Voci dal nord

Capitolo 7 – Quel ramo del lago di Uthua

«È stato un bagno di umanità questo viaggio a est. Mai come questa volta non sono stato io a fare il viaggio, ma le persone che ho incontrato. Come dire che è stato il viaggio a fare sé stesso, ignorando i miei schemi mentali. Ha funzionato forse perché sono partito sapendo poco, e forse i viaggi che riescono meglio sono quelli che non si fa a tempo a preparare. Quelli che si affrontano senza una zavorra di libri. In leggerezza. Portandosi dietro nient’altro che l’esperienza dei nomadismi precedenti».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

6 luglio 2013

Uthua, Russia

Hotel dell’esercito della speranza
(Sembra d’essere sul set di Ogni cosa è illuminata)

Ore 16.00

Più procediamo in questo viaggio surreale, più la mia riconsiderazione di Oulu sale alle stelle. In questo momento la vedo come la punta di diamante della movida nordica.

Mi trovo una panchina nello spiazzo antistante l’ingresso di questo surreale alberghetto dal nome Sampo (più o meno come chiamare Elicona la Stazione Tiburtina), centro pulsante di questo paesello sperduto nella Carelia russa.

Trattasi di catapecchia in assi di legno color verde acqua stinto, vessata da anni intemperie, costituita da: due piani di camere da letto in pieno gusto kitsch anni ’70 (comprensivo di tendine azzurro fluo cangiante); saletta ristoro per pochi intimi (che funge anche da mensa, ma forse anche da lavanderia e rimessa, chissà); scala con corrimano in velluto rosso e interni rosa confetto in fantasie disegnate credo da Stalin in persona.

Tutto è già pagato e organizzato dai responsabili del Sommelo Festival. I nostri nomi sono già schedati (in cirillico, molto pittoreschi) nella lista dell’albergatore, già assegnati ciascuno alla sua camera.

Ci forniscono gentilmente anche il calendario degli spettacoli, ai quali immagino sarà difficile sottrarsi data la situazione (non vedo un futuro nel vagare da sole per le vie di questo posticino – “Dove volemo annà?” cit. Fra).

Il magnifico hotel Sampo
…e dintorni.
Trionfo del nulla
Le facilities

Diciamo che già la tappa della pausa pranzo era stata abbastanza “indicativa” e lasciava presagire l’avvenire, in un certo qual modo.

Era una sorta di prima tappa di iniziazione a questo mondo altro situato in un passato contemporaneo in cui ora ci troviamo immerse fino alle doppie punte.

A cominciare dagli interni gusto DDR, la Lada modello guerra fredda che troneggiava fiera nel cortiletto d’ingresso come un totem, quei servizi in porcellana scompagnata dai motivi floreali e i colori improbabili (tipo marrone salamoia translucido), gli scaffali di barattoli e prodotti alimentari dietro il bancone, che erano lì, immobili come cimeli da museo, da chissà quanto tempo…

E poi il cibo.

Il menù gentilmente offerto dalla casa si componeva di:

  • ZUPPA, a scelta di carne (contenente: wurstel, olive nere, carne macinata, patate, carote, pomodori, aneto, ingredienti vari non ancora bene identificati) o pesce (acqua aromatica con cetrioli).
  • PORTATA PRINCIPALE. Ergo pesce di lago panato (unica cosa mangiabile e in effetti mangiata, a mezzi), cetrioli a fette con buccia, pasta-pongo bianca e molliccia (consumata dagli astanti con ingenti quantità di ketchup, con nostro enorme sgomento e disgusto).
  • Caffè
  • Cioccolatini al gusto mou (di cui ovviamente è stata fatta soddisfacente scorta, tanto perché ci mancava un po’ di cibo).

Abbiamo consumato tutto ciò (o piccola parte) sedute al tavolo con due sorelle finlandesi figlie dei fiori conosciute al festival – Dottor Martins a stampe naturali, stoffe etniche, trecce lunghissime e anelli al naso -, una etnomusicologa come noi e l’altra pittrice ma molto legata alla sorella e dunque presente in questa avventura in veste di accompagnatrice.

