dal primo gradino, non sai a chi, ma sei devoto.
Anche qui ci sono Buddha giganti seduti in piedi, sdraiati (e via tutta la filastrocca) ma qui sono contorniati da divinità cinesi.
L’atmosfera è magnifica, silenziosa e pacifica, col fresco della sera e qualche luce che comincia a fare chiarezza sul crepuscolo imminente. Non ce ne andremmo più.
Quando è evidentemente buio sappiamo che dovremmo andarcene ma non vogliamo rassegnarci all’idea. Quindi ci faremo un giro parte moderna del complesso, e via con altri incensi, inchini e mani giunte.
Siamo tentate di iscriverci al corso di meditazione che fanno ogni venerdì. Rimarremmo qui per sempre.
Il nostro angolo sicuro in un ritaglio di tempo, un altro nowhere più bello del mondo che si aggiunge alla collezione.
Finalmente si fa notte e si illumina tutto, tutto è uno spettacolo.
Semarang ci piace. Già la sentiamo nostra, già non ce ne andremmo più.
Ed in effetti c’è qualcosa che ce lo impedisce.
La strada di casa: non sei sola
A Semarang non ci sono vie di mezzo: enormi superstrade con truck di ogni sorta o stradine tortuose tra le foreste a picco su qualche burrone.
Ma la cosa peggiore è che di tutte le strade che ci sono per tornare a Yogyakarta, tre ore in linea d’aria sempre dritto più a sud, noi non riusciamo a prendere quella giusta. È come se qualcosa ce lo impedisse.
Dopo la faccenda delle chiavi e gli sprazzi di pioggia brevi ed improvvisi che ci costringono a rimandare la partenza, ci si mette il navigatore. Letteralmente impazzito, continua a volerci far fare inversioni a U e prendere direzioni opposte da quelle che portano a Yogya.
Dopo aver passato il bivio che divideva chiaramente YOGYAKARTA e SEMARANG per mezzo di evidenti segnalazioni stradali, continuando ad andare dritte senza un apparente motivo, ci ritroviamo disperse da qualche parte in una strada buia tra rigogliosa vegetazione.
Intravediamo una macchina della polizia ferma ad un lato della strada, come un miraggio in un film Lynchiano e ci fermiamo a chiedere informazioni. Tutto quello che otteniamo è un invito a trascorrere la notte presso la loro centrale, a Semarang!
È incredibile, non riusciamo ad uscirne.
Contro ogni buonsenso, continuiamo a vagare per boschi, con il navigatore che continua ad intimarci di tornare a Semarang e non un’anima in giro a cui chiedere. Ad un certo punto spegniamo il navigatore e andiamo a senso. Finiamo nel bel mezzo della zona montuosa di Ambarawa, tra fredda scura boscaglia e sensazioni spiacevoli addosso.
Nisa mi incita a parlare o cantare, non le piace che rimaniamo nel totale silenzio. Io non riesco ad intrattenere un granché, sono infreddolita e spaventata, oltre che stanca. Guidiamo da tre ore senza meta, anche dandoci il cambio ogni tot chilometri la situazione non migliora.
Quando cominciamo ad intravedere tracce di abitazioni e warung tiriamo un sospiro di sollievo, la strada comincia a scendere verso la pianura e torna qualche sporadico lampione.
Alle tre di notte sbuchiamo su quella che ha tutta l’aria di essere Jalan Magelang e i cuori tornano a battere ad un ritmo regolare. Eravamo partite alle 22.00. Cinque ore di safari tra i boschi.
Ci fermiamo ad un Indomaret a lato strada a riprendere fiato. Mentre siamo sedute al tavolino in metallo a bordo carreggiata a consumare bevande calde e snack, Nisa mi informa: “Devo dirti una cosa, te la volevo dire da prima, ma ho preferito aspettare di essere in un luogo sicuro, per non farti preoccupare”. Le chiedo di cosa si tratti. “C’è qualcosa che ci segue, da Semarang, lo percepisco”.
Mi dà la mazzata finale. Ora non sono solo infreddolita, stanca ed impaurita, ma anche preoccupata. Non sono una persona superstiziosa, ma quando succede qualcosa di “poco chiaro” a Giava comincio a cadere nel vortice di paranormale incoraggiato da ogni persona a cui chieda aiuto sperando in spiegazioni logiche.
Imbocco Jalan Magelang al massimo della velocità raggiungibile con un Vario 125 e punto verso casa di Nisa, riuscendo a sbagliare anche l’uscita su Pasar Sleman (il mercato tradizionale).
Non abbiamo il coraggio di dormire in stanze separate, dunque gettiamo i materassi in salone e crolliamo esauste.
Realizziamo di non aver portato nulla con noi, non cibi tipici, souvenir, stoffe, calamite, manufatti. In realtà, pare che qualcosa abbiamo riportato da Semarang, qualcosa che è più tipico di ogni snack fritto e tessuto dipinto.
Ci siamo riportate indietro Semarang stessa, con tutti i suoi fantasmi.
Epilogo: Ruwat
Nei giorni seguenti al mio ritorno da Semarang si sono continuate a verificare altre strane coincidenze, tipo frequenti blackout e altri tipici accadimenti random che per i giavanesi sono inequivocabili segni di infestazioni di presenze soprannaturali.
Quindi, come sempre accade in questi casi da quando vivo a Giava, decido di consultare un orang pintar, su consiglio di un amico.
