Fantasmi da Semarang

PARTE I: Il palazzo dalle mille porte

«Un tempo, le potenze coloniali mandavano i missionari in avanscoperta nei territori che intendevano conquistare. Oggi i nuovi colonialisti dell’Asia, uomini d’affari senza bandiera e con vari passaporti, mandano avanti i turisti».

(Tiziano Terzani, Un indovino mi disse)

Indonesia, 26 novembre 2019

Prologo

Alle otto di sera di un caldissimo giorno di metà novembre, ci viene in mente di partire per Semarang.
Così, senza un vero scopo preciso. Una gita tra ragazze in una città nuova, non troppo distante da Yogyakarta. Siamo io e Nisa, la mia coinquilina e migliore amica.
Siamo due disastri ambulanti, pigre, sbadate, scapestrate, male organizzate. Abbiamo un motorino carico di borse stile carovana di gipsy del sud della Francia, scorte di indomie (noodles istantanei) e caffè per affrontare le tre ore che ci separano da Semarang, e nessuna cognizione di dove stiamo andando e perché.


Partiamo di notte, senza avere effettivamente un percorso stradario definito, ma con l’idea che comunque se prendi Jalan Magelang e te la fai tutta dritta verso nord prima o poi arrivi. Abbiamo anche l’ausilio di Google Map che sembra sceglierci le strade più a rischio tra maratone di mezzi pesanti e burroni.

Le strade giavanesi di notte sono piene di camion dai carichi ingombranti e clacson dai rumori inquietanti. Non hanno un suono standard, ognuno sbuca fuori con un verso mostruoso – alcuni hanno veri e propri jingle musicali – da dietro, quando meno te lo aspetti. E ti ritrovi due fari che ti sovrastano di almeno due spanne, un gigante col fiato sul collo, tu grosso quanto una sua ruota che non sai se buttarti a lato strada in qualche cespuglio – sperando che non ci sia un fosso dietro – o tentare il sorpasso del mezzo lento davanti a te, contromano, rischiando qualsiasi altra cosa ti sbuchi dall’altra parte.

Ma la strada per Semarang ha un’aggravante. Essendo una città portuale, uno dei maggiori centri del traffico marittimo indonesiano con Giacarta e Surabaya, la maggior parte dei camion cargo sono convogliati su quelle quattro strade che salgono su fino al suo centro.

I camion cargo sono i più pericolosi, non solo perché sono giganteschi e qualsiasi tentativo di fari, clacson o mosse per attirare l’attenzione risulta vano – sei come una formichina in un branco di pachidermi – ma anche perché spesso i conducenti si addormentano e vanno fuori strada o semplicemente non notano tutto ciò che è intorno a loro.

Questo per dire che comunque partivamo in condizioni di sicurezza.

Mentre facciamo lo slalom tra un camion e l’altro, Nisa mi avvisa che Semarang è la: “Jakarta di Jawa”. Cioè la Giacarta giavanese. A me questa cosa non piace per niente. Io odio Giacarta e tutto ciò che la caratterizza. Eccetto la musica kroncong. Quella la fanno bene a Giacarta.
Quindi in generale ho aspettative minime.

A circa metà del tragitto ci diamo il cambio, io mi metto alla guida e mi faccio il pezzo di foresta/lavori in corso/camion in sosta più camion che obiettivamente una sosta dovrebbero farsela. Ergo è l’inferno. Parte il gioco “supera il camion”. Chi ne supera di più senza morire e far morire la passeggera vince. Cento punti bonus se il mezzo ha un container e fa rumori strani.

Continuiamo così per circa due orette, a darci il cambio tra l’inferno e la morte nera tra buio, buche e crampi.

Un viaggio di piacere.

Arrivo a Semarang

In qualche punto tra una foresta, una montagna, un’altra foresta, una fila di camionisti che ci fissa e dei cantieri, decidiamo di fermarci per una sosta all’Alfamaret, una delle catene di minimarket aperte 24 ore.