Il tutto è nato quando una di loro si è accostata a noi – il che, in un tripudio di generale diffidenza è apparso come il Miracolo nella 34ma strada – curiosa di sapere come due italiane fossero finite lì. E da lì è nata una piacevole chiacchierata su reciproci interessi e sul festival in generale, più tante utili informazioni sui luoghi da visitare in Finlandia gentilmente forniteci.

Bon apetit
Il retrobottega
Aggiungi un posto a tavola
Saluti dalla Carelia russa

Ora, dato che ha cominciato a piovigginare, chiudo baracca e burattini e aspetto il da farsi, mentre Fra si diletta con le foto in riva al lago (si, c’è un lago anche qui).

E comunque è il clima più brutto che abbia mai visto. È umidissimo, fa caldo ma non c’è il sole, e quando quasi ti ci sei abituato comincia a venir giù questa pioggerellina fastidiosa tanto per ricordarti di non desistere dal provare disagio.

Aggiornamento delle 16.15

Niente di nuovo sul fronte…orientale.

Siamo sempre qui. Sedute sotto la pioggerellina ad aspettare Godot.
La situazione non si sblocca, degli altri non c’è traccia.
Comincio a preoccuparmi.

Nel frattempo passa davanti a noi una vecchietta in abiti di altra epoca, “appena uscita dal salotto di Anna Karenina” cit.

Comincia a balenarci in mente l’idea che sia tutto frutto di una messa in scena allestita allo scopo di impressionare noi poveri visitatori occidentali ghiotti di esperienze surreali che li confortino sul loro stato di progresso nel quadro mondiale.

Ma forse siamo troppo malfidate.

Le signore careliane

Quel ramo del lago di Uthua

Ore 00.30

In questo momento mi trovo sulla riva dell’ennesimo lago, ma un lago russo, in balìa di zanzare russe, dopo aver trascorso una serata russa.

Ma rispettiamo la scaletta annotata a matita al lato della pagina durante il corso della giornata per non scordare dettagli. Non voglio perdermi nulla di quest’esperienza.

(Nel frattempo sto andando in overdose di zanzare).

Eravamo rimaste alla nostra attesa fuori dall’albergo.

Alla fine scopriamo, dopo aver aspettato invano mezz’ora, che gli altri si erano già avviati.

Mi pare giusto.

Ci avviamo a nostra volta verso il concerto nel centro artistico di Uthua, in compagnia delle nostre amiche fricchettone.

Il concerto.

Io vorrei tanto essere discreta, ma in questo momento sono alticcia dunque temo che non lo sarò affatto.

A dirla tutta, io il senso di quell’esibizione, non l’ho capito. Ma mi riservo di pensare che sia stato maggiormente a causa della lingua (rigorosamente finlandese) che non mi ha permesso di seguire il filo concettuale.

Entra una tizia (Anne Mari Kivimaki) in sella ad una bicicletta gialla, recando con sé tre o quattro accordion colorati. Quello che segue è un misto di recitativi, esercizi ginnici, pantomimica alla Benigni, bossanova, il tutto scandito da siparietti di scene rurali, musiche suonate da Anne Mari in persona – devo dire però molto bene – sui diversi accordion, e canto in synth inframezzato ad alcuni brani.

Abbiamo passato le due ore più lunghe della nostra vita, Fra a combattere con la sua testa che crollava di sulla spalliera dal sonno ed io che dal mio canto avevo il problema opposto: attacchi compulsivi di risata, forse dovuta anch’essa alla stanchezza. Del resto abbiamo ore di sonno arretrate che sommate basterebbero ad allungare di tre giorni l’anno solare.

Dopo di che, finalmente, la cena.

Uscite dal centro artistico, seguiamo la folla di volti noti come vacche nel periodo di transumanza, e…

Breve incursione presente

Nel frattempo la situazione si è evoluta.
Si è appena svolta la seguente scena qui sulla sponda del lago.

Mentre tentavo di partorire il benedetto resoconto pomeridiano, qui in riva al lago corredata di zanzare di ogni modello in commercio, odo voci chiamare: “Italia, Italia…”.

Giusto perché non posso perdermene una, mi fiondo a sedere al tavolo di legno in giardino con i cinque ragazzetti russi che bevevano allegramente birra economica in maxi bottiglie di plastica.