A questo basta una mia foto recente e il resoconto degli ultimi luoghi visitati per elaborare il verdetto: non c’è dubbio, qualcuno mi segue. Più di qualcuno, a dir la verità. Dalla foto risulta evidente come il mio senso di spossatezza degli ultimi giorni non sia dovuto alle ore di guida al freddo, né alle camminate sui saliscendi. La mia colonna vertebrale non è appesantita dalle mie emicranie, ma di quelle di un intero reggimento: venti soldati olandesi compaiono – secondo lo sciamano – accanto a me nella foto.
Ma non tutti interi, solo le loro teste.
In pratica, sono tornata da Semarang con venti teste di soldati olandesi trucidati a carico.
Non so se credere a questa storia, ma mi mette abbastanza inquietudine, dunque, nel dubbio, chiedo il da farsi.
Mi consigliano di contattare un altro sciamano, in realtà un dalang (marionettista) del kraton (palazzo reale) di Yogyakarta, esperto in ruwat, “esorcismi”.
Ci rechiamo (me, accompagnatrice e teste) una mattina presto presso l’abitazione del marionettista-sciamano nella sua casa sulle montagne di Imogiri, qualche chilometro fuori Yogyakarta.
Dopo aver svolto i soliti cerimonialismi giavanesi – accoglienza da tutti i membri familiari che vivono nella stessa abitazione, profferte di tè al gelsomino e snack frittissimi e dolcissimi da parte delle donne di casa e chiacchierate tra zaffate di sigarette ai chiodi di garofano – andiamo “dritti al punto”.
Gli rispiego tutta la storia di Semarang, dei peregrinaggi in motorino attraverso le foreste di Ambarawa, delle teste e compagnia bella. Mi fa scrivere il mio nome e il nome del posto infestato, Lawang Sewu, su un foglietto e poi va a prepararsi in una stanza sul retro.
Io e la mia accompagnatrice lo seguiamo e attendiamo pazienti su una panca di bambù, mentre lui appronta il “set” dell’esorcismo.
Quando tutto è pronto – un telo bianco steso a terra con vaschette di piante e fiori cerimoniali, pugnali tradizionali (keris), incensi e libretti di preghiera – mi dice di sedermi in ginocchio davanti a lui, faccia rivolta verso le offerte. Sento che comincia ad intonare un misto di mantra giavanesi e preghiere musulmane e tento di concentrarmi sulle mie mani giunte e sul forte aroma d’incenso. Poi mi dice di pregare a mia volta. Ci risiamo. Ricomincio con le Ave Marie.
Ricapitolando: uno sciamano sta operando su di me un esorcismo animista con mantra giavanesi e preghiere musulmane mentre io recito Ave Marie, dato che sono infestata di fantasmi coloniali provenienti da un luogo in cui un indovino cinese mi ha fatto la profezia in un tempio buddhista.
Che non si dica che a Giava non c’è più sincretismo!
Insomma dopo un bel po’ di preghiere e sensazioni non bene identificate – come del resto il lasso di tempo. Quanto è passato? Dieci minuti? Un’ora? – mi dice che l’esorcismo è finito.
Ora devo andare a farmi un bagno rituale con l’acqua in cui sono stati ammollo i fiori di gelsomino, e sono pulita.
Faccio subito come dice ed in effetti ne esco un po’ più leggera.
Non so se sia un effetto di sollievo per essermi lavata via la calura, l’ansia, le preoccupazioni, le superstizioni, tutte le ultime vicende… o se davvero mi sono liberata di venti teste di soldati olandesi.
Sicuramente di qualcosa non mi libererò mai più: del ricordo di Semarang e dei suoi luoghi infestati, che convivono a braccetto con i centri di cultura cosmopolita e dei traffici internazionali. Ma anche dei suoi non-luoghi, dei miscugli micidiali e di quella sensazione pan-sudest asiatica che non ti aspetteresti mai di trovare a sole tre ore – cinque con fantasmi a carico – da Yogyakarta.
Anche i fantasmi di Semarang sono non-fantasmi, sono sprazzi impressionistici di sensazioni e ricordi che ti porti dietro e di cui riesci a liberarti solo una volta che ci hai fatto davvero i conti, ma mai perdendoli totalmente di vista.
Per capire Semarang devi capire prima il passato e poi portartelo appresso come un impermeabile per fare il tuo ingresso nel presente e avanzare nel futuro, come consigliava l’indovino sino-giavanese.
Tutto ciò che viene da Semarang conserva comunque un posto d’onore nella memoria individuale del visitatore ed in quella del popolo giavanese.
Semarang stessa è memoria, nostalgia, fantasmi dal passato in corsa per trovare il loro posto nel futuro. È trovare una collocazione a tutto, da ogni era e latitudine, ma in modo ordinato e organizzato, è dove anche il caso ha una sua logica. In questo Semarang è la Giava del futuro. Perché riesce a convivere in un caos perfettamente ordinato, perché riesce a convivere coi suoi fantasmi passati, non rinunciando al pragmatismo presente. Semarang è la storia vissuta in prima persona senza bisogno di aprire un libro, la storia esperita attraverso singole sensazioni e manifestazioni, in prima persona.
Andarsene da Semarang è impossibile, non tanto fisicamente quanto mentalmente. Anche a distanza di mesi è ancora lì, esattamente dove l’avevo lasciata nella mia mente. Posso andare a ripescare le stesse impressioni, gli tessi ricordi, gli stessi fantasmi.
E non c’è esorcismo che tenga.
The End?