Risaliamo in sella poco dopo. Siamo le uniche donne, di cui una straniera, oltre che le uniche su due ruote. Non so che ci ha detto il cervello sinceramente.

Appena entriamo nell’area urbana di Semarang Nisa mi spiega la modalità di guida locale: “Kamu semua” (“Sono tutti te”). Il che significa che vanno tutti veloci e sono facilmente irascibili. Ma significa anche che tutti hanno uno scopo e una destinazione e non si inchiodano in mezzo alla strada a 20Km/h come a Yogyakarta. È perché è una città di traffici e dogane, di immigrazione cinese e di opportunità lavorative. In pratica siamo a Milano.

Le aree suburbane della città sono un interessante saliscendi alla Bluevertigo su colline con belle vedute sulla città illuminata.

Ci fermiamo a mangiare ad un chioschetto. Tutto tace. Noi ci gustiamo zitte la zuppa di pollo (soto ayam) e gli spiedini di uova di quaglia (sate telor) aspettando che Ali – il ragazzo di Nisa trasferitosi da poco a Semarang per lavoro – ci venga a raccattare.


Il cibo è buono e la città a me già piace, mi sembra pulita e ordinata, nonostante gli avvertimenti della mia amica. C’è uno strano senso di apertura, pace ed equilibrio, che mi investe sin dal primo istante regalandomi quell’imprinting che ogni tanto mi nasce da primi incontri con città che poi rimangono nel mio cuore e nella mia vita. Prima tra tutte Yogyakarta. Che sia davvero un nuovo posto per me?

Semarang è una delle città più calde a Giava, ma c’è il vento fresco che soffia dalle montagne e dal mare. Quindi è anche piacevole, a meno che non dormiate in tre in un kos (sgabuzzino per studenti) di pochi metri quadri senza finestre né aria condizionata.
Che è esattamente dove abbiamo dormito noi.

Ti svegli in una sauna con la pelle più liscia di un neonato e 3 Kg in meno e ti vai a gettare addosso dell’acqua col colabrodo che pende dal secchio del bagno, che è effettivamente una sauna.
Cartelli minacciosi appesi ovunque nel kos ti fanno passare ogni fantasia. “Non gettare, non lasciare, non chiudere, non aprire, non ti azzardare”.
La mia amica non paga l’affitto da tre mesi e ci stiamo dormendo in tre col suo ragazzo, nonostante sia tecnicamente un dormitorio femminile.
“Non portare ragazzi. Non vivere. Cioè vivi, ma di meno che poi pare brutto”.


Esci su un terrazzino malmesso a picco su una distesa di palmizi, senza alcun parapetto (meno male che tra i divieti c’è quello di bere alcol) con la città in lontananza dietro ai panni maschili stesi abusivamente e quaranta gradi di disagio, e nasconditi dalla temibile ibu kos (l’arcigna guardiana del dormitorio).
Ma io ho comunque sempre la sensazione che questa città mi piaccia e non c’è disagio che tenga.

La città vecchia e i suoi fantasmi

Abbiamo una lista di mete turistiche e luoghi di interesse che fa invidia a Parigi. Come ho fatto a non venirci mai? È una delle città più importanti di Giava e forse dell’intera Indonesia. Potresti passare settimane solo a scandagliare tutte le attrazioni che offre.

Ma comunque la prima cosa, inevitabile, diretta, è la città vecchia, la kota lama, con i suoi scheletri e fantasmi coloniali.
Tra i vari edifici, lampioni, fontanelle, Cafè e musei a cielo aperto, sembra di stare davvero in Olanda. Potremmo essere tranquillamente a Leiden o Rotterdam.
Il teatro, il municipio, la chiesa, gli edifici governativi. Cabine telefoniche, bici, becak. È inevitabile scattare foto, da ogni angolazione, su ogni cornicione (ci sono i cornicioni, sono quasi commossa), davanti ad ogni portone, finestra, balcone (ci sono i balconi, voglio piangere).