Purtroppo nessuno di loro parla inglese, tranne uno che capisce pochissime parole. Non so come però, nasce una conversazione spettacolare in un mix di lingue, gesti e disegni sul mio diario.

Reperti #1
Reperti #2

Si avvicina un ragazzetto e mi fa: “Priviet”.

Me: “Hello”

Lui: “Russia…”

Me: “Italian”

Lui: “Ah…no speak Italian…”

Me: “English?”

Lui: “No”

Ci scambiamo sguardi di rammarico data l’evidente impossibilità comunicativa, dopo di che torna dai suoi amici.

All’inizio mi limito a un sorriso e mi rimetto china sul diario, ma poi decido che non posso perdermi così questa occasione di socializzare con persone che chissà quando rincontrerò in vita mia, probabilmente mai. Chiudo il diario e vado io, lì, a sedermi con loro.

Contro ogni aspettativa – in fondo sono diciassettenni cresciuti in un angolo sperduto di mondo rimasto a cinquant’anni fa tra lamiere, trattori e mancanza d’igiene – sono educatissimi. Quello che mi era venuto a chiamare giù in spiaggia è timido ma le poche parole che dice sono gentili, dette con gli occhi luccicanti e capo chino da chi si vergogna a morte. Mi trattano come fossi chissà che spettacolo raro caduto dal cielo nel loro regno dimenticato.

È una sensazione stranissima. Sono quasi più in imbarazzo di loro.

Dopo non so quanto tempo passato lì a discorrere dei nostri mondi a confronto, con ogni linguaggio conosciuto tranne quello parlato, è come se avessimo passato un’intera estate insieme.

Ci salutiamo con baci e abbracci, e mi faccio anche una foto col mio devoto ammiratore (purtroppo sul suo cellulare quindi non la possiedo).

E così, col cuore colmo di bellissime sensazioni fissate per sempre in calce nel mio patrimonio genetico, torno trasognata da Fra, che dorme già da tempo nel suo lettino.

Faccio di tutto per non disturbarla, invano. Il parquet è più rumoroso di una processione di paesani con traccole il giorno del Venerdì Santo.

Tuttavia riesco a raggiungere il mio giaciglio in modo abbastanza discreto e faccio quello che tutt’ora sto facendo. Scrivere.

Bisognerà fare un flashback per tornare al punto in cui ero rimasta prima del convivio con i careliani.

Ritorno al passato

La cena.
La mandria di vacche.
Il caratteristico ristorante russo in cui le nostre papille gustative hanno fatto buon viso a cattiva igiene.

Ecco, a questo non ci ero ancora arrivata.

Approdiamo in questo ristorante rustico e ci fanno accomodare a dei tavoli apparecchiati, sui quali troneggiano insalate di verza e le beneamate tortine al riso e patate (credevamo di averle seminate uscendo dalla Finlandia, ma evidentemente è proprio una specialità careliana che non conosce confini).

Io e Fra prendiamo posto sole solette come al solito, ma poco dopo si aggiungono a farci compagnia un gruppo di signore russe vestite in abiti tradizionali. Vorrebbero scambiare qualche parola con noi ma come al solito la lingua ce lo impedisce.

La portata principale consiste in maiale con panna acida, formaggio fuso, cipolle, mais, piselli e purea di patate. Buono. Tanto che mi mangio pure quello di Fra che non ha gradito. Tanto non ho problemi. Grazie ad un brevetto innovativo applicato al mio stomaco da chissà che morbo contratto in qualche parte della regione, non assimilo nulla. Per dirla in modo carino, una persona che non ha i miei problemi di stitichezza vedrebbe la Russia dall’oblò della latrina pubblica. Quando le intossicazioni alimentari ti tornano utili.

Comunque, tutto sommato la cena non è stata poi così male. Non quanto il pranzo, per lo meno. Notevole il succo di bacche rosse, una vera e propria droga. Se non fosse che abbiamo scoperto che rimescolavano quello avanzato dai bicchieri, un po’ come anche la zuppa, qua non c’è spazio per gli sprechi. Anche il tè caldo non era male. Certo, avrei potuto evitare di allagarci il tavolo. Le solite figure barbine.

