«Anummenpaia il reverendo Huuksonnen aveva notato che con l’arrivo dell’autunno l’appetito di Satanasso era cresciuto notevolmente. Era capace di inghiottire con un colpo solo anche due chili di wurstel economici e dopo solo poche ore era capace di reclamare di nuovo da mangiare».
(Arto Paasilinna, Il migliore amico dell’orso)
6 luglio 2013
Pullman per la Russia
Ore 16.18
Il panico.
Sto creando il panico.
Cibo ovunque, non si sa dove metterlo.
Ma andiamo con calma.
Dopo una nottata quasi in bianco – perché ovviamente le poche volte che abbiamo un letto semi decente non riusciamo a chiudere occhio e poi ci viene sonno sull’ottovolante – ci tiriamo su in un modo o nell’altro, addirittura prima della sveglia.
E così, preparati i bibitoni di caffè (due bottiglie sane) e raccolti i cesti da Yoghi & Bubu, ci incamminiamo come zombie sul set dell’Alba dei morti viventi.
Arriviamo tra i primi all’appuntamento e aiutiamo a caricare i bagagli sul pullmino.
Poi la dolceamara sorpresa: gli organizzatori hanno preparato per ognuno una sporta (cioè, una busta, qui è gente semplice) della merenda, comprensiva di:
- mele e banane (vs i dieci chili acquistati da me e Fra al mercato)
- pane e panini di segale (vs quello che abbiamo reperito in abbondanza per l’intero inverno lappone credo)
- succo alla fragola (giusto perché ne avevo presi due pacchi al lampone di scorta)
- acqua (vs nostre capienti borracce militari colme fino all’orlo)
Dunque, nell’imbarazzo generale, prendiamo posto sulla vettura cariche come mule di ogni sorta di vivanda.
In questo momento sto creando lo scompiglio più totale, presa dal forsennato tentativo di incastrare i voluminosi involti tipo Tetris tra un sedile e l’altro. Tutto ciò mentre il gruppo di musicisti polacchi fanno il loro ingresso trionfale di fronte a me. Magre, magrissime figure.
Tenteremo a breve di goderci questo lungo viaggio, facendo il possibile per smaltire quantità immonde di cibo, a costo di rimanere incastrate nelle porte del bus all’arrivo.
Totò e Peppino la vendetta.
Porca miseria.
Lo sapevo.
Carelia, Frontiera russa
Ore 8.26
Siamo appena reduci da un’esperienza traumatica che credo non scorderò facilmente: i controlli alla frontiera russa.
Prima tappa: FRONTIERA FINLANDESE DI USCITA.
Abbastanza indolore. Si limitano ad un rapido controllo passaporti.
Seconda tappa: FRONTIERA RUSSA DI ENTRATA.
E qui…
Tra i dettagli più pittoreschi:
- Addetto con lungo bastone dotato di specchietto all’estremità inferiore che effettua controlli nelle parti meccaniche al di sotto delle vetture.
- Cani addestrati che scorrazzano forsennatamente in lungo e in largo per l’area di servizio come fossimo all’aeroporto di Caracas.
- Controllo maniacale strumenti musicali (30 minuti a rigirarsi un violino cercando di scovare quali misteriosi ordigni si celassero nella cassa armonica).
Ovviamente sono quella che ha speso più tempo al controllo passaporti. Non ho capito quale fosse il problema, ma forse non voglio capirlo.
Ho passato attimi cupi. L’addetta allo sportello scambiava occhiate torve con un altro addetto che blaterava cose incomprensibili tra le quali sono riuscita ad afferrare due o tre “italie”. Il che, non promette mai nulla di buono.
Ad un certo punto lui prende il mio passaporto, esce dal gabbiotto, e si chiude per un quarto d’ora in uno stanzino.
Poi però ritorna, e pare sia tutto a posto.
Evidentemente si sono convinti del mio poco promettente futuro da terrorista. Ho un outfit troppo ben abbinato per potermi permettere di esplodere e mandarlo in pezzi.