Il mercato di anticaglie. Vecchi televisori, lampade ad olio, ceramiche, cartoline di Giava del tempo doeloe (del tempo “di prima”), cassette – vecchie hits come Hati yang luka (“cuore ferito”) – cappelli, monili, qualsiasi cosa sia stato rimestato nel pentolone del passato e ributtato sulla piazza con una patina di polvere e nostalgia.
È il pieno stile Semarang. Modernità, cosmopolitismo e nostalgia. Kebaya indonesiani dai motivi floreali come si usava “una volta”, musica giavanese su scale diatoniche – regalo delle chiese cristiane – architetture olandesi, templi cinesi e ricordi, ricordi, ricordi…

Una città che ogni volta che fa un passo avanti è come se sentisse la necessità di ricapitolare tutto il passato, senza lasciare nulla indietro. E avanti ci va e come, non solo a livello di economia. Sembra di essere già nel Sudest asiatico che ce l’ha fatta, da qualche parte lassù nel continente, ma la verità è che siamo ancora sulla costa nord di Giava, a pochi passi dalla realtà dei warung e delle case dai pannelli in rattan, dai rimedi erboristici locali e dalle innumerevoli ore di spettacoli locali carichi di cerimonialismi e superstizioni. Certo, anche quelle a Semarang non mancano. La verità è che qui non manca niente. È quella che Marc Augé definirebbe una città-mondo.

Il corso principale è delizioso. E soprattutto penso che sia la prima città indonesiana che abbia veramente un centro storico. A parte forse Yogyakarta con il suo palazzo reale e i vari Alun Alun (piazze principali) da cui si diparte il grande viale di Malioboro. Ma qui è diverso, è come essere su un set di un film in costume, in cui ci aggiriamo come comparse tra un mezzo di trasporto messo lì per far scena e un muro bianco con scritte aliene. Spiegel. Marba. Soesmans Kantoor.

Giriamo in una vietta secondaria semi-deserta. I lampioni sono una cosa che ti accompagna lungo tutta la tua camminata, non ti mollano mai. Sono graziosi e danno un senso di ordine. Anche qui, tutto è ordine. Anche il bianco degli edifici è un sospiro di sollievo, un riposo per gli occhi, soprattutto se vieni dalle facciate delle case giavanesi pitturate di verde brillante, viola, azzurro, rosa, arancio, senza alcun criterio.
Nel grande caos che è Giava, trovare qualcosa che magari ordinato davvero non è (almeno per gli standard occidentali) ma che almeno ti trasmette quella sensazione, è qualcosa di raro e gradevole per un visitatore straniero. Perché in fondo più ci allontaniamo più ricerchiamo le sicurezze di casa nostra.

In una delle vie più instagrammabili, un enorme albero ha piantato le sue radici in un muro di cinta e si è avvinghiato a finestrelle e mattoni. C’è la fila per le foto. Ovviamente.


Altre porte e finestre sprangate che celano chissà quali storie e segreti. Si accendono le luci. Le radici e le edere selvagge che cadono dalle tettoie decrepite acquistano un’importanza tutta loro, come le regine della scena, le primedonne della decadenza. Si riversano sui vecchi portoni, sui muri in mattoni sconnessi e sulle panchine con tettoie a forma di ombrello. Murales che raffigurano pittori immortalati nell’atto di spennellare il murales stesso. Tutto sempre in perfetta armonia scenica con le luci dei lampioni e dei neon, proprio come su un set.
Un vecchino siede nel suo becak a lato strada come una perfetta quinta teatrale. Altri becak e biciclette si intersecano ad angolo retto, come i motori non fossero mai esistiti.

La chiesa di Blenduk (o di Immanuel, a seconda di quanto ti senti post-colonialista) è un altro perfetto esempio di architettura coloniale e di sincretismo religioso.
Il sabato e la domenica si celebrano ancora funzioni secondo il rito ortodosso, tra i severi banchi di legno scuro, le vetrate colorate, le pareti bianche e spoglie e un imponente magnifico organo che si prende tutta la scena.