Insomma, tra un disguido e l’altro – vedi: Fra che tenta in tutti i modi di racimolare le tortine avanzate dai tavoli altrui andando incontro ad una serie di ingloriosi insuccessi – usciamo dal ristorante.

Per ultime. Ergo, sole. Ergo, in balìa di noi stesse, delle indicazioni in cirillico e della poca affidabilità degli abitanti di questo paesello sperduto.

Era proprio quello di cui avevamo bisogno.

Cerchiamo in tutti i modi di mantenere un contegno stoico e incamminarci lungo le vie tutte uguali, come se sapessimo esattamente in che direzione fosse il centro, ma soprattutto da quale direzione fossimo venute.

Dunque, come potevasi prevedere, ci perdiamo.

Ma poi, fato vuole che incontriamo LEI. L’eccentrica signora russa, che è la nostra referente del Sommelo locale. Ci viene incontro con il suo fare (che scopriremo consueto) alquanto “espansivo” e “plateale” (se non fossi certa della sua origine la darei per certa partenopea) e ci salva.

Tra un accorato discorso e l’altro su varie faccende personali per noi di scarsissimo interesse, ma che ascoltavamo rapite data la verve con le quali erano espresse, coadiuvato da un divertente “pasticciaccio” di russo, francese e inglese sbagliato, ci scorta fino al centro artistico dove ha luogo il prossimo concerto.

Prendiamo posto ancora incredule di essere lì, incolumi per giunta, e ci accingiamo ad assistere allo spettacolo. Che va più o meno così:

  1. Saggio di kantele e voce di bimbi poco intonati ma dopotutto piacevoli.
  2. Altro saggio di kantele di principianti.
  3. Le tenere signore russe cimentatesi in canti e danze tradizionali in costumi coloratissimi in vecchio stile careliano. Decisamente decontestualizzate lì su quel palco, ma comunque favolose.
  4. I musicisti polacchi, bis. Oggi ci coinvolgono di più della volta scorsa, ma comunque non capiamo il nesso con tutto il resto.

Finito il tutto facciamo ritorno all’albergo e, dopo esserci ingozzate di mele, vai a capire perché, ci prepariamo per la serata: varie performance musicali nel cortile dell’albergo.

Quando scendiamo ancora ci sono poche persone presenti. Mi prendo una birra sconosciuta recante logo di orso sulla confezione (strano) e comincio assieme a Fra a fare riprese e registrazioni delle signore russe che nel frattempo si sbizzarriscono nei loro canti e danze, con molta più naturalezza e genuinità rispetto a poco prima.

Levate le luci artificiali e l’imbarazzo da palcoscenico, la situazione cambia notevolmente. Loro si divertono da morire e coinvolgono gli astanti nelle loro giravolte, finché anche i musicisti polacchi tirano fuori i loro strumenti e accompagnano la festa con polke e mazurke.

Altre persone cominciano ad affacciarsi e la serata prende decisamente il via.

Una delle signore porta un pane che asserisce esser fatto di corteccia di pino (almeno questo è quello che ho capito tra russo, finlandese, gesti e il tentativo di qualche anima pia di arroccare traduzioni in inglese) e ce lo fa assaggiare passandolo di mano in mano.

Poi accade. Un delle scene più belle alle quali abbia assistito. La signora acchiappa Fra con un braccio, il leader dei musicisti polacchi con l’altro, e li schiaffa una al centro e uno fuori del cerchio in veste di “principe e principessa”, protagonisti del prossimo divertentissimo gioco danzante. Lo scopo è ovviamente quello di unirsi e celebrare l’avvenuta riconciliazione danzando insieme contorniati da tutti gli altri. Divertentissimo, Pagherei oro per tornare indietro e filmare il tutto.

Dopo una serie di altri balli in cerchio, in coppia o in trio (questi decisamente intricati), ci sediamo un attimo a riprendere fiato.

Ma non è finita qui. I musicisti incalzano e dai di nuovo al ritmo di polka e quadriglia, supervisionate dal bassista polacco che si scopre essere anche maestro di ballo.

Poi Fra è stanca e decide di ritirarsi nelle sue stanze.