Riusciamo dunque a passare oltre (tipo Ghost Whisperer) e attraversiamo un metal detector in cui credo suonassero anche i pigmenti minerali dell’ombretto.
L’unico modo per evitare la colonna sonora dell’allarme in perpetuo ostinato era forse un’equilibrata dieta priva di ferro e sali minerali. Ma non credo di scoprirlo nei prossimi vent’anni.
Anni, che poco dopo ho visto scorrere dinnanzi a me alla velocità di un fotogramma, nel momento in cui una robusta signora mi ha fatto cenno, con la solita gentilezza che li contraddistingue, di aprire la borsa. Dopo aver fatto bella mostra del mio registratore Tascam, appurato che l’unica cosa esplosiva contenuta in esso era la prova audio in modalità stereo fatta da me e Fra (uno squisito Fra Martino campanaro a due voci) mi lascia finalmente andare.
Ma non finisce qui: c’è una terza frontiera. Ritira fuori i passaporti.
Come avessero paura che possano autodistruggersi un minuto e cento metri dopo averli mostrati. Non c’è neanche il tempo di perderlo.
Dopo tutto ciò finalmente si fa tappa utile alla stazione di servizio, dove cambiamo i soldi e acquisto due pacchetti di sigarette gusto fragola e mela verde al prezzo di soli 41 rubli (circa un euro).
Ora, passato il quarto controllo (forse, stiamo esagerando), mi accingo a godermi un po’ di paesaggio dell’arcigna campagna russa.
Detto ciò chiuderei qua, visto che scrivere su questa strada fresca d’aratro è uno stillicidio. Più che un pullman sembra il Blu Vertigo. Per decifrare queste frasi quando le trascriverò al computer dovrò fare appello a tutte le competenze acquisite nell’ultimo esame di filologia romanza.
Altro che Chansonnier du Roi.
Sorta di tavola calda della quale non si capisce la ragione d’esistenza, nel nulla della foresta russa.
Ore 12.29 (ovvero le 13.29 russe)
Il viaggio continua tra MONTAGNE RUSSE (in tutti i sensi), paesaggi improbabili e surreali, boschi impervi, scarpate, cigli della strada ben poco curati, e guardrail scassati dei tempi di Nikola II o giù di lì.
Il pullmino arranca a fatica tra buche, pozzanghere, e credo sabbie mobili mentre, ad un tratto, cominciano ad apparire ai bordi della strada inquietanti relitti di automobili semicarbonizzate, che sembrano quasi esser state posizionate come monito per indesiderati avventurieri.
Ad un certo punto, nel bel mezzo del nulla, la guida ci avvisa: chi vuole può scendere a fare pipì.
E via nei campi. Sotto la pioggia, fradici, con sabbia umidiccia nelle scarpe, erba alta fino ai fianchi, e gloriosi rotoli di carta igienica sventolati all’aria come trofei.
Questa è Sparta…
No. Questa è Russia.
Dopo circa altre due orette passate tra consumo compulsivo di cibo – barrette di cioccolata alla menta e cioccolatini al marshmallow, il fegato l’abbiamo lasciato a Kuhmo – e lettura di un e-book gentilmente prestato da Fra dal significativo titolo Il migliore amico dell’orso, giungiamo ad una meta, anche se non è quella definitiva: la tavola calda.
Ergo baracca in legno con ampio spiazzo posteriore stile ranch del Montana, ma più nel nulla.
Tra trattori e attrezzature da cantiere, e macchinari per la lavorazione del legno, spicca parcheggiata davanti l’entrata principale una Lada appena espulsa dallo Stargate dietro l’angolo.
Si rimanda a dopo un racconto più dettagliato della pausa pranzo, causa pullman in partenza su una strada costruita con dinamite e colla a caldo (è l’unica spiegazione possibile).

In viaggio
Ore 13.46 (o 14.46)
Continuo a leggere con alacrità il racconto di Arto Paasilinna, Il migliore amico dell’orso.
Arrivo alla parte in cui l’orso divora ogni sorta di pietanza e scoppio a ridere come una pazza svegliando Fra.
Avverto come una sensazione di Deja-vù.