Ogni tanto ci sediamo su una panchina, ci gustiamo l’atmosfera, ci immaginiamo a passeggiare qui in abiti lunghi con maniche a palloncino, come vecchie signore olandesi. Ci guardiamo intorno e ci sentiamo come due turiste a spasso per un borgo storico di qualche città europea. Ci facciamo foto stupide, con cappelli e cestini di fiori, appoggiate a qualche muro o davanti a “pezzi da museo” a cielo aperto e “oggetti di scena”.
È un po’ Truman Show un po’ weekend ad Amsterdam, ma in un posto in cui per le sostanze stupefacenti c’è la pena di morte.


Sicuramente è ancora Indonesia, è ancora – soprattutto – Giava, e c’è qualcosa che ce lo ricorda più di tutto: l’aspetto soprannaturale che si cela dietro tutti questi resti vuoti. Gli scheletri nei vecchi armadi coloniali tirati a lucido ma col doppiofondo ancora stipato di vecchi ricordi.
I fantasmi di Semarang.

Spiegel
Kantoor
St. Immanuel / Blenduk
Organi dal passato
Cornicioni
Kota Lama
Il corso di Semarang
Resti coloniali
Anticaglie
Il mio mondo per un becak
Becak ‘n’ drive
Portoni
Radici
Turiste della Città Vecchia

Il palazzo dalle mille porte

Uno degli armadi più pregni di scheletri, in questo senso, è il Lawang Sewu, la nostra ultima tappa del giorno. Si tratta di un vecchio edificio coloniale, quartier generale della Dutch East Indies Railway Company, la prima compagnia ferroviaria portata a Giava dagli olandesi.
Lawang Sewu significa letteralmente “mille porte” ed in effetti non mancano infissi.


È un edificio enorme pieno di stanze e cortili. Oltre che essere noto come una delle maggiori attrazioni turistiche della città, luogo di interesse storico e museo dello sviluppo ferroviario, è un gran bel covo di fantasmi. Tutti lo temono e lo considerano persino pericoloso. Non c’è giavanese che non sussulti al pronunciare del suo nome e che non ti metta in guardia dall’entrarci senza protezione.

Noi ci andiamo a cuor leggero.

Parcheggiamo il motorino per 5000 rupie, i parcheggi a Semarang sono decisamente più costosi rispetto a Yogyakarta. Dato che abbiamo ancora più di tre ore prima della chiusura, decidiamo che forse è meglio mangiare prima.


Andiamo in cerca di cibo lungo la superstrada. Dopo un chilometro di esosi ristoranti cinesi e inutili centri commerciali, giriamo in una vietta secondaria piena dei cari vecchi warung. Uno millanta nasi rawon (zuppa di riso e carne di manzo) ma non ce l’ha. Un altro espone ostriche a prezzi convenienti ma quando andiamo a chiedere costano il triplo.
Un intero lato del marciapiede è occupato da chioschi che vendono i lumpia (involtini primavera), considerati uno dei cibi tipici di Semarang. Un altro lascito dell’immigrazione cinese. Chi può dire cos’è veramente tipico a Semarang, eccetto Semarang stessa?

Finiamo sotto un cavalcavia a mangiare sate (spiedini di pollo) grigliati senza salsa di noccioline né ketchap manis (salsa di soia dolce). A Yogya non ci sono riuscita in cinque anni a fargli capire che si, davvero li volevo senza salsa, è possibile, basta non aggiungerla.
Ci sediamo con una famigliola che va ghiotta di lontong (tortine di riso gommoso) e ossa di pollo rifritte. Se ne portano anche un bel pacco a casa, tanto per non rimanere senza.

Sulla via del ritorno decidiamo di prendere il sopra-passo per evitare di morire sulla strada. Vanno effettivamente veloci. Anche più di me.
Mentre siamo intente a salire sulla lugubre scala di metallo, udiamo un cane che abbaia. Sembra provenire dal sottotetto del negozio adiacente. Decidiamo di entrare ad avvisare la negoziante, probabilmente il cucciolo è rimasto intrappolato.


È un negozio di ottica gestito da una signora cinese sorprendentemente preparata in materia (soprattutto per gli standard ai quali sono abituata a Yogya, in cui chiunque si apre un’attività senza effettivamente essere uno specialista del settore). La donna ha parenti che hanno aperto altre attività a Singapore.

Le comunità diasporiche cinesi si espandono secondo reti di parentela in tutto il sudest asiatico, aprono business, fanno fortuna e poi portano tutto in Cina. Per questo i locali non vedono di buon occhio i cinesi, li considerano una delle maggiori cause della crisi economica. Il fatto è che ormai molti di loro sono qui da generazioni, hanno cittadinanza indonesiana, nomi indonesiani, parlano correntemente l’indonesiano (più raramente il giavanese) e hanno figli indonesiani. La signora è molto socievole e ci facciamo una bella chiacchierata. Sarà che vedendomi straniera scatta automaticamente quel senso di fratellanza tra passaporti fuori dal +62, siamo entrambe la parte “discriminata”.

Finisce che mi compro delle lenti a contatto colorate non graduate. L’ultimo ritrovato della moda asiatica. Tutte le mie amiche ormai hanno occhi viola o grigi spiritati tre volte più grandi del normale. Non pensavo di finire anche io nel circolo vizioso dell’estetica femminile d’imitazione coreana. E non pensavo di trovare lenti colorate attraversando su un cavalcavia a caso. A Semarang davvero tutto è possibile.

Siamo quindi pronte per affrontare il Lawang Sewu, ad un’ora dalla chiusura. È già buio. Sempre tempismi invidiabili.

Il bigliettaio ci stacca un foglietto di carta con ghigno da migliori film horror, dicendo di non preoccuparci se siamo le ultime visitatrici, poiché: “Non saremo sole, troveremo tanti amici là dentro”. A questo punto quasi mi aspetto Hitchcock che mi guarda col sopracciglio alzato.

Ma ancor più inquietanti del bigliettaio sono i cartelli all’ingresso su cui sono stampati listini prezzi di assicurazioni sulla vita e in caso di incidenti causati dalle “presenze”. La prendono davvero sul serio questa faccenda. Un po’ comincio a preoccuparmi pure io.

Entriamo in un atrio deserto con luce giallognola. È obiettivamente inquietante e ci siamo solo noi. Cominciamo ad aggirarci tra le “porte”, lungo i colonnati e per le aule vuote, con qualche esposizione di vecchi cimeli coloniali qua e là. Telegrafi, mappe di treni, vecchie foto.

Il complesso si snoda lungo diversi padiglioni che affacciano su un enorme cortile centrale. Anch’esso abbastanza spettrale. La maggior parte dei piani superiori sono chiusi all’accesso del pubblico – e viene da chiedersi perché – nonostante l’edificio sembri ancora in ottime condizioni.

Assicurazioni sulla vita
Lawang Sewu
Le mille finestre…
…e le mille porte

In uno degli edifici vi è una scala a chiocciola accessibile, non ci pensiamo due volte. Ci affacciamo dalla loggetta a guardare di sotto. Per poco non ci prende un colpo. Poi capiamo che sono solo altre due ragazze… in hijab bianco. Una scelta d’abbigliamento azzeccata. Ma loro ci rimangono ancora più secche trovandosi davanti la mia bella faccia pallida europea. Alla fine capiamo che nessuno di noi è un fantasma e continuiamo tranquille.

Su uno dei terrazzini succede qualcosa di strano. Mentre sono affacciata Nisa comincia a toccare un punto vuoto nell’aria. Dice che è più caldo rispetto ad altri punti. Provo a toccare anche io. Non so se è suggestione, ma in effetti sembra leggermente più caldo. Non so da che dipenda.
Quindi, in pratica, concludiamo la serata abbracciando presenze immaginarie in cima ad un edificio coloniale infestato.
Che dire, adoro Semarang.