E lì io, rimasta da sola senza Fra a pormi freni di buonsenso, creo il panico.

Inizialmente mi metto buona buona a lato della pista da ballo, ad osservare gli ultimi pochi temerari danzanti (per lo più coppie, agili e capaci).

Ma poi succede. Il clarinettista mi invita a ballare, ed io, al colmo dell’imbarazzo tento in tutti i modi di fargli capire seriamente a cosa sta andando incontro. Ma lui non demorde: è polka.

Cioè… è me che pisto i piedi a lui e mi muovo in modo goffo mentre lui mi rassicura muovendosi in modo fluido e sicuro.

Fortunatamente una voce interrompe la festa: si è fatto troppo tardi per suonare all’aperto, bisogna spostarci nella sala relax, cioè mensa, cioè l’unica sala presente nella hall dell’albergo insomma.

La musica s’interrompe, il mio cavaliere effettua un cavalleresco baciamano e tutti si avviano alle scalette d’ingresso.

Io decido che per oggi di danza ne ho abbastanza, dunque rimango un po’ fuori con la mia amica freak, che ora è anche ubriaca, il che non rende le cose affatto semplici, a parlare.

Poi la situazione si complica. La referente russa (un’altra che te la raccomando) si aggiunge al convivio, assieme al violinista polacco.

A questo punto, la lingua inglese riprende il suo soprabito color fumo di Londra dall’appendiabiti e se ne va a braccetto con la mia unica speranza comunicativa. Insomma si crea il solito melting pot di lingue incomprensibili (tra le quali il russo ha decisamente la meglio), durante il quale io rimango impalata come uno stoccafisso a seguire i movimenti labiali, e a cercare di dare un filo che non sussiste ad un discorso che non comprendo affatto.

Nel dubbio sorrido, e annuisco.

Li convinco quasi della mia pertinenza in materia di Perestrojka, quando vengo malauguratamente interpellata al riguardo con occhiate inquisitorie.

Al che tiro fuori tutta la mia diplomazia e affermo placidamente: “I’m sorry, I’m trying to listening what you’re saying, but I think I can’t understand a word”.

E così, sollevando lo strascico della mia vergogna come un velo da sposa che va all’altare, mi alzo, mi congedo e cammino a passo deciso verso l’albergo con tutta la dignità reperibile.

Dato che le uniche due opzioni di socializzazione mi erano ormai precluse – con la danza avevo chiuso per sempre e la conversazione poliglotta si era rivelata una catastrofe – ma di dormire non se ne parlava (era solo mezzanotte del resto, avevo ancora ore di luce davanti a me e un’intera realtà da esperire), pervengo ad una ferma decisione. Salgo in camera, prendo il diario – “Vai a scrivere le tue prigioni?” cit. Fra – e mi siedo in riva al lago immersa nella natura e nella poesia (e nei pizzichi, aggiungerei).

Il resto da qui è noto.

Ah no.

Mi sono dimenticata della chicca della giornata però: la LOTTERIA TRASH.

Si, perché bisogna dire che dopo il concerto c’è stata la degna conclusione: l’estrazione dei premi sul palco. Presentata dalla referente russa, come se non bastasse.

Basterà descrivere i premi in palio per rendere l’idea:

  • la maglietta del Sommelo Festival (e fin qui…)
  • un ingombrante e improponibile pacco fuxia glitterato a sorpresa (ignota, ma se l’abito fa il monaco Dio ce ne scampi)
  • un aggeggio di dubbio utilizzo tipo lampada per zanzare da giardino
  • una bicicletta (questo era il più decente)
  • un cellulare modello sbarco in Normandia
  • e poi loro… le cesoie da giardino (lunghezza circa 1 metro)

Se le avessimo vinte io e Fra penso che avrei riso per tre mesi.

Insomma, una giornata intensa. Tanto che alle tre del mattino sono ancora qui a registrare accadimenti in ogni singolo dettaglio.

In effetti sarebbe anche ora di coricarmi su questa perla di design sovietico, confidando che la giornata di domani (cioè in realtà è già oggi) sia altrettanto memorabile.

Sempre se avrò la faccia di presentarmi giù domani mattina, dopo gli ingloriosi fasti di poco